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2020-11-06
I decessi crescono ma mancano ancora criteri chiari con cui conteggiarli
Ansa
Sono 445 gli italiani che ieri hanno perso la vita a causa della pandemia di coronavirus, mai così tanti dal 2 maggio scorso. Numeri inquietanti e per giunta in forte ascesa, che riportano alla luce le terribili immagini della scorsa primavera, con i cortei di bare e le innumerevoli pagine di necrologi. Facile intuire perciò che quello dei morti per Covid-19 rappresenta un tema delicato, e trattandolo si rischia di scoperchiare un vaso di Pandora. Rispondendo alle domande del quotidiano britannico Telegraph, a marzo il professor Walter Ricciardi aveva sollevato dubbi sulla reale entità della conta: «Siamo troppo generosi nel modo in cui classifichiamo i morti, nel senso che assumiamo che le persone decedute in ospedale e positive al coronavirus siano morte a causa del coronavirus».
Vale la pena chiedersi perciò se il bollettino sia effettivamente «gonfiato» rispetto alla realtà. Prendiamo i due morti fatti registrare il 6 ottobre scorso dal Friuli-Venezia Giulia, uno dei quali riguarda una persona affetta da Covid e «deceduta a causa di una caduta nel proprio domicilio». Un mese prima, era mancata a Sassari una donna di 91 anni. Colpita da infarto ma positiva al tampone, e perciò registrata nel novero dei deceduti per colpa del coronavirus. Una circostanza che aveva fatto andare su tutte le furie Marcello Acciaro, capo dell'Unità di crisi del nord Sardegna: «Se i conti li fanno così, allora non mi stupisce che contiamo tanti morti in Italia».
Le regole ufficiali però parlano chiaro. Nel documento ufficiale pubblicato lo scorso 16 aprile dall'Organizzazione mondiale della sanità e intitolato «Linee guida internazionali per la classificazione del Covid-19 come causa di morte», al paragrafo 2 ci si imbatte in una definizione che lascia davvero poco spazio alla fantasia. È necessario infatti che sopraggiunga «una patologia con un quadro clinico compatibile, in un caso probabile o confermato di Covid-19, a patto che non ci sia una chiara causa alternativa di morte la quale non può in alcun modo essere connessa al Covid-19 (per esempio un trauma)». Per fare un esempio, un paziente morto per sindrome da distress respiratorio dovuto a polmonite, causata a sua volta dal coronavirus, può dirsi morto per Covid-19. Viceversa, qualora la persona sia positiva al Sars-CoV-2 ma muoia per patologie non collegate, per esempio infarto o incidente d'auto, il decesso non può essere ascrivibile al Covid-19. Semmai in questo caso la positività al tampone va indicata nelle note, ma non può mai essere considerata causa di morte. Rientrano in questa seconda casistica gli esempi riportati relativi al Friuli-Venezia Giulia e alla Sardegna. Che dunque non avrebbero dovuto essere conteggiati tra i morti per coronavirus. Le indicazioni fornite a giugno dall'Istituto superiore di sanità prevedono che, affinché si possa registrare un decesso Covid-19 occorre rispettare tutti e quattro i seguenti criteri: caso confermato tramite tampone; quadro clinico strumentale e suggestivo di Covid-19; assenza di una chiara causa di morte diversa; e assenza di recupero clinico completo tra la malattia e il decesso. Nonostante le linee guida siano chiare, qualcosa continua a non tornare. Una parziale risposta la si può trovare nell'indagine condotta dall'Iss sulla base delle schede di morte e pubblicata a luglio. Se nell'89% dei casi il Covid-19 rappresenta la causa direttamente responsabile della morte, nel restante 11% il decesso si può ritenere dovuto a un'altra malattia. Anche se l'Iss puntualizza che la causa «può aver contribuito al decesso accelerando processi morbosi già in atto», significherebbe stornare dal totale circa 4.000 morti. Non è tutto, perché solo nel 28,2% delle schede esaminate il Covid-19 rappresenta l'unica causa di morte.
