True
2022-05-11
Il caos sanzioni fa saltare il primo Paese
(Photo by Pradeep Dambarage/NurPhoto via Getty Images)
L’Europa non perde l’occasione per prendere tempo. Ieri così è stata la giornata del corteggiamento a Viktor Orban. Fino a poco tempo fa il premier ungherese era, per Bruxelles, la rappresentazione della negatività, adesso è l’interlocutore da coinvolgere a tutti i costi nella speranza di portare a casa le sanzioni contro il petrolio russo. Un divieto alle importazioni che Budapest non può accettare alle condizioni attuali. Nemmeno la proroga proposta da Bruxelles che fa slittare l’obbligo, non solo per l’Ungheria, ma anche per la Slovacchia (fino al 2025) e Repubblica Ceca (a metà 2024) non basta. E quindi la Commissione ha messo sul tavolo i fondi di compensazione. Serviranno a permettere all’Ungheria di investire per rendersi indipendente dal greggio russo. Non solo con nuovi oleodotti, ma anche per aggiornare le proprie raffinerie. E, ovviamente, investire di più sulle rinnovabili.
Il tutto farà parte del pacchetto RePower Ue che la Commissione presenterà la prossima settimana. Dopo aver promesso soldi l’intenzione è far approvare le sanzioni prima di quella data. Per il sottosegretario agli Affari europei, Clement Beaune, «è possibile raggiungere un accordo entro questa settimana». La Commissione europea, a detta del suo portavoce Eric Mamer, lavora per «l’adozione il prima possibile». Nell’incontro di ieri tra Ursula von der Leyen e Orban «sono stati fatti progressi sulle sanzioni, ma serve ancora del lavoro», hanno ammesso dalla Commissione. E una parte di quel lavoro doveva svolgersi con una videoconferenza tra i leader della regione nella mattinata di ieri. L’appuntamento è slittato. Solo Emmanuel Macron ha avuto un colloquio telefonico con Orban per «finalizzare, in uno spirito di solidarietà, le garanzie necessarie per le condizioni di approvvigionamento petrolifero» di alcuni Stati membri, ha spiegato l’Eliseo. Si capirà dunque di più nei prossimi giorni. Di certo, ieri, c’è stata solo la decisione di accantonare il divieto di trasporto del greggio russo su petroliere battenti bandiera europea. Secondo quanto ha riportato il Financial Times, sull’ipotesi di vietare anche l’uso di petroliere europee per i traffici di greggio russo erano pronte a fare le barricate Grecia e Malta. «Per questo l’idea è stata già abbandonata», si legge sul quotidiano della City.
Un peso in meno da sostenere e un colpo in meno all’economia del Vecchio Continente. Che ieri è finita per l’ennesima volta nell’altro tritacarne, quello del gas. Il gestore ucraino, in una dichiarazione sul suo sito Web, ha annunciato che non potrà più accettare il transito di gas russo attraverso Sokhranivka. Tuttavia, ha precisato, sarà ancora possibile reindirizzare i flussi attraverso un altro punto di ingresso, permettendo di rispettare i contratti europei. Gazprom ha subito risposto, negando di aver messo in piedi alcun ostacolo. Chi dei due sta ricattando l’Ue sul gas a questo punto è difficile capirlo, fatto sta che il continuo tira e molla e il prolungarsi delle indecisioni non contribuiscono certo a tranquillizzare i mercati. Il prezzo del gas ha ripreso a salire, a Londra dell’11%. Quindi, lo stillicidio di notizie, assieme ai colli di bottiglia peggiorati dai fermi di numerosi porti, non fanno altro che buttare benzina sul fuoco delle materie prime. E incendiare i Paesi più poveri. Meno di un mese fa lo Sri Lanka annunciò il default selettivo, non essendo più in grado di pagare in valuta estera l’acquisto di farine e altre materie prime necessarie per pane e altri beni di prima necessità.
Ieri la situazione è degenerata. Sette morti in un pomeriggio, oltre 200 feriti e immediato coprifuoco. Il ministro alla Difesa ha emanato un’ordinanza che autorizza tutti gli agenti di sicurezza a sparare a vista contro chiunque venga scoperto a danneggiare proprietà pubbliche o a causare danni.
