2020-11-06
I decessi crescono ma mancano ancora criteri chiari con cui conteggiarli
Secondo uno studio dell'Iss il Covid è l'unica causa di morte solo in un caso su tre. Mentre è mistero sui guariti in terapia intensivaIl cardiologo Salvatore Spagnolo lancia l'appello per l'uso tempestivo dell'antivirale a domicilioLo speciale contiene due articoliSono 445 gli italiani che ieri hanno perso la vita a causa della pandemia di coronavirus, mai così tanti dal 2 maggio scorso. Numeri inquietanti e per giunta in forte ascesa, che riportano alla luce le terribili immagini della scorsa primavera, con i cortei di bare e le innumerevoli pagine di necrologi. Facile intuire perciò che quello dei morti per Covid-19 rappresenta un tema delicato, e trattandolo si rischia di scoperchiare un vaso di Pandora. Rispondendo alle domande del quotidiano britannico Telegraph, a marzo il professor Walter Ricciardi aveva sollevato dubbi sulla reale entità della conta: «Siamo troppo generosi nel modo in cui classifichiamo i morti, nel senso che assumiamo che le persone decedute in ospedale e positive al coronavirus siano morte a causa del coronavirus». Vale la pena chiedersi perciò se il bollettino sia effettivamente «gonfiato» rispetto alla realtà. Prendiamo i due morti fatti registrare il 6 ottobre scorso dal Friuli-Venezia Giulia, uno dei quali riguarda una persona affetta da Covid e «deceduta a causa di una caduta nel proprio domicilio». Un mese prima, era mancata a Sassari una donna di 91 anni. Colpita da infarto ma positiva al tampone, e perciò registrata nel novero dei deceduti per colpa del coronavirus. Una circostanza che aveva fatto andare su tutte le furie Marcello Acciaro, capo dell'Unità di crisi del nord Sardegna: «Se i conti li fanno così, allora non mi stupisce che contiamo tanti morti in Italia».Le regole ufficiali però parlano chiaro. Nel documento ufficiale pubblicato lo scorso 16 aprile dall'Organizzazione mondiale della sanità e intitolato «Linee guida internazionali per la classificazione del Covid-19 come causa di morte», al paragrafo 2 ci si imbatte in una definizione che lascia davvero poco spazio alla fantasia. È necessario infatti che sopraggiunga «una patologia con un quadro clinico compatibile, in un caso probabile o confermato di Covid-19, a patto che non ci sia una chiara causa alternativa di morte la quale non può in alcun modo essere connessa al Covid-19 (per esempio un trauma)». Per fare un esempio, un paziente morto per sindrome da distress respiratorio dovuto a polmonite, causata a sua volta dal coronavirus, può dirsi morto per Covid-19. Viceversa, qualora la persona sia positiva al Sars-CoV-2 ma muoia per patologie non collegate, per esempio infarto o incidente d'auto, il decesso non può essere ascrivibile al Covid-19. Semmai in questo caso la positività al tampone va indicata nelle note, ma non può mai essere considerata causa di morte. Rientrano in questa seconda casistica gli esempi riportati relativi al Friuli-Venezia Giulia e alla Sardegna. Che dunque non avrebbero dovuto essere conteggiati tra i morti per coronavirus. Le indicazioni fornite a giugno dall'Istituto superiore di sanità prevedono che, affinché si possa registrare un decesso Covid-19 occorre rispettare tutti e quattro i seguenti criteri: caso confermato tramite tampone; quadro clinico strumentale e suggestivo di Covid-19; assenza di una chiara causa di morte diversa; e assenza di recupero clinico completo tra la malattia e il decesso. Nonostante le linee guida siano chiare, qualcosa continua a non tornare. Una parziale risposta la si può trovare nell'indagine condotta dall'Iss sulla base delle schede di morte e pubblicata a luglio. Se nell'89% dei casi il Covid-19 rappresenta la causa direttamente responsabile della morte, nel restante 11% il decesso si può ritenere dovuto a un'altra malattia. Anche se l'Iss puntualizza che la causa «può aver contribuito al decesso accelerando processi morbosi già in atto», significherebbe stornare dal totale circa 4.000 morti. Non è tutto, perché solo nel 28,2% delle schede esaminate il Covid-19 rappresenta l'unica causa di morte. Qua le cose iniziano a farsi confuse. Nel restante 71,8% dei casi risulta infatti presente una concausa (o causa multipla). Tra le più frequenti le cardiopatie intensive (18% dei casi), il diabete mellito (16%), le cardiopatie ischemiche (13%) e i tumori (12%), ma non mancano demenza, Alzheimer e obesità. Secondo l'Oms, «il Covid-19 andrebbe riportato sul certificato di morte di tutti gli individui di cui si ritiene abbia causato, o contribuito a causare, la morte». Dal canto suo l'Iss presume che, seppure in presenza di altre patologie preesistenti, senza