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2018-05-25
Ha capito che l’Ue non è cosa buona dopo una vita a osservarla da vicino
ANSA
I tedeschi? In fondo non si sono mai scrollati di dosso la visione nazista dell'Europa. La moneta unica? Un cappio che stringe al collo dell'Italia e ha dimezzato il nostro potere d'acquisto. L'economista Paolo Savona, candidato numero uno al Tesoro di Lega e M5s, non è abituato ad avere peli sulla lingua. Forse anche per questione di terra natale, la stessa Sardegna del picconatore Francesco Cossiga. E come lui, non nasconde le idee che lo animano. Spesso critiche nei confronti di Bruxelles e il suo establishment, per questo motivo si è guadagnato il soprannome di «professore antieuro», anche se è la semplificazione di un pensiero molto più articolato. Tutto ciò sembra comunque preoccupare il presidente Sergio Mattarella, che preferirebbe un ministro più gradito ai partner europei. In particolare alla cancelliera Angela Merkel, con la quale Savona ha sempre avuto pochissimo feeling. Ritiene infatti che euro ed Ue siano «creazioni della Germania», ideate «per controllare e sfruttare in maniera coloniale gli altri Paesi europei».
Come si legge nella sua autobiografia, che verrà pubblicata a breve: «La Germania non ha cambiato la visione del suo ruolo in Europa dopo la fine del nazismo, pur avendo abbandonato l'idea di imporla militarmente».
Secondo il suo autorevole parere, il nazismo proponeva la Germania come Paese d'ordine e pretendeva che tutte le monete si dovessero comportare come il marco. Il resto dei Paesi, Italia compresa, non doveva dedicarsi all'industria ma all'agricoltura, al turismo e al benessere dei tedeschi. Savona ha sempre affermato che l'unica differenza (non da poco, a dire il vero) sta nel fatto che prima il Terzo Reich voleva imporsi manu militari. Oggi invece i tedeschi hanno inventato un meccanismo che si chiama Europa unita e che «porta gli stessi effetti».
Nonostante i pareri chiari e lapidari, non bisogna però pensare a Paolo Savona come a un iconoclasta, pronto a dare alle fiamme il Reichstag o Palazzo Berlaymont, sede della stigmatizzata Commissione europea. Stiamo parlando di un politico e studioso nato e cresciuto all'interno delle istituzioni, il cui curriculum è inattaccabile. Dopo la laurea cum laude nel 1961 comincia la carriera al centro studi di Banca d'Italia, dove diventa direttore. Le esperienze all'estero sono di primissimo ordine: si specializza in economia monetaria ed econometria al Massachusetts Institute of Technology di Boston, dove collabora con Franco Modigliani e studia con Giorgio La Malfa la curva dei rendimenti dell'economia italiana. Sempre oltreoceano collabora con la Federal Reserve a Washington, dove studia il funzionamento del mercato monetario in vista dell'emissione in Italia dei Bot. Scorrere l'intero curriculum del professore, avendo compiuto 82 anni e sempre lavorato parecchio, diventerebbe troppo lungo. Aggiungiamo che ha insegnato politica economica all'università di Cagliari, di Perugia, di Tor Vergata a Roma, alla Luiss, alla Scuola superiore della pubblica amministrazione. È stato direttore generale di Confindustria e ha ricoperto vari incarichi istituzionali, tra cui ministro dell'Industria e al riordino delle partecipazioni statali nel governo di Carlo Azeglio Ciampi. Con Silvio Berlusconi è stato a capo del dipartimento per le Politiche comunitarie.
Ma soprattutto ha affiancato Guido Carli quando da ministro del Tesoro firmò per l'Italia il trattato di Maastricht. E sin dal 1992 si è espresso in modo molto critico rispetto ai parametri stabiliti dal trattato, che sono secondo Savona troppo rigidi e privi di base scientifica. Una convinzione che lo accompagna da 25 anni, da tempi non sospetti e non ha nulla a che fare con il populismo o gli sguaiati fermenti antieuropei degli ultimi anni. Il professore sostiene che Carli e Ciampi fossero consapevoli che l'Italia non era pronta a entrare nell'euro, ma «non volevano rimanere fuori dalla porta». Erano convinti in buona fede che il tempo avrebbe migliorato la situazione, mentre invece «è peggiorata».