Qua le cose iniziano a farsi confuse. Nel restante 71,8% dei casi risulta infatti presente una concausa (o causa multipla). Tra le più frequenti le cardiopatie intensive (18% dei casi), il diabete mellito (16%), le cardiopatie ischemiche (13%) e i tumori (12%), ma non mancano demenza, Alzheimer e obesità. Secondo l'Oms, «il Covid-19 andrebbe riportato sul certificato di morte di tutti gli individui di cui si ritiene abbia causato, o contribuito a causare, la morte». Dal canto suo l'Iss presume che, seppure in presenza di altre patologie preesistenti, senza la positività al virus «il decesso non si sarebbe verificato». Un'interpretazione estensiva della catena di eventi che portano alla morte, anzi un vero e proprio limbo nel quale si può insinuare un po' di tutto. Come dimostra peraltro la sintomatologia registrata a margine dei decessi. Non ci sono solo polmoniti (79%) e sintomi respiratori (55%), ma anche complicanze cardiache, infarto, complicanze intestinali, epatiche o intestinali, e perfino embolia e trombosi. A complicare ulteriormente le cose, la situazione confusa sui dati della terapia intensiva. «Bisogna capire chi sono le persone che muoiono, perché non vengono dalla terapia intensiva», ha denunciato il professor Giuseppe Remuzzi, uno dei più autorevoli ricercatori italiani al mondo. Di certo non aiutano le cifre giornaliere fornite dal ministero della Salute, che forniscono solo la differenza dei ricoveri rispetto al giorno prima, e non uno spaccato dal quale si possano evincere guariti e deceduti. Noi cittadini siamo responsabili, al governo tocca però essere trasparente.
«L’eparina può salvare i positivi ed evitare il collasso dei reparti»
«Dobbiamo curare il paziente prima che si ammali, altrimenti poi è troppo tardi». Quanto dice Salvatore Spagnolo, cardiochirurgo dell'Iclas di Rapallo, potrebbe sembrare paradossale. Invece, il dottore spiega che il trattamento tempestivo e in casa dei malati di Covid con eparina, cortisone e antibiotici può ridurre l'aggressività del virus bloccandone alcuni degli effetti più letali, come le embolie polmonari.
«Il virus non sta in quarantena due settimane come le persone, agisce immediatamente e attacca l'organismo» sottolinea Spagnolo, «se una persona è asintomatica, non si deve far nulla, ma appena manifesta i primi sintomi influenzali, attualmente i medici prescrivono semplice paracetamolo. Solo quando compaiono patologie polmonari, riscontrabili dopo aver fatto la radiografia, il paziente viene ricoverato e curato con farmaci come eparina, per evitare embolie polmonari, antibiotici, per combattere infezioni batteriche e cortisone per contrastare l'infiammazione che il virus provoca».
Ed è proprio perché questo protocollo venga anticipato che il cardiochirurgo si sta battendo: «Questo virus entra nell'alveolo polmonare, ma a differenza di quanto avviene con la banale influenza, vengono intaccati i capillari polmonari, entra cioè nel sangue. Entrando nella parete dei capillari, l'endotelio, si moltiplica e distrugge le cellule, causando anche un'embolia polmonare periferica, più pericolosa e difficilmente curabile. In alcuni casi, la distruzione dell'endotelio vascolare causa trombosi anche nel tessuto cardiaco, cerebrale o renale e determina infarti miocardici, ictus cerebrali o infarti renali».
Secondo Spagnolo, quindi, chi risulta positivo, dovrebbe essere immediatamente trattato con eparina, cortisone e antibiotici, a domicilio, somministrati dal medico di base: «Con questo protocollo, molti pazienti non svilupperebbero niente di più grave di un'influenza, evitando di finire negli ospedali già strapieni». Ma per l'Oms e le Asl, l'eparina va somministrata solo quando la malattia si trasforma in polmonite. Il dottor Spagnolo ha mandato appelli alle autorità politiche e sanitarie, ma è stato ignorato. Già nei mesi più duri, lo specialista aveva lanciato l'allarme:
«Lo scorso marzo avevo ipotizzato che la causa di morte del Covid 19 non fosse solo una polmonite interstiziale ma anche un'embolia polmonare diffusa e proposi la somministrazione dell'eparina. Il Journal of Cardiology Research, rivista americana, pubblicò la mia ricerca, mentre i colleghi italiani snobbarono tutto come una bufala».
Invece, a fine aprile, le autopsie hanno confermato la presenza di trombi nei polmoni dei pazienti deceduti per Covid 19 ed è stata introdotta la terapia con eparina nei ricoverati in terapia intensiva, ottenendo miglioramenti.
«Non vorrei si ripetesse ancora quanto successo, infatti ho mandato appelli al presidente del Consiglio, al ministero della Salute, e a tutte le autorità sanitarie del Paese, ma rimango inascoltato. Se si evitasse l'insorgere di patologie polmonari più gravi, il numero dei ricoveri crollerebbe. Vorrei evitare di ricorrere a personaggi che si servono del clamore mediatico per portare avanti la mia causa, ma a mali estremi non lo escludo».
