2019-06-24
I fannulloni non pagano mai
Solo uno su cento di quelli scoperti sul fatto viene licenziato. Gli altri? Rimangono al loro posto. E alcuni vengono persino promossi. Ma adesso arrivano le impronte digitali.Presenti ovunque, al bar, in palestra, in canoa, tranne dove dovrebbero essere, cioè in ufficio. Negli ultimi anni, i furbetti del cartellino hanno trovato modi sempre più fantasiosi per sottrarsi ai loro doveri: li abbiamo visti timbrare in mutande o nascondere il volto in scatole di cartone. I più sfacciati, addirittura, pubblicano in rete le foto delle vacanze a spese dello Stato. Di loro, tra i corridoi e le scrivanie degli enti pubblici, neanche l'ombra. E dire che in questi anni il contrasto all'assenteismo cronico è stato un cavallo di battaglia di quasi tutti i governi. Era il 2008, quando l'allora ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, si scagliava contro i fannulloni. Ci ha provato Marianna Madia, ministro nei governi Renzi e Gentiloni: il decreto legislativo del giugno 2016 prevede la sospensione entro 48 ore del dipendente pubblico colto in flagrante e l'eventuale licenziamento entro 30 giorni. Ci sta provando Giulia Bongiorno, a Palazzo Vidoni da poco più di un anno: il decreto Concretezza, approvato in via definitiva una settimana fa, introduce controlli biometrici e un sistema di videosorveglianza degli ingressi. Sarà la volta buona per eliminare il problema? A oggi i risultati non sono incoraggianti. Nella quasi totalità dei casi, quando i furbetti vengono beccati, in pratica, non succede nulla. Quando va male, se la cavano con provvedimenti morbidi. Come i dieci dipendenti del Comune di Cirò Marina, in provincia di Crotone, sorpresi a prolungare le pause di lavoro a proprio piacimento e a occuparsi di svariate attività tranne quelle per quali erano pagati. «Quando uscivamo per la pausa caffè, discutevamo di problemi inerenti al lavoro del comune», si giustificavano. C'era chi gestiva orti e giardini e chi dava una mano nell'attività di famiglia. «Tutti sono al lavoro, ci mancherebbe», spiega alla Verità il segretario generale del Comune. Alcuni di loro sono stati prosciolti per lieve entità del fatto: in sostanza, è stata riconosciuta la scorrettezza, ma non era abbastanza grave per essere punita. Altri, sono in attesa di giudizio. Tutti, regolarmente, al loro posto. Secondo i numeri dell'Ispettorato della funzione pubblica elaborati dalla Stampa, i procedimenti disciplinari che si concludono con un licenziamento sono il 3,77%. Su oltre tre milioni di dipendenti pubblici, quelli che vengono allontanati a seguito di una contestazione si fermano a 324, neanche l'1% del totale. Per gli altri, al massimo un richiamo. O, addirittura, una promozione. Come è accaduto a Bologna, nella sede dell'Ispettorato territoriale del ministero dello Sviluppo economico. Per capire cosa è successo, bisogna tornare al 2009, all'esposto presentato da un dipendente, Ciro Rinaldi, nei confronti di sette colleghi. Nelle carte dell'inchiesta, si legge dell'accordo esistente tra i dipendenti «per timbrare a turno i rispettivi badge, in modo da risultare presenti anche quando erano fuori dall'ufficio nell'orario di lavoro». «Grazie alle immagini delle telecamere di sorveglianza poste dalla Guardia di finanza», ricorda Rinaldi, «si è scoperto un sistema che andava avanti da tempo. Oltre alle sette persone che avevo denunciato, il pubblico ministero ha chiesto il rinvio a giudizio per altri dipendenti, per un totale di 29 casi». Per via del «danno economicamente non apprezzabile per l'amministrazione pubblica», venti dipendenti sono stati prosciolti dalle accuse. «Per loro c'è stato un semplice richiamo da parte dell'amministrazione, praticamente una carezza», commenta Rinaldi. Gli altri nove, invece, sono stati condannati in primo grado a 14 mesi di reclusione, con pena sospesa, per truffa aggravata ai danni dello Stato. Il gioco era semplice: i dipendenti si assentavano senza alcun tipo di giustificazione: c'era chi «andava regolarmente in palestra» e chi usciva «a fare la spesa», si legge nella sentenza di condanna. Il tutto, ovviamente, durante l'orario di lavoro e con la compiacenza di chi avrebbe dovuto vigilare. «Non ho mai avuto un buon rapporto con il badge, forse perché sono uno spirito libero, mi sembrava di essere controllata», si giustificava uno dei dipendenti condannati, Angela Forni. Odiava così tanto