2019-07-17
I guai dell’avvocato massone tra sfratto e conto in rosso. Il terzo uomo a Mosca è suo
Gianluca Meranda, che al Metropol trattava tonnellate di petrolio, dal 1° giugno è senza lo studio. La banca lo scarica: «Non era lì per noi». L'ex sindacalista Francesco Vannucci: «Lavoro per lui».L'azione penale si basa sulla «notizia» di illecito. Qui i magistrati si son mossi su un sospetto. Il solito vizietto.Lo speciale contiene due articoli.Dopo l'avvocato massone Gianluca Meranda, anche un suo presunto stretto collaboratore si rivolge alla stampa per venire allo scoperto. Si chiama Francesco Vannucci, ha 62 anni ed è di Suvereto (Livorno) e sarebbe stato al tavolo del Metropol di Mosca «in qualità di consulente esperto bancario che da anni collabora con l'avvocato Meranda». Secondo l'uomo, ovviamente, «lo scopo dell'incontro era prettamente professionale e si è svolto nel rispetto dei canoni della deontologia commerciale». È stato lui a contattare l'Ansa e si è detto dispiaciuto per essere stato citato «in modo a volte ironico, a volte opaco, come «nonno» Francesco».L'esperto di Meranda ha lavorato al Monte dei Paschi di Siena per circa 25 anni e ha svolto l'attività di sindacalista. Chi l'ha conosciuto l'ha definito un «brasseur d'affaires», interessato a diversi settori, tra i quali quello vitivinicolo. Con questo nuovo tassello s'infittisce ulteriormente il mistero intorno alla figura di Meranda, l'uomo dell'oro (nero) di Mosca che non si trova. Meranda si era rivelato al mondo con una lettera alla Repubblica, dove si era definito «avvocato internazionalista che esercita la professione legale da più di 20 anni tra Roma e Bruxelles, anche nel ramo del diritto d'affari». Poi aveva aggiunto che «tra i clienti dello studio figurano compagnie petrolifere e banche di affari italiane», di cui ometteva i nomi per motivi deontologici. Disse anche di aver partecipato all'incontro del Metropol, «in qualità di General Counsel di una banca d'affari anglo-tedesca». Ma i vertici dell'istituto, la Euro-Ib, lo hanno smentito dicendo che al Metropol Meranda non stava esercitando il suo «ruolo» di consigliere legale. Insomma era una sua iniziativa. Ma la cosa più importante è che gli affari dell'avvocato sono tutt'altro che floridi. Addirittura l'1 giugno ha subito lo sfratto esecutivo dall'ufficio di Lungotevere delle navi 20, dove al piano rialzato c'era il suo ufficio di collaboratore dell'Sq law di Bruxelles. Meranda offriva ospitalità anche a un commercialista, ad alcuni giovani avvocati, a un'agenzia immobiliare e lì si trovava anche l'ufficio di rappresentanza romano della banca in nome della quale Meranda era andato a trattare a Mosca. A marzo Meranda avvertì gli inquilini che avrebbero dovuto lasciare l'appartamento (circa 180 metri quadri) per alcuni problemi finanziari che lo stavano mettendo in difficoltà. Parlò di «crisi finanziaria, ma non economica» e che questa «durava da circa un anno mezzo». Quindi aveva aggiunto: «Sono mesi che sto così non volevo allarmarvi, ma ora forse è meglio che vi allarmiate». Nell'elegante palazzina a due passi dalla sede della Marina sono rimasti i nomi delle società sul citofono, ma non risponde più nessuno.Ai chi lo frequentava Meranda aveva confidato che le sue difficoltà nascevano dal mancato pagamento di alcune parcelle. A febbraio, dopo l'annuncio dell'anteprima dell'articolo dell'Espresso sull'incontro del Metropol, una nostra fonte ricorda che «fremeva» per conoscerne il contenuto, ma che «non appariva particolarmente preoccupato». I colleghi della banca, invece, avevano iniziato ad agitarsi, anche perché avevano saputo della trattativa a cose fatte («Prima fa le cose e poi le dice») e il 29 ottobre avevano consegnato a Meranda una lettera intestata con una manifestazione d'interesse da indirizzare alla compagnia petrolifera Rosneft. Ma l'avvocato non aveva fatto più sapere nulla. Come faceva Meranda a esibire uno stile di vita brillante da avvocato di livello e a non riuscire a pagare un affitto da circa 2.500 euro al mese (escluse le spese di condominio)? A quanto risulta alla Verità Meranda non era un dipendente della Euro-IB ma solo un consulente esterno che, non avendo concluso nessun contratto, non avrebbe ricevuto in due anni nemmeno un euro. Un advisor legale di scarso successo. E in effetti chi lo conosce sa che l'ultima dichiarazione dei redditi sarebbe stata a saldo negativo, cioè nel suo studio sono state più le spese