La decisione arriva nel momento in cui il presidente stava dispiegando nell’isola decine di migliaia tra soldati di tutti i corpi e forze di polizia al termine di una notte all’insegna di scontri. Scontri proseguiti nonostante la successiva decisione del premier, Mahinda Rajapaksa, di farsi da parte. Il rischio di una guerra civile nell’isola sarebbe un problema nel breve termine per la Cina, che da tempo ha costruito legami stretti con l’ex colonia inglese. Ma le cause scatenanti della protesta non sono certo circoscritte.
Anzi secondo numerosi analisti il prossimo Paese nella lista dell’instabilità sarebbe la Tunisia. E, per noi, si tratterebbe di un enorme problema. D’altronde l’instabilità in Asia e in Africa possono essere armi a doppia lama. La Russia mira a innescare la miccia nel Continente nero, mentre il blocco atlantico punta a un gioco simile in Asia. La debolezza economica della Cina, che certo non viene rallentata dal riavvicinamento russo, spinge gli Usa ad alzare i toni. Ma il rischio da ambo le parti è che le fiamme, da focolai circoscritti, diventino incendi veri e propri e quindi finiscano fuori controllo. In tutto ciò, l’inerzia dell’Ue, aggravata dalle spaccature interne, non aiuta a trovare soluzioni e alternative. Non resta che da attendere l’involuzione del sistema della globalizzazione e l’avvio di una ulteriore spirale inflazionistica.
Il fermo dell’export della ceramica è già costato 13 milioni alle imprese
L’export italiano della ceramica verso la Russia nel 2021 valeva 59 milioni di euro, una cifra a cui vanno aggiunti i circa 18 milioni di euro di merce spedita verso l’Ucraina. In totale si parla di 77 milioni di euro di giro d’affari (364 milioni di metri quadri di piastrelle) in 12 mesi, circa 6,4 milioni al mese.
Se consideriamo che la guerra e le sanzioni sono partite da circa due mesi, possiamo stimare che le perdite per il mondo italiano della ceramica abbiano quindi già sfiorato i 13 milioni di euro. Di certo non si tratta di una cifra monstre, ma è chiaro che si tratta di un’altra piccola fetta di fatturato a cui i lavoratori italiani devono dire addio.
Per fortuna il mondo italiano della ceramica può contare su altri mercati che riescono a compensare in parte i problemi nati con la crisi russo ucraina.
D’altronde il mondo dei prodotti in ceramica è particolarmente energivoro e, al giorno d’oggi, questo continua a essere un ostacolo non da poco per il settore.
Come spiega alla Verità, Giovanni Savorani, presidente di Confindustria Ceramica, «lo scoppio della guerra ha spostato in avanti l’attesa flessione nel costo del gas che, tradizionalmente avveniva all’inizio della primavera a seguito dello spegnimento degli impianti di riscaldamento», dice. «Il giro d’affari verso Russia ed Ucraina vale oltre 50 milioni di euro, circa 1% del totale. Le mancate vendite su questo mercati sono supplite dalla crescita del mercato italiano ed estero». In effetti, fanno notare da Confindustria Ceramica, le esportazioni italiane verso gli Usa nel 2021 sono aumentate del +26% rispetto al 2020, collocandosi ad un livello superiore rispetto al 2019.
«Il costo del gas», continua Savorani, «è oggi aumentato del 500% rispetto alla media pre-pandemia, e va ricordato che in alcuni momenti siano arrivati anche a superare il 1.000%. Tutti i costi dei fattori produttivi e della logistica sono aumentati, anche se il problema più marcato per il settore gasivoro come il nostro rimane il metano. Dall’Ucraina importavamo il 25% delle materie prime, cosa che non potrà più accadere per i prossimi anni a causa del conflitto e della distruzione dei porti, in particolare di Odessa e Mariupol», spiega. «La strategia è stata di richiedere ai fornitori del restante 75% di aumentare la propria quota (fornitori basati principalmente in Paesi europei, ndr) e di ricercare nuove fonti di approvvigionamento in Paesi più lontani, come ad esempio l’India».
