
La generazione che abita nel Web ha smarrito l'Io e il senso della realtà. E così anche l'omicidio serve a raccogliere like.Tutti attenti a seguire le mosse dei politici impegnati a non mollare la poltrona in Parlamento, ci stiamo dimenticando dei più giovani, che attraversano guai molto più drammatici. Ad esempio la folla di giovani che per i loro disturbi mentali dovrebbero essere ricoverati in una Rems (Residenza per l'esecuzione delle misure di sicurezza), deve invece restare in carcere senza cure adeguate, perché queste case, affollatissime, hanno interminabili liste di attesa.Ma è l'affettività delle nuove generazioni, in generale, a essere in pericolo. Non sanno amare né sé stessi né gli altri e si fanno del male. Il fenomeno è ormai evidente nel mondo occidentale a sviluppo industriale avanzato, ed è documentato anche dall'osservazione scientifica. Gli studi comparativi condotti periodicamente da Jean Twenge, docente alla San Diego State university su 200.000 bambini e adolescenti tra i 12 e i 17 anni, e circa 400.000 giovani adulti di 18 anni e più, mostrano un incremento continuo nei disturbi psicologici e psichiatrici. Le manifestazioni depressive sono aumentate del 52% nei giovanissimi, arrivando a coinvolgere fino al 13% del campione osservato. Ancora maggiore è l'aumento nei giovani adulti. Del 43% è l'incremento di quelli che pensano al suicidio, già oltre il 10% dei giovani. Percentuali più o meno confermate dalle statistiche nazionali, dove il suicidio è in aumento in tutto l'Occidente.L'immagine più precisa del loro malessere ci viene fornita dalle cronache quotidiane. Basta seguirle con attenzione per accorgersi che è proprio la relazione con sé stessi e con gli altri a non funzionare più (come viene raccontato anche nello studio dell'analista). L'Io, che la psicologia considera la guida della personalità, è lontano dalla realtà quotidiana. L'unico riferimento stabile è virtuale: la comunità di Internet, gli amici di Facebook, i vari social. Come racconta la storia del ragazzo di Borgo Ticino che ha ucciso a coltellate il suo migliore amico, sospettato di fare la corte alla ragazza che l'aveva lasciato. Appena risalito in macchina, ha dato la notizia in diretta nelle video «stories» su Instagram. Iniziando con: «Ehi ragazzi, ho fatto una cazzata». E spiegando: «Il mio obiettivo era far vedere alla gente che non bisogna mai intromettersi nelle vicende altrui. Adesso sto pensando come suicidarmi, in ogni caso ho sbagliato». Come osservava già anni fa il filosofo Jean Baudrillard, la società occidentale non ha più alcuna idea del significato simbolico della morte, «perché l'ha cancellata dalla propria cultura». Non sappiamo più cosa sia, e ciò produce omicidi e suicidi privi di senso. La morte è ormai poco più che un videogioco, e comunque non sfugge al potere dissolvente del vero terreno in cui si svolge la vita di questi ragazzi: Internet. Un mostro che invece distrugge tutto. Non perché sia cattivo, ma perché non è un organismo vivente: è una tecnica. E quindi può uccidere, se gli si dà corda e non c'è un Io umano che gli stacca la spina. In Internet si mette tutto, magari giustificandosi con la difesa di una privacy che viene contemporaneamente negata condividendola appunto in Rete, assieme a tutto il resto, dalle torte ai bambini alle idee, alla sessualità, in un vomitevole frullato di ovvietà, luoghi comuni, vanità deliranti e paranoie diffuse. Nelle quali non è difficile sentire l'odore dolciastro dell'hashish, il nutrimento più frequente della mente di questi sfortunati ragazzi e grande produttore di idee persecutorie di ogni tipo, che poi vanno avanti da sole. Eppure qui intorno a Borgo Ticino ci sono boschi odorosi di legni forti, vigneti con vini dalla personalità austera e potente, castelli, culture secolari, non le periferie bruciate e desolate della grandi città. Ciò non basta però a bilanciare i disastri provocati da quei quattro soldi in più, e soprattutto da Internet, la terra di tutti e di nessuno, nella quale (come racconta appunto Jean Twenge nel suo studio Iperconnessi, Einaudi edizioni) i ragazzi vengono ora spediti fin da piccoli, senza nessuna corazza né difesa, come se anzi andare lì fosse chissà quale privilegio (e non, appunto, una sfida mortale). La vicenda di Borgo Ticino illustra bene i problemi che la generazione digitale (chiamata iGen, dove i sta per internet) ha con l'Io, la funzione psicologica che organizza e dirige la coscienza personale. Finché infatti penso che la mia identità sia quella che acquisisco partecipando ai social, non ho nessuna vera identità, sono un bluff, più o meno riuscito.In questa generazione l'Io autentico viene oggi sostituito dal pupazzo di cui parla Eliot nella sua poesia L'uomo vuoto, che in questi ragazzi si identifica con l'utente dei social. In loro al posto di un soggetto vivente, della persona «unica e irripetibile» della civiltà cristiana, c'è un individuo che si percepisce come terminale del Web, di un dispositivo tecnico. Ma in questo mutamento antropologico viene smarrita l'umanità. Non basta liquidare la questione, come si fa di solito, dicendo che «hanno perso il senso della realtà». È molto peggio di così: hanno perso aspetti decisivi dell'identità umana, diventando essi stessi, per certi versi, virtuali. Non agiscono più come persone nel mondo della vita, ma come individui che rispondono a Internet e ai suoi stili. I loro «sentimenti» sono in realtà i manierismi più diffusi in Rete, la «realtà» che descrivono è piuttosto una realtà romanzesca deformata (oltre che dalle paranoie della droga) dallo stile di Internet, che per vivere richiede «eventi» continui. L'«evento» è il cibo che questo mostro fornisce per evitare ai suoi utenti più giovani e deboli la noia, che sarebbe invece il terreno indispensabile per capire e crescere. E loro, i ragazzi, glielo forniscono in continuazione: l'incidente stradale in diretta, la torta più bella del mondo, l'accoltellamento dell'amico... È una sorta di mitomania sistematica dove qualsiasi cosa diventa evento, un «romanzo» da comunicare per fare colpo, e che spesso viene costruito apposta. La vita viene stravolta a demenziale soap opera, per farne un evento digitale.Così nella generazione iGen tutto diventa esternalizzato e virtuale: l'interiorità è vietata. In ciò però la responsabilità di noi adulti è enorme: abbiamo ripetuto senza sosta che la socializzazione era il primo obiettivo e dovere educativo dell'uomo, dimenticando che essa deve andare di pari passo con lo sviluppo dell'Io, della coscienza umana personale, che richiede anche momenti di riflessione, di intimità, di silenzio e solitudine. Senza un Io cosciente non c'è «società», ma solo dipendenza dal collettivo, e delirio. Questo l'abbiamo fatto noi «grandi», scaricando i bambini a Internet invece di tenerli con noi, parlarci, giocarci, camminarci insieme, insegnando la vita. I giovani li abbiamo distrutti noi con un'educazione sbagliata applicata anche nelle scuole, nei media, proposta ovunque come «stile di vita» positivo e sociale. Ecco il risultato.
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