che le entrate (meno di 40.000 euro).Forse per questo era così eccitato all'idea di portare a compimento l'affare del Metropol. Dalla Euro-IB commentano: «Non ha mai concluso grossi affari, mentre faceva molti appuntamenti». L'altro piccolo mistero riguarda i clienti di Meranda, sul cui nome l'avvocato nella lettera Repubblica invoca la privacy. Tra di essi c'erano diverse ambasciate che si rivolgevano a lui per risolvere le questioni legate agli uffici immigrazione. Tra gli uffici diplomatici quelli con cui aveva rapporti più stretti erano le ambasciate dell'Indonesia e della Russia. A giugno 2018 con Matteo Salvini e Gianluca Savoini partecipò anche alla festa dell'indipendenza a villa Abamelek con l'ambasciatore russo Razov. I suoi rapporti con i russi c'entrano qualcosa con l'affaire del Metropol? Meranda lavorava, come esperto di assicurazioni, anche per diverse compagnie aeree, tra le quali la Iran air.A parte questi dati poco altro si sa. Meranda è sempre stato molto geloso dei suoi contatti, pur non nascondendo la sua appartenenza alla massoneria. Nella lettera alla Repubblica addirittura scrisse di essere un uomo «libero e di buoni costumi» una sorta di definizione identificativa. Una formula che identifica tutti i grembiulini.Eppure anche lì le cose non devono essere andate per il verso giusto e il Gran maestro della Serenissima gran loggia a cui apparteneva, Massimo Criscuoli Tortora nel 2015 ha firmato il suo decreto di espulsione, a cui lo stesso non ha fatto opposizione. Il motivo? Poco dopo essere entrato con una quindicina di amici e aver dato vita alla loggia De dignitate hominis (di cui era maestro venerabile), avrebbe tentato di fare le scarpe al Gran maestro e per questo è stato mandato via. «Quello in massoneria è un percorso iniziatico, ma forse lui voleva utilizzarlo per altri fini» ci confida un ex fratello di Meranda. L'avvocato oggi è praticamente introvabile. Risulta residente nel quartiere Trieste di Roma con la moglie Giovanna Orsolini, in una palazzina abbastanza popolare di quattro piani a due passi da un commissariato. Ma la casa non è intestata né a lui, né alla consorte. L'uomo chiave del Metropol risulta titolare di un ventiquattresimo di tre piccoli appartamenti popolari (11,5 vani in tutto), di cinque piccoli magazzini (400 metri quadri in tutto), di un laboratorio (16 metri) e due terreni in provincia di Cosenza, probabilmente frutto di eredità. Piccola imprenditrice di Monterotondo, la moglie non ha intestato nulla e in passato ha lavorato in una litografia. Con il cognato Giovanni, Meranda tentò l'avventura in due imprese edili. La prima è fallita nel 2013. «C'è un procedimento aperto», spiega il curatore fallimentare Massimo Marchetta. «Orsolini? Se lo trova mi dica dov'è. Per noi è irreperibile». In via Piave a Monterotondo, indirizzo di riferimento alla Camera di commercio di Meranda e dei fratelli Orsolini risponde un'anziana signora, probabilmente una parente di Giovanni e Gabriella: «Chevvoi? Qui non c'è nessuno…». In pratica una famiglia fantasma. Tranne Meranda, che dopo lo sfratto dell'1 giugno, è riapparso su Repubblica, il giornale più avverso alla Lega, per confessare di essere lui il «Luca del Metropol» e di essere pronto a collaborare con la Procura di Milano. Era un pizzino a qualcuno? È intorno a questo professionista in grave difficoltà «finanziaria» che ruota la vicenda del Metropol. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/i-guai-dellavvocato-massone-tra-sfratto-e-conto-in-rosso-il-terzo-uomo-a-mosca-e-suo-2639213166.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="ma-per-adesso-non-ce-nemmeno-il-reato" data-post-id="2639213166" data-published-at="1758063810" data-use-pagination="False"> Ma per adesso non c’è nemmeno il reato È assai difficile prevedere quali potranno essere gli sviluppi e gli esiti dell'indagine milanese sui presunti finanziamenti russi alla Lega. Una cosa appare però fin d'ora certa, e cioè che essa ha tratto origine non da una vera e propria «notizia di reato» ma da un semplice «sospetto di reato». Nulla più di un sospetto, infatti, sembra quello desumibile dall'unico dato di fatto che risulta finora accertato: vale a dire la famosa riunione all'hotel Metropol di Mosca nella quale, per quanto è dato sapere, altro non si sarebbe fatto se non valutare l'ipotesi che da un futuro, eventuale accordo economico per la fornitura all'Italia di prodotti energetici potesse ricavarsi la