D’altronde, conclude il presidente dell’associazione, «la situazione della ceramica vede sul lato della domanda una positiva e forte dinamica già da diversi mesi, che ha riempito il portafoglio ordini delle aziende per settimane, fattore che, però, si confronta con fortissimi rialzi nei costi di tutti i fattori produttivi che mettono a repentaglio la marginalità».
A soffrire particolarmente, poi, all’interno del mondo della ceramica è il distretto di Sassuolo in Emilia-Romagna, uno dei fiori all’occhiello del settore in Italia. In particolare, questo distretto soffre della scarsità di approvvigionamenti di caolino e argilla in arrivo dal porto di Ravenna, due materiali cruciali per la produzione, in particolar modo per le piastrelle molto bianche e di grande formato.
L’obiettivo del settore, ora, è cercare di sostituire caolino e argilla in arrivo dalla Russia con prodotti analoghi in arrivo da Germania e Francia, ma ci sarebbe ancora dubbi sulla qualità dei materiali. Quelli che arrivavano da Est spesso potevano essere di fattura più pregiata.
Continua a leggereRiduci
La crisi infiamma lo Sri Lanka. La prossima a incendiarsi sarà la Tunisia: una minaccia per l’Italia. Stop al transito di gas russo per l’Europa attraverso Sokhranivka, in Ucraina. Il gestore: «Blocco imposto da Mosca». Gazprom: «Falso». E i prezzi salgono.Il fermo dell’export della ceramica è già costato 13 milioni alle imprese. Settore fiaccato pure da caro energia e scarsità di materie prime, vendute dalla Russia. Lo speciale comprende due articoli.L’Europa non perde l’occasione per prendere tempo. Ieri così è stata la giornata del corteggiamento a Viktor Orban. Fino a poco tempo fa il premier ungherese era, per Bruxelles, la rappresentazione della negatività, adesso è l’interlocutore da coinvolgere a tutti i costi nella speranza di portare a casa le sanzioni contro il petrolio russo. Un divieto alle importazioni che Budapest non può accettare alle condizioni attuali. Nemmeno la proroga proposta da Bruxelles che fa slittare l’obbligo, non solo per l’Ungheria, ma anche per la Slovacchia (fino al 2025) e Repubblica Ceca (a metà 2024) non basta. E quindi la Commissione ha messo sul tavolo i fondi di compensazione. Serviranno a permettere all’Ungheria di investire per rendersi indipendente dal greggio russo. Non solo con nuovi oleodotti, ma anche per aggiornare le proprie raffinerie. E, ovviamente, investire di più sulle rinnovabili. Il tutto farà parte del pacchetto RePower Ue che la Commissione presenterà la prossima settimana. Dopo aver promesso soldi l’intenzione è far approvare le sanzioni prima di quella data. Per il sottosegretario agli Affari europei, Clement Beaune, «è possibile raggiungere un accordo entro questa settimana». La Commissione europea, a detta del suo portavoce Eric Mamer, lavora per «l’adozione il prima possibile». Nell’incontro di ieri tra Ursula von der Leyen e Orban «sono stati fatti progressi sulle sanzioni, ma serve ancora del lavoro», hanno ammesso dalla Commissione. E una parte di quel lavoro doveva svolgersi con una videoconferenza tra i leader della regione nella mattinata di ieri. L’appuntamento è slittato. Solo Emmanuel Macron ha avuto un colloquio telefonico con Orban per «finalizzare, in uno spirito di solidarietà, le garanzie necessarie per le condizioni di approvvigionamento petrolifero» di alcuni Stati membri, ha spiegato l’Eliseo. Si capirà dunque di più nei prossimi giorni. Di certo, ieri, c’è stata solo la decisione di accantonare il divieto di trasporto del greggio russo su petroliere battenti bandiera europea. Secondo quanto ha riportato il Financial Times, sull’ipotesi di vietare anche l’uso di petroliere europee per i traffici di greggio russo erano pronte a fare le barricate Grecia e Malta. «Per questo l’idea è stata già