il cartellino che, secondo quanto ricostruito nell'inchiesta, avrebbe lasciato che a timbrare per lei fossero i colleghi. Anche quando era in ferie. Il meccanismo era così ben oliato che gli allontanamenti sarebbero stati, di volta in volta, autorizzati e coperti dal dirigente dell'Ispettorato, Marco Cevenini. Anzi, secondo i giudici, «Cevenini era il fulcro del sistema»: per lui, «le formalità creano ritardo». E allora, via alle uscite anticipate e alle pause pranzo prolungate. Come quelle di cui avrebbe usufruito uno dei dipendenti, Mario Corso. Con l'autorizzazione del dirigente, Corso era solito allungare a proprio piacimento la pausa pranzo: «Affiancavo alla pausa minima di 15 minuti, la pausa che mi era stata autorizzata verbalmente dal dirigente, quindi stavo fuori mediamente mezz'ora», ha detto ai giudici, ammettendo i fatti che gli sono stati addebitati. Del resto, durante il pranzo Corso «risolveva problemi, discutendo con i colleghi oppure facendo telefonate di servizio». Sarà anche così che ha maturato «un credito esagerato verso la pubblica amministrazione», come spiegava il dirigente che avrebbe rilasciato le autorizzazioni. Un credito che, probabilmente, vanta tuttora, visto che da qualche giorno è stato messo a capo del settore IV dell'Ispettorato territoriale Emilia Romagna. La comunicazione è avvenuta via email: appena una riga di testo, inviata il 28 maggio dal responsabile del settore, per comunicare che l'incarico era effettivo dal giorno precedente, il 27 maggio. «Non capisco come si possa premiare chi è stato condannato per truffa ai danni dello Stato», commenta Ciro Rinaldi, in corsa con altri dipendenti per ricoprire il ruolo che è ora è di Corso. «Nella valutazione contano i risultati ottenuti negli ultimi anni: come è possibile che una persona che è sotto indagine dal 2012 ottenga il massimo della valutazione?». La Verità ha posto la stessa domanda alla dirigente che preso la decisione, Guida Iorio: raggiunta al telefono, tuttavia, ha preferito non commentare. Città che vai, furbetti che trovi. A Palermo a loro è andata anche meglio. Sia con l'inchiesta sia con il lavoro. I protagonisti sono quattro commessi del Comune di Palermo. Tre di loro, Francesco Paolo Pecoraro e i fratelli Giovanni e Francesco Arnao, risultavano presenti ma non erano al loro posto in municipio. Il quarto collega coinvolto è Michele Vultaggio, colui che aveva ottemperato all'incarico ricevuto: ossia timbrare i badge dei tre furbetti. Il fatto, nonostante la difesa abbia tentato di chiedere l'assoluzione per difetto dell'elemento psicologico del reato, è provato ma i tre, sei anni dopo (l'indagine è del 2013), sono stati prosciolti per la «speciale tenuità del fatto».Furbetti del cartellino, sì, ma «non punibili». Anche perché l'accusa è arrivata in Aula con un solo episodio contestato. Fu un agente della Digos in borghese ad accorgersi che Vultaggio aveva timbrato ben quattro cartellini, uno dopo l'altro, e preparò una relazione di servizio ricostruendo quella circostanza nei minimi dettagli. Le indagini successive, delegate dalla Procura, hanno accertato che quell'assenza dal posto di lavoro, senza una giustificazione plausibile, era provata. Anche se per poco tempo. Davvero qualche spicciolo di danno erariale e finanche risarcito da tre dei quattro imputati: 41,95 euro addebitati a Giovanni Arnao, 19,90 al fratello Francesco e 23,21 a Pecoraro.Anche se, nella motivazione contestuale alla decisione, il giudice ha sottolineato che «secondo la Cassazione, la gravità del comportamento di chi tradisce le pubbliche funzioni dovrebbe prevalere». La stessa amministrazione guidata da Leoluca Orlando non ha considerato il comportamento particolarmente lesivo, visto che alla notifica dell'avviso di garanzia non fu adottato alcun provvedimento disciplinare. Non solo, il Comune, indicato dalla Procura della Repubblica come parte offesa dal reato, pur essendosi costituito parte civile all'udienza preliminare, si è poi disinteressato del processo e l'ha perso di vista. Uno dei dipendenti accusati di truffa, proprio durante il dibattimento è stato assegnato a mansioni di prestigio superiore e, da semplice commesso, è passato da Palazzo Galletti al Palazzo delle Aquile, dove lavora negli uffici della presidenza del Consiglio comunale. Il portavoce di Orlando, contattato dalla Verità, ha preso tempo. Ma, alla fine, una spiegazione non è arrivata.