la positività al virus «il decesso non si sarebbe verificato». Un'interpretazione estensiva della catena di eventi che portano alla morte, anzi un vero e proprio limbo nel quale si può insinuare un po' di tutto. Come dimostra peraltro la sintomatologia registrata a margine dei decessi. Non ci sono solo polmoniti (79%) e sintomi respiratori (55%), ma anche complicanze cardiache, infarto, complicanze intestinali, epatiche o intestinali, e perfino embolia e trombosi. A complicare ulteriormente le cose, la situazione confusa sui dati della terapia intensiva. «Bisogna capire chi sono le persone che muoiono, perché non vengono dalla terapia intensiva», ha denunciato il professor Giuseppe Remuzzi, uno dei più autorevoli ricercatori italiani al mondo. Di certo non aiutano le cifre giornaliere fornite dal ministero della Salute, che forniscono solo la differenza dei ricoveri rispetto al giorno prima, e non uno spaccato dal quale si possano evincere guariti e deceduti. Noi cittadini siamo responsabili, al governo tocca però essere trasparente.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/i-decessi-crescono-ma-mancano-ancora-criteri-chiari-con-cui-conteggiarli-2648637593.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="leparina-puo-salvare-i-positivi-ed-evitare-il-collasso-dei-reparti" data-post-id="2648637593" data-published-at="1604607295" data-use-pagination="False"> «L’eparina può salvare i positivi ed evitare il collasso dei reparti» «Dobbiamo curare il paziente prima che si ammali, altrimenti poi è troppo tardi». Quanto dice Salvatore Spagnolo, cardiochirurgo dell'Iclas di Rapallo, potrebbe sembrare paradossale. Invece, il dottore spiega che il trattamento tempestivo e in casa dei malati di Covid con eparina, cortisone e antibiotici può ridurre l'aggressività del virus bloccandone alcuni degli effetti più letali, come le embolie polmonari. «Il virus non sta in quarantena due settimane come le persone, agisce immediatamente e attacca l'organismo» sottolinea Spagnolo, «se una persona è asintomatica, non si deve far nulla, ma appena manifesta i primi sintomi influenzali, attualmente i medici prescrivono semplice paracetamolo. Solo quando compaiono patologie polmonari, riscontrabili dopo aver fatto la radiografia, il paziente viene ricoverato e curato con farmaci come eparina, per evitare embolie polmonari, antibiotici, per combattere infezioni batteriche e cortisone per contrastare l'infiammazione che il virus provoca». Ed è proprio perché questo protocollo venga anticipato che il cardiochirurgo si sta battendo: «Questo virus entra nell'alveolo polmonare, ma a differenza di quanto avviene con la banale influenza, vengono intaccati i capillari polmonari, entra cioè nel sangue. Entrando nella parete dei capillari, l'endotelio, si moltiplica e distrugge le cellule, causando anche un'embolia polmonare periferica, più pericolosa e difficilmente curabile. In alcuni casi, la distruzione dell'endotelio vascolare causa trombosi anche nel tessuto cardiaco, cerebrale o renale e determina infarti miocardici, ictus cerebrali o infarti renali». Secondo Spagnolo, quindi, chi risulta positivo, dovrebbe essere immediatamente trattato con eparina, cortisone e antibiotici, a domicilio, somministrati dal medico di base: «Con questo protocollo, molti pazienti non svilupperebbero niente di più grave di un'influenza, evitando di finire negli ospedali già strapieni». Ma per l'Oms e le Asl, l'eparina va somministrata solo quando la malattia si trasforma in polmonite. Il dottor Spagnolo ha mandato appelli alle autorità politiche e sanitarie, ma è stato ignorato. Già nei mesi più duri, lo specialista aveva lanciato l'allarme: «Lo scorso marzo avevo ipotizzato che la causa di morte del Covid 19 non fosse solo una polmonite interstiziale ma anche un'embolia polmonare diffusa e proposi la somministrazione dell'eparina. Il Journal of Cardiology Research, rivista americana, pubblicò la mia ricerca, mentre i colleghi italiani snobbarono tutto come una bufala». Invece, a fine aprile, le autopsie hanno confermato la presenza di trombi nei polmoni dei pazienti deceduti per Covid 19 ed è stata introdotta la terapia con eparina nei ricoverati in terapia intensiva, ottenendo miglioramenti. «Non vorrei si ripetesse ancora quanto successo, infatti ho mandato appelli al presidente del Consiglio, al ministero della Salute, e a tutte le autorità sanitarie del Paese, ma rimango inascoltato. Se si evitasse l'insorgere di patologie polmonari più gravi, il numero dei ricoveri crollerebbe. Vorrei evitare di ricorrere a personaggi che si servono del clamore mediatico per portare avanti la mia causa, ma a mali estremi non lo escludo».