abbandonata», si legge sul quotidiano della City. Un peso in meno da sostenere e un colpo in meno all’economia del Vecchio Continente. Che ieri è finita per l’ennesima volta nell’altro tritacarne, quello del gas. Il gestore ucraino, in una dichiarazione sul suo sito Web, ha annunciato che non potrà più accettare il transito di gas russo attraverso Sokhranivka. Tuttavia, ha precisato, sarà ancora possibile reindirizzare i flussi attraverso un altro punto di ingresso, permettendo di rispettare i contratti europei. Gazprom ha subito risposto, negando di aver messo in piedi alcun ostacolo. Chi dei due sta ricattando l’Ue sul gas a questo punto è difficile capirlo, fatto sta che il continuo tira e molla e il prolungarsi delle indecisioni non contribuiscono certo a tranquillizzare i mercati. Il prezzo del gas ha ripreso a salire, a Londra dell’11%. Quindi, lo stillicidio di notizie, assieme ai colli di bottiglia peggiorati dai fermi di numerosi porti, non fanno altro che buttare benzina sul fuoco delle materie prime. E incendiare i Paesi più poveri. Meno di un mese fa lo Sri Lanka annunciò il default selettivo, non essendo più in grado di pagare in valuta estera l’acquisto di farine e altre materie prime necessarie per pane e altri beni di prima necessità. Ieri la situazione è degenerata. Sette morti in un pomeriggio, oltre 200 feriti e immediato coprifuoco. Il ministro alla Difesa ha emanato un’ordinanza che autorizza tutti gli agenti di sicurezza a sparare a vista contro chiunque venga scoperto a danneggiare proprietà pubbliche o a causare danni. La decisione arriva nel momento in cui il presidente stava dispiegando nell’isola decine di migliaia tra soldati di tutti i corpi e forze di polizia al termine di una notte all’insegna di scontri. Scontri proseguiti nonostante la successiva decisione del premier, Mahinda Rajapaksa, di farsi da parte. Il rischio di una guerra civile nell’isola sarebbe un problema nel breve termine per la Cina, che da tempo ha costruito legami stretti con l’ex colonia inglese. Ma le cause scatenanti della protesta non sono certo circoscritte. Anzi secondo numerosi analisti il prossimo Paese nella lista dell’instabilità sarebbe la Tunisia. E, per noi, si tratterebbe di un enorme problema. D’altronde l’instabilità in Asia e in Africa possono essere armi a doppia lama. La Russia mira a innescare la miccia nel Continente nero, mentre il blocco atlantico punta a un gioco simile in Asia. La debolezza economica della Cina, che certo non viene rallentata dal riavvicinamento russo, spinge gli Usa ad alzare i toni. Ma il rischio da ambo le parti è che le fiamme, da focolai circoscritti, diventino incendi veri e propri e quindi finiscano fuori controllo. In tutto ciò, l’inerzia dell’Ue, aggravata dalle spaccature interne, non aiuta a trovare soluzioni e alternative. Non resta che da attendere l’involuzione del sistema della globalizzazione e l’avvio di una ulteriore spirale inflazionistica.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-caos-sanzioni-fa-saltare-il-primo-paese-2657296043.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-fermo-dellexport-della-ceramica-e-gia-costato-13-milioni-alle-imprese" data-post-id="2657296043" data-published-at="1652210526" data-use-pagination="False"> Il fermo dell’export della ceramica è già costato 13 milioni alle imprese L’export italiano della ceramica verso la Russia nel 2021 valeva 59 milioni di euro, una cifra a cui vanno aggiunti i circa 18 milioni di euro di merce spedita verso l’Ucraina. In totale si parla di 77 milioni di euro di giro d’affari (364 milioni di metri quadri di piastrelle) in 12 mesi, circa 6,4 milioni al mese. Se consideriamo che la guerra e le sanzioni sono partite da circa due mesi, possiamo stimare che le perdite per il mondo italiano della ceramica abbiano quindi