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Riduci
Secondo uno studio dell'Iss il Covid è l'unica causa di morte solo in un caso su tre. Mentre è mistero sui guariti in terapia intensivaIl cardiologo Salvatore Spagnolo lancia l'appello per l'uso tempestivo dell'antivirale a domicilioLo speciale contiene due articoliSono 445 gli italiani che ieri hanno perso la vita a causa della pandemia di coronavirus, mai così tanti dal 2 maggio scorso. Numeri inquietanti e per giunta in forte ascesa, che riportano alla luce le terribili immagini della scorsa primavera, con i cortei di bare e le innumerevoli pagine di necrologi. Facile intuire perciò che quello dei morti per Covid-19 rappresenta un tema delicato, e trattandolo si rischia di scoperchiare un vaso di Pandora. Rispondendo alle domande del quotidiano britannico Telegraph, a marzo il professor Walter Ricciardi aveva sollevato dubbi sulla reale entità della conta: «Siamo troppo generosi nel modo in cui classifichiamo i morti, nel senso che assumiamo che le persone decedute in ospedale e positive al coronavirus siano morte a causa del coronavirus». Vale la pena chiedersi perciò se il bollettino sia effettivamente «gonfiato» rispetto alla realtà. Prendiamo i due morti fatti registrare il 6 ottobre scorso dal Friuli-Venezia Giulia, uno dei quali riguarda una persona affetta da Covid e «deceduta a causa di una caduta nel proprio domicilio». Un mese prima, era mancata a Sassari una donna di 91 anni. Colpita da infarto ma positiva al tampone, e perciò registrata nel novero dei deceduti per colpa del coronavirus. Una circostanza che aveva fatto andare su tutte le furie Marcello Acciaro, capo dell'Unità di crisi del nord Sardegna: «Se i conti li fanno così, allora non mi stupisce che contiamo tanti morti in Italia».Le regole ufficiali però parlano chiaro. Nel documento ufficiale pubblicato lo scorso 16 aprile dall'Organizzazione mondiale della sanità e intitolato «Linee guida internazionali per la classificazione del Covid-19 come causa di morte», al paragrafo 2 ci si imbatte in una definizione che lascia davvero poco spazio alla fantasia. È necessario infatti che sopraggiunga «una patologia con un quadro clinico compatibile, in un caso probabile o confermato di Covid-19, a patto che non ci sia una chiara causa alternativa di morte la quale non può in alcun modo essere connessa al Covid-19 (per esempio un trauma)». Per fare un esempio, un paziente morto per sindrome da distress respiratorio dovuto a polmonite, causata a sua volta dal coronavirus, può dirsi morto per Covid-19. Viceversa, qualora la persona sia positiva al Sars-CoV-2 ma muoia per patologie non collegate, per esempio infarto o incidente d'auto, il decesso non può essere ascrivibile al Covid-19. Semmai in questo caso la positività al tampone va indicata nelle note, ma non può mai essere considerata causa di morte. Rientrano in questa seconda casistica gli esempi riportati relativi al Friuli-Venezia Giulia e alla Sardegna. Che dunque non avrebbero dovuto essere conteggiati tra i morti per coronavirus. Le indicazioni fornite a giugno dall'Istituto superiore di sanità prevedono che, affinché si possa registrare un decesso Covid-19 occorre rispettare tutti e quattro i seguenti criteri: caso confermato tramite tampone; quadro clinico strumentale e suggestivo di Covid-19; assenza di una chiara causa di morte diversa; e assenza di recupero clinico completo tra la malattia e il decesso. Nonostante le linee guida siano chiare, qualcosa continua a non tornare. Una parziale risposta la si può trovare nell'indagine condotta dall'Iss sulla base delle schede di morte e pubblicata a luglio. Se nell'89% dei casi il Covid-19 rappresenta la causa direttamente responsabile della morte, nel restante 11% il decesso si può ritenere dovuto a un'altra malattia. Anche se l'Iss puntualizza che la causa «può aver contribuito al decesso accelerando processi morbosi già in atto», significherebbe stornare dal totale circa 4.000 morti. Non è tutto, perché solo nel 28,2% delle schede esaminate il Covid-19 rappresenta l'unica causa di morte. Qua le cose iniziano a farsi confuse. Nel restante 71,8% dei casi risulta infatti presente una concausa (o causa multipla). Tra le più frequenti le cardiopatie intensive (18% dei casi), il diabete mellito (16%), le cardiopatie ischemiche (13%) e i tumori (12%), ma non mancano demenza, Alzheimer e obesità. Secondo l'Oms, «il Covid-19 andrebbe riportato sul certificato di morte di tutti gli individui di cui si ritiene abbia causato, o contribuito a causare, la morte». Dal canto suo l'Iss presume che, seppure in presenza di altre patologie preesistenti, senza la positività al virus «il decesso non si sarebbe verificato». Un'interpretazione estensiva della catena di eventi che portano