disponibilità, «al nero», di una somma di danaro che, in parte, sarebbe stata destinata alla Lega. Non si ha notizia che quell'accordo si sia poi realizzato o, quanto meno, che vi siano stati concreti tentativi per realizzarlo; condizioni, queste, in mancanza delle quali appare da escludere la giuridica configurabilità, anche a livello di tentativo, dell'ipotizzato reato di corruzione internazionale o di qualsivoglia altro reato. Nulla esclude, naturalmente, che dal prosieguo delle indagini emergano nuovi elementi per cui l'ipotesi di reato venga ad acquistare quella concretezza che ora le manca; ed è verisimilmente proprio questo l'obiettivo al quale punta la Procura di Milano. prassi invalsa Ma può ritenersi corretta la prassi, ormai da tempo in uso presso molti uffici del pubblico ministero, di instaurare (come in questo caso) procedimenti penali sulla base di semplici sospetti di reato, in vista dell'acquisizione, solo eventuale, di ipotetici elementi che valgano poi a confermarli, quando il codice di procedura penale espressamente prevede che il procedimento penale possa (e debba) essere instaurato solo sulla base di una «notizia di reato»? La risposta dovrebbe essere risolutamente negativa, alla luce dei principi fondamentali dello Stato di diritto. La «notizia di reato», infatti, a differenza del semplice «sospetto», dev'essere dotata di caratteristiche di specificità tali da rendere fin dall'inizio possibile il suo inquadramento giuridico in una o più figure di reato; dopodiché il procedimento penale dovrà soltanto essere finalizzato a verificare se essa risponda o meno a verità e, in caso positivo, se sia possibile individuare e portare a giudizio i responsabili. In quest'ottica i margini di discrezionalità del pm sono ridotti al minimo, rimanendo essi confinati nell'ambito della funzione esclusivamente tecnico-giuridica alla quale l'ufficio è fisiologicamente preposto. Il che risponde alla logica alla quale si ispira il principio costituzionale della obbligatorietà dell'azione penale da parte del pm. Questa, infatti, non avrebbe senso se l'azione penale non presupponesse appunto l'avvenuta acquisizione della «notizia di reato». Ben diverso da quello sopra illustrato è il risultato al quale si perviene ammettendo che il procedimento penale possa essere instaurato anche sulla base di un semplice «sospetto», del tutto inidoneo, come tale, a consentire, al momento, anche la sola giuridica configurabilità di una specifica ipotesi di reato. Il sospetto, infatti, è, per sua natura, eminentemente soggettivo e può nascere dalle più svariate ed innumerevoli combinazioni di fattori. L'accettare, quindi, a livello di principio, che esso possa costituire legittimo fondamento dell'instaurazione di un procedimento penale, non solo si pone astrattamente in contrasto con la legge e, in ultima analisi, anche con la Costituzione, ma comporta, sul piano pratico, la conseguenza che viene in tal modo lasciato al pm uno spazio di pressoché infinita e incontrollabile discrezionalità, nella quale possono assumere un peso determinante anche le personali inclinazioni ideologico-politiche del singolo magistrato o dell'ufficio di cui egli fa parte. missione tradita Ciò comporta un enorme danno non solo al bene superiore costituito dall'effettivo equilibrio dei poteri ma anche al gran numero di cittadini che (come l'esperienza dimostra), soffrono sulla loro pelle il peso delle inchieste nelle quali sono coinvolti per accuse poi rivelatesi come prive, fin dall'origine, di giuridico fondamento; danno, quello anzidetto, che non può certo ritenersi compensato dai rari casi in cui i procedimenti penali avviati sulla base di sospetti abbiano portato all'effettivo accertamento di reati e alla condanna dei responsabili. Certo sono questi poi gli stessi casi dai quali deriva maggior lustro e prestigio ai magistrati che hanno instaurato e condotto avanti quei procedimenti; la qual cosa è del tutto naturale, e non vi sarebbe neppure nulla di male se non fosse per il fatto che ne risulta in tal modo avvalorata, nella pubblica opinione, l'erronea visione del pubblico ministero come una sorta di «cacciatore di reati» e non, come invece vorrebbero la Costituzione ed il codice di procedura penale, come un organo tecnico la cui funzione è essenzialmente quella di garantire che l'attività di perseguimento dei reati venga condotta efficacemente ma, al tempo stesso, nella rigorosa osservanza delle norme di legge.