già sfiorato i 13 milioni di euro. Di certo non si tratta di una cifra monstre, ma è chiaro che si tratta di un’altra piccola fetta di fatturato a cui i lavoratori italiani devono dire addio. Per fortuna il mondo italiano della ceramica può contare su altri mercati che riescono a compensare in parte i problemi nati con la crisi russo ucraina. D’altronde il mondo dei prodotti in ceramica è particolarmente energivoro e, al giorno d’oggi, questo continua a essere un ostacolo non da poco per il settore. Come spiega alla Verità, Giovanni Savorani, presidente di Confindustria Ceramica, «lo scoppio della guerra ha spostato in avanti l’attesa flessione nel costo del gas che, tradizionalmente avveniva all’inizio della primavera a seguito dello spegnimento degli impianti di riscaldamento», dice. «Il giro d’affari verso Russia ed Ucraina vale oltre 50 milioni di euro, circa 1% del totale. Le mancate vendite su questo mercati sono supplite dalla crescita del mercato italiano ed estero». In effetti, fanno notare da Confindustria Ceramica, le esportazioni italiane verso gli Usa nel 2021 sono aumentate del +26% rispetto al 2020, collocandosi ad un livello superiore rispetto al 2019. «Il costo del gas», continua Savorani, «è oggi aumentato del 500% rispetto alla media pre-pandemia, e va ricordato che in alcuni momenti siano arrivati anche a superare il 1.000%. Tutti i costi dei fattori produttivi e della logistica sono aumentati, anche se il problema più marcato per il settore gasivoro come il nostro rimane il metano. Dall’Ucraina importavamo il 25% delle materie prime, cosa che non potrà più accadere per i prossimi anni a causa del conflitto e della distruzione dei porti, in particolare di Odessa e Mariupol», spiega. «La strategia è stata di richiedere ai fornitori del restante 75% di aumentare la propria quota (fornitori basati principalmente in Paesi europei, ndr) e di ricercare nuove fonti di approvvigionamento in Paesi più lontani, come ad esempio l’India». D’altronde, conclude il presidente dell’associazione, «la situazione della ceramica vede sul lato della domanda una positiva e forte dinamica già da diversi mesi, che ha riempito il portafoglio ordini delle aziende per settimane, fattore che, però, si confronta con fortissimi rialzi nei costi di tutti i fattori produttivi che mettono a repentaglio la marginalità». A soffrire particolarmente, poi, all’interno del mondo della ceramica è il distretto di Sassuolo in Emilia-Romagna, uno dei fiori all’occhiello del settore in Italia. In particolare, questo distretto soffre della scarsità di approvvigionamenti di caolino e argilla in arrivo dal porto di Ravenna, due materiali cruciali per la produzione, in particolar modo per le piastrelle molto bianche e di grande formato. L’obiettivo del settore, ora, è cercare di sostituire caolino e argilla in arrivo dalla Russia con prodotti analoghi in arrivo da Germania e Francia, ma ci sarebbe ancora dubbi sulla qualità dei materiali. Quelli che arrivavano da Est spesso potevano essere di fattura più pregiata.
Xi Jinping (Ansa)
I dati delle Dogane cinesi, pubblicati l’8 dicembre, spiegano tutto. A novembre l’export della Cina è balzato del 5,9%, l’import è salito dell’1,9%, e il surplus mensile ha raggiunto 111,68 miliardi di dollari. Nei primi undici mesi dell’anno il surplus ha superato i mille miliardi, con un aumento del 22,1% rispetto al 2024. Numeri che indicano una Cina ancora in grado di muoversi con agilità nelle rotte globali. Con gli Stati Uniti, però, la situazione è opposta. Le esportazioni verso il mercato americano sono crollate del 28,6% a 33,8 miliardi, lontane dai 47,3 miliardi dell’anno precedente. I dazi restano al 47,5% medio sui prodotti cinesi. Una barriera altissima. Inevitabile che le aziende cinesi devino le vendite verso altri mercati.