alla morte, anzi un vero e proprio limbo nel quale si può insinuare un po' di tutto. Come dimostra peraltro la sintomatologia registrata a margine dei decessi. Non ci sono solo polmoniti (79%) e sintomi respiratori (55%), ma anche complicanze cardiache, infarto, complicanze intestinali, epatiche o intestinali, e perfino embolia e trombosi. A complicare ulteriormente le cose, la situazione confusa sui dati della terapia intensiva. «Bisogna capire chi sono le persone che muoiono, perché non vengono dalla terapia intensiva», ha denunciato il professor Giuseppe Remuzzi, uno dei più autorevoli ricercatori italiani al mondo. Di certo non aiutano le cifre giornaliere fornite dal ministero della Salute, che forniscono solo la differenza dei ricoveri rispetto al giorno prima, e non uno spaccato dal quale si possano evincere guariti e deceduti. Noi cittadini siamo responsabili, al governo tocca però essere trasparente.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/i-decessi-crescono-ma-mancano-ancora-criteri-chiari-con-cui-conteggiarli-2648637593.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="leparina-puo-salvare-i-positivi-ed-evitare-il-collasso-dei-reparti" data-post-id="2648637593" data-published-at="1604607295" data-use-pagination="False"> «L’eparina può salvare i positivi ed evitare il collasso dei reparti» «Dobbiamo curare il paziente prima che si ammali, altrimenti poi è troppo tardi». Quanto dice Salvatore Spagnolo, cardiochirurgo dell'Iclas di Rapallo, potrebbe sembrare paradossale. Invece, il dottore spiega che il trattamento tempestivo e in casa dei malati di Covid con eparina, cortisone e antibiotici può ridurre l'aggressività del virus bloccandone alcuni degli effetti più letali, come le embolie polmonari. «Il virus non sta in quarantena due settimane come le persone, agisce immediatamente e attacca l'organismo» sottolinea Spagnolo, «se una persona è asintomatica, non si deve far nulla, ma appena manifesta i primi sintomi influenzali, attualmente i medici prescrivono semplice paracetamolo. Solo quando compaiono patologie polmonari, riscontrabili dopo aver fatto la radiografia, il paziente viene ricoverato e curato con farmaci come eparina, per evitare embolie polmonari, antibiotici, per combattere infezioni batteriche e cortisone per contrastare l'infiammazione che il virus provoca». Ed è proprio perché questo protocollo venga anticipato che il cardiochirurgo si sta battendo: «Questo virus entra nell'alveolo polmonare, ma a differenza di quanto avviene con la banale influenza, vengono intaccati i capillari polmonari, entra cioè nel sangue. Entrando nella parete dei capillari, l'endotelio, si moltiplica e distrugge le cellule, causando anche un'embolia polmonare periferica, più pericolosa e difficilmente curabile. In alcuni casi, la distruzione dell'endotelio vascolare causa trombosi anche nel tessuto cardiaco, cerebrale o renale e determina infarti miocardici, ictus cerebrali o infarti renali». Secondo Spagnolo, quindi, chi risulta positivo, dovrebbe essere immediatamente trattato con eparina, cortisone e antibiotici, a domicilio, somministrati dal medico di base: «Con questo protocollo, molti pazienti non svilupperebbero niente di più grave di un'influenza, evitando di finire negli ospedali già strapieni». Ma per l'Oms e le Asl, l'eparina va somministrata solo quando la malattia si trasforma in polmonite. Il dottor Spagnolo ha mandato appelli alle autorità politiche e sanitarie, ma è stato ignorato. Già nei mesi più duri, lo specialista aveva lanciato l'allarme: «Lo scorso marzo avevo ipotizzato che la causa di morte del Covid 19 non fosse solo una polmonite interstiziale ma anche un'embolia polmonare diffusa e proposi la somministrazione dell'eparina. Il Journal of Cardiology Research, rivista americana, pubblicò la mia ricerca, mentre i colleghi italiani snobbarono tutto come una bufala». Invece, a fine aprile, le autopsie hanno confermato la presenza di trombi nei polmoni dei pazienti deceduti per Covid 19 ed è stata introdotta la terapia con eparina nei ricoverati in terapia intensiva, ottenendo miglioramenti. «Non vorrei si ripetesse ancora quanto successo, infatti ho mandato appelli al presidente del Consiglio, al ministero della Salute, e a tutte le autorità sanitarie del Paese, ma rimango inascoltato. Se si evitasse l'insorgere di patologie polmonari più gravi, il numero dei ricoveri crollerebbe. Vorrei evitare di ricorrere a personaggi che si servono del clamore mediatico per portare avanti la mia causa, ma a mali estremi non lo escludo».
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Riduci
Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Riduci
Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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