I radicali ritornano alla Consulta per far legalizzare anche l’eutanasia
«Per la prima volta l’eutanasia arriva in Corte costituzionale». L’associazione Luca Coscioni non si fa scrupoli ad ammettere cosa ci sia in ballo, nel ricorso d’urgenza alla Consulta presentato dal tribunale di Firenze. Le toghe del capoluogo toscano - lì, la giunta di sinistra ha appena varato una controversa legge regionale sul fine vita - erano state chiamate a pronunciarsi sul caso di una donna di 55 anni, affetta da sclerosi multipla progressiva, dipendente da trattamenti di sostegno vitale e dotata dei requisiti per accedere al suicidio assistito, che però, essendo paralizzata, non è in grado di somministrarsi da sé il farmaco letale. La signora, che rifiuterebbe la sedazione profonda per rimanere «lucida e cosciente fino alla fine», chiede che sia il suo medico a inocularle la dose fatale. Se il dottore accettasse, gli verrebbe contestato il reato di cui all’articolo 579 del Codice penale: l’omicidio del consenziente, punito con la reclusione da 6 a 15 anni. I magistrati hanno dunque sollevato la questione di legittimità, chiedendo alla Corte se, in circostanze come questa, il sanitario non debba godere di una scriminante. Si passerebbe dal suicidio assistito, pratica in cui è il paziente a compiere il gesto che ne causa il decesso, all’eutanasia, in cui è un’altra persona a uccidere il malato. Anzi, forse sarebbe persino peggio di così.
Giova infatti ricordare che la Consulta, a febbraio 2022, aveva già dichiarato inammissibile il referendum sull’omicidio del consenziente, sottolineando che l’abrogazione della norma, ancorché parziale, avrebbe potuto portare all’impunità per gli assassini, in assenza di garanzie per le persone fragili, incapaci di prestare il loro assenso in modo pienamente informato e autonomo. È un rilievo che la dice lunga sulla trovata dei radicali, i quali hanno dato alla donna il nome fittizio ed evocativo di «Libera».
L’allora presidente della Corte, Giuliano Amato, aveva spiegato che il quesito non riguardava propriamente la liberalizzazione dell’eutanasia, bensì, appunto, le modifiche alla fattispecie regolata dall’articolo 579 del Codice. L’ex premier considerava capzioso presentarlo come un atto di giustizia nei confronti di coloro che «non sono in grado di fare da soli l’ultima mossa». Il referendum avrebbe legittimato «l’omicidio del consenziente ben al di là dei casi per i quali ci si aspetta che l’eutanasia possa aver luogo». La preoccupazione, pertanto, era che il pasticcio giuridico innescato dalla consultazione popolare avrebbe compromesso la sicurezza di molte più persone rispetto ai malati incurabili o terminali.
È difficile immaginare come, adesso, i giudici possano non ravvisare il medesimo rischio nel ricorso del tribunale fiorentino. Tanto più perché, nella sentenza di luglio 2024, con cui allentarono le maglie interpretative sul requisito della dipendenza dai trattamenti di sostegno vitale, le toghe comunque ribadirono che non esiste alcun «diritto a morire». E che, al centro del nostro ordinamento, rimane la «tutela della vita umana».
L’ultima crociata di Marco Cappato e di Filomena Gallo, segretario generale della Coscioni, conferma che la Toscana è diventata un’avanguardia dell’agenda radicale. Tant’è che il tribunale di Firenze è lo stesso che, un anno e mezzo fa, aveva chiesto alla Corte di chiarire se, per accedere al suicidio assistito, oltre alla capacità di intendere e volere e alla presenza di una condizione irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze fisiche e psicologiche, fosse necessaria la dipendenza del malato da respiratori, oppure da alimentazione e idratazione artificiali. La Consulta aveva stabilito che, fra i trattamenti di sostegno vitale, si dovessero includere anche «procedure quali, ad esempio, l’evacuazione manuale, l’inserimento di cateteri o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali, […] sempre che la loro interruzione determini prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo».
L’udienza sul nuovo caso si terrà l’8 luglio. Nel frattempo la Chiesa, che con Leone XIV sembra tornare a interessarsi alle derive antiumane dell’Occidente, inizia a mettere i paletti alle proposte di legge sul fine vita, in procinto di essere discusse in Parlamento: «Speriamo veramente che qualunque soluzione, qualunque decisione venga presa sia a salvaguardia della vita umana», ha commentato ieri il segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin. Intanto, il presidente della commissione Affari sociali di Palazzo Madama, Francesco Zaffini, di Fratelli d’Italia, ha ribadito che bisognerà evitare «il coinvolgimento del Servizio sanitario nazionale»: «Il denaro pubblico», ha insistito il senatore, «non paga una prestazione» che si concretizza «in un diritto a morire, perché la Consulta non stabilisce il diritto di morire».
Il pericolo è sempre che, pure da noi, si ripeta quanto accaduto nei Paesi che hanno liberalizzato suicidio assistito ed eutanasia anni addietro: si comincia dalla «pietà» per chi non riesce nemmeno più a respirare da solo e si finisce con il sopprimere gli anziani depressi e i bambini inguaribili. Crepa dopo crepa, il muro del buon senso rischia di crollare.