Ed è qui che scatta l’irritazione di Trump. L’Europa assorbe ciò che l’America respinge. Lo scorso mese il flusso verso l’Ue infatti è cresciuto del 14,8%, secondo quanto riporta la Reuters. Un trend già evidente nel 2024, quando le esportazioni cinesi verso l’Europa avevano superato i 516 miliardi di dollari. L’Europa diventa così la valvola di compensazione della Cina. Quella che permette a Pechino di mantenere attivo il motore dell’export anche mentre gli Stati Uniti montano barriere.
Per Trump questa dinamica non è un incidente collaterale. È un problema strategico. Lui vede la scena in termini di competizione commerciale globale. Se gli Stati Uniti chiudono il loro mercato a un concorrente, lo fanno per ridurre la capacità di quel concorrente di crescere. Ma se un altro grande mercato, come l’Europa, raccoglie tutto ciò che l’America respinge, l’effetto dei dazi si diluisce. Washington alza un muro. Bruxelles costruisce un ponte. Risultato: il traffico scorre, solo spostandosi di qualche centinaio di chilometri.
È qui che si accende il Trump imprenditore. Nella sua visione, l’Europa si comporta come un «free rider commerciale»: beneficia del confronto tra Stati Uniti e Cina senza pagarne il costo politico. Acquista prodotti più economici, vede scendere i prezzi al consumo, non alza barriere, non si espone. In pratica, mantiene la Cina in piedi mentre gli Stati Uniti cercano di metterla alle corde. Da questa lettura derivano parte dei suoi attacchi sempre più duri verso Bruxelles. Non è un giudizio culturale sul Vecchio Continente. È una reazione da uomo di affari che vede i propri strumenti perdere potenza. E che percepisce l’Europa come un competitor passivo-aggressivo: non attacca, ma sottrae efficacia. Non sceglie il blocco americano, ma ne usa i risultati per garantirsi prezzi migliori. Il ragionamento di Trump si muove lungo due assi. Primo: la Cina va fermata. Secondo: nessun grande mercato deve aiutare Pechino a compensare il colpo. L’Europa lo sta facendo, anche se non dichiaratamente. Per questo, agli occhi di Trump, diventa un bersaglio. Non principale. Ma necessario. La pressione verso Bruxelles è un modo per riprendere il controllo del campo di gioco. Per chiudere anche la seconda uscita di sicurezza cinese. Per impedire che l’export deviato continui a trovare strade aperte.
Intanto la Cina procede. Il Politburo punta su più domanda interna, politiche fiscali attive e una monetaria accomodante. Ma la vera forza resta l’export. Le merci scorrono, cambiano rotta, si adattano. La guerra dei dazi non ha fermato la Cina. Ha ridisegnato le mappe. E nella nuova mappa l’Europa è il porto dove attraccano sempre più container cinesi. Trump, nel suo linguaggio pragmatico, vede esattamente questo. E reagisce. Perché per lui la partita non è ideologica. È una questione di affari. E in questa partita, la Cina resta l’avversario più importante.
Continua a leggereRiduci
Ursula von der Leyen (Ansa)
Di recente, al coro di Trump e Musk si è unito uno che da molti è ritenuto il maggior banchiere al mondo, Jamie Dimon, secondo cui «l’Europa ha dei seri problemi. Ha scoraggiato le imprese, gli investimenti e l’innovazione». La preoccupazione principale di Dimon è che la lentezza della burocrazia e l’eccessiva regolamentazione abbiano soffocato la crescita, causando una riduzione della quota di Pil mondiale dell’Europa. Il banchiere sostiene che un mercato europeo snello e integrato sia essenziale per l’innovazione e la forza globale. Il punto è che un sondaggio di due realtà importanti come Ert e The Conference Board dà ragione a un «big» come Dimon. Stando a un sondaggio svolto tra il 16 e il 31 ottobre 2025 la fiducia degli amministratori delegati in Europa ha smesso di precipitare, ma resta in territorio negativo, mentre le motivazioni per investire nel continente continuano a diminuire rispetto agli Stati Uniti e ad altre aree del mondo.
La «Measure of Ceo Confidence for Europe» è a quota 44, dopo essere crollata a 27 nella primavera 2025 in concomitanza con le tensioni commerciali tra Ue e Usa. Il livello 50 rappresenta la neutralità: 44 implica che il sentiment è ancora chiaramente negativo. È la prima volta da quando esiste questa rilevazione che la fiducia dei ceo rimane sotto 50 per tre edizioni consecutive, segnalando un pessimismo che non è più solo ciclico.
Nello studio si sottolinea come il divario tra Europa e resto del mondo si stia ampliando. Le condizioni di business al di fuori del continente migliorano, mentre in Europa la traiettoria resta discendente, soprattutto per la debolezza delle prospettive di investimento e occupazione. In altri termini, il sondaggio registra un disallineamento crescente tra il potenziale percepito all’estero e quello disponibile nel mercato europeo.
Il punto più sensibile del report riguarda la geografia dei piani di investimento. Per l’Europa, solo una piccola quota di ceo intende investire più di quanto previsto sei mesi fa: appena l’8% dichiara di voler aumentare gli investimenti rispetto ai piani originari, mentre oltre un terzo ha ridotto i programmi o messo in pausa le decisioni in merito. Gli Stati Uniti, al contrario, registrano una dinamica opposta: il 45% dei ceo ha rivisto i propri piani per investire nel mercato americano più di quanto inizialmente previsto.
Il problema è che un anno fa, circa l’80% dei leader Ert esprimeva entusiasmo per le raccomandazioni di Mario Draghi sulla competitività europea, con l’idea che una loro piena implementazione avrebbe riportato gli investimenti verso l’Ue. Oggi la narrativa è capovolta: il 76% dei ceo afferma di aver visto poco o nessun impatto positivo dalle iniziative europee per tradurre in pratica le raccomandazioni Draghi e Letta su semplificazione regolatoria, completamento del mercato unico, politica di concorrenza e costo dell’energia.
All’interno dello studio, la Commissione europea ottiene un giudizio relativamente meno negativo: circa il 30% dei ceo riconosce progressi, ma il 60% si dichiara deluso. Il Parlamento europeo è percepito in modo ancora più critico, e i governi nazionali risultano i peggiori: il 74% dei ceo giudica «insufficiente» la performance degli Stati membri nel dare seguito alle raccomandazioni di Draghi e Letta. L’indagine insiste su un punto non banale: il tradizionale riflesso di imputare i ritardi a «Bruxelles» non regge più. Secondo i ceo, il collo di bottiglia principale è costituito dai governi nazionali riuniti in Consiglio, che rallentano o annacquano le riforme in nome di interessi domestici di breve periodo.
Viene, insomma, da sperare che le profezie del duo Trump-Musk non siano corrette. Secondo il presidente degli Stati Uniti, «nel giro di vent’anni l’Europa è destinata a sparire dalla scena», mentre per il miliardario ed ex vertice del Doge, il Dipartimento dell’efficienza governativa, creato durante il secondo mandato Trump, l’Unione europea «andrebbe smantellata, restituendo la piena sovranità ai singoli Stati, così che i governi tornino a rappresentare davvero i propri cittadini».
Musk ha messo nero su bianco queste posizioni in un post su X, pubblicato poche ore dopo la maximulta da 120 milioni di euro comminata da Bruxelles alla sua piattaforma per violazione del regolamento Ue che, da febbraio 2024, impone alle big tech nuovi obblighi di trasparenza e responsabilità sui contenuti. Si tratta della prima sanzione nell’ambito del Digital Services Act europeo. Inoltre, Musk ha fatto saltare l’intero pacchetto di spazi pubblicitari utilizzato dalla Commissione europea su X, accusandola di aver sfruttato in modo improprio una falla tecnica del sistema; subito dopo ha pubblicato un post in cui l’Unione europea veniva assimilata al «Quarto Reich», accompagnato da un fotomontaggio che affiancava la bandiera con le dodici stelle a una svastica.
Continua a leggereRiduci
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 9 dicembre con Carlo Cambi