Non esclude a priori l'idea che Roma possa uscire dall'Ue o dall'eurozona, ma ritiene che questa eventualità debba essere attentamente preparata, perché delicata e pericolosa. Come scrive nel suo libro: «Se l'Italia decidesse di seguire il Regno Unito (ma questa scelta va seriamente studiata) essa attraverserebbe certamente una grave crisi di adattamento, con danni immediati ma effetti salutari, quelli che ci sono finora mancati: sostituirebbe infatti il poco dignitoso vincolo esterno con una diretta responsabilità di governo dei gruppi dirigenti». Dicevamo, e bisogna ribadirlo, che il probabile ministro del governo di Giuseppe Conte è però lontano dalle demagogie che vedono nell'Unione l'origine di tutti i mali. Non si definisce antieuropeista, anzi dice di essere per l'Europa unita, ma biasima le élite di Bruxelles e la moneta unica. «L'euro ha dimezzato il potere d'acquisto degli italiani, anche se le autorità lo negano», si legge ancora in un passaggio dell'autobiografia. Inoltre attacca l'ex presidente del Consiglio, Mario Monti, che descrive come «portabandiera del servilismo agli interessi dei poteri dominanti». E infine accusa il governatore della Bce, Mario Draghi, e quello della Banca d'Italia, Ignazio Visco, di aver contribuito a chiudere l'Italia nella «gabbia europea».
Insomma, Paolo Savona sembra la persona giusta, con l'autorevolezza e l'esperienza necessarie, per andare a discutere e ricontrattare norme, vincoli e regolamenti a Bruxelles. Si tratta di ricostruire e non sfasciare l'Unione, ma tornando a far sentire la voce dell'Italia, da troppi anni inascoltata. Che poi è anche quello che gli elettori hanno chiesto con il voto del 4 marzo scorso.
Si tratta soprattutto di recuperare la posizione dell'Italia come commenta Giulio Sapelli, docente di Storia economica all'Università di Milano: «Preoccupato per una rottura degli accordi con l'Europa? Bisognerebbe essere più preoccupati per l'inasprirsi della situazione economica. Aumentano i poveri, i disoccupati e ci sono piccole e medie imprese che non trovano operai specializzati. Tutto è fuori squadra. Abbiamo quasi distrutto il sistema universitario, non formiamo più classe dirigente. Abbiamo perso prestigio internazionale». E conclude difendendo il collega: «Allora rinegoziamo i trattati. Nel 2005 Danimarca e Francia hanno votato contro la Costituzione europea e nessuno ha detto nulla. Sono anni che Savona dice che un sistema a cambi fissi, a moneta unica sta distruggendo l'economia e produce divergenze. E ora la sinistra fa la schizzinosa con Savona che se alza il telefono parla con tutti i governatori centrali? Ma come si permettono? Ma si sciacquino la bocca».
Dall’euro alla sovranità: le «eresie» di Savona terrorizzano Bruxelles
Per entrare nell'euro Carlo Azeglio Ciampi [...] impose agli italiani una pesante eurotassa per consentire il raggiungimento dell'obiettivo. A eresia si sovrappose quindi altra eresia: la scelta troppo affrettata di entrare nell'euro invece di invocare, come fece il Regno Unito, la clausola prevista dal Trattato di opting out, ossia di non aderirvi in attesa di una più matura riflessione delle condizioni richieste per restarci, che in Italia mancarono, nonostante che l'adesione fosse equivalente a un'importante modifica costituzionale, che avrebbe richiesto procedure più elaborate e maggioranze più qualificate. Dicono che, se non si fosse deciso allora, non saremo mai entrati, con una classica affermazione incoerente con i dati della storia d'Italia del tipo «se il naso di Cleopatra fosse stato diverso, lo sarebbe stata anche la storia del mondo». Intanto siamo entrati nell'eurozona e, perdendo la sovranità monetaria, stiamo perdendo anche quella fiscale, senza ottenere la terra promessa dell'unione politica. Era così difficile capirlo subito?
Il problema della crisi dell'Italia sta tutta qui. [...] Essersi disfatti della sovranità di regolare il mercato e la moneta senza mettere le sorti europee in comune, nell'illusione che ciò avrebbe migliorato le nostre condizioni, è stato un errore di politica economica molto grave. Si sarebbe dovuto insistere nel convincere i cittadini quali fossero i comportamenti adatti per fronteggiare le nuove condizioni di competizione internazionale, mantenendo le tre sovranità monetarie (quantità di moneta, tassi d'interesse e rapporti di cambio) per correggere gli effetti del mancato rispetto delle regole del gioco da parte degli italiani e degli europei comunitari. Oggi, invece, sulla base della politica decisa a Bruxelles e a Francoforte, dobbiamo subire una continua deflazione. Saprà reggere la società italiana? Noi siamo propensi a rispondere sì, ma i danni che si produrranno saranno notevoli.
Ci aggrappiamo all'Europa e all'euro senza voler ammettere la verità: c'è un costo da pagare se non vogliamo correre l'alea del rischio in cui si incorrerebbe se abbandonassimo l'Unione europea. [...] Si preferisce pensare che i giovani siano incalliti bamboccioni destinati a stare senza lavoro, tanto provvederanno le famiglie e quel poco di welfare che resta. Non si considera che, se non si impegna al lavoro una generazione, il Paese e le sue istituzioni peggiorano in prospettiva.
La «manovra correttiva» è la madre di tutti gli esorcismi della politica. Con essa si è data l'illusione agli italiani che si ponesse rimedio ai mali di fondo in contropartita dei sacrifici richiesti ogni volta. Il risultato, però, è stato sempre lo stesso: la pressione fiscale è aumentata, ma la spesa pubblica non è mai stata frenata [...] Le manovre sono il veicolo, non si sa se attivato in modo cosciente o inconsapevole, attraverso il quale si è causato, anno dopo anno, il disastro della finanza pubblica. Le istituzioni europee si sono impossessate dello strumento suggerendo inizialmente e ora imponendo ai paesi in difficoltà manovre correttive a prescindere dagli effetti deflazionistici che esse generano, spingendo in un circolo vizioso le economie già afflitte da crisi di crescita e di occupazione preoccupanti [...] Manovra dopo manovra, lo Stato si è presa quasi la metà del prodotto lordo annuale. È un vero assalto al reddito personale, che si trasmette al patrimonio delle famiglie, ossia al risparmio.
La continua invocazione del rispetto del Patto di stabilità (che si è perso per strada lo sviluppo) e delle condizioni di permanenza nell'euro ha tutti i crismi di un esorcismo per evitare che le cose vadano peggio. «Che cosa avremmo dovuto patire di peggio se non avessimo l'euro» è la frase consueta che accompagna chi non ha altro argomento da avanzare per difendere i costi che stiamo pagando per restarci.
L'invasione europea delle sovranità fiscali nazionali, in nome della stabilità che non è stata in grado di garantire è solo un modo per sostituire l'unità politica con l'egemonia dei più forti, che non è certamente il simbolo più lampante di democrazia. è [...] Non intendiamo proporre di uscire dall'Unione europea e, quindi, dall'euro, ma solo uscire da un duplice equivoco. Uno giuridico, di considerare legittimo che, data la Costituzione italiana e la mancanza di una europea di pari livello, i gruppi dirigenti possano modificare, come hanno fatto, la Costituzione reale senza adeguate procedure che garantiscano ai cittadini del nostro Paese d'essere governati da leggi e non da altri Stati. Uno di fatto, di permettere che si realizzi un'invasione del nostro futuro in nome di un ideale, quello della stabilità, che il Nobel James Tobin affermò essere un principio con cui non si mangia. Un Paese dotato di gruppi dirigenti seri deve essere pronto ad attuare un piano A per stare nell'euro in contropartita di garanzie di stabilità e sviluppo [...]. Ma anche attivare un piano B, dotato di un programma di emergenza sostenuto da alleanze internazionali solide, che garantiscano la possibilità di rientrare in possesso degli strumenti tradizionali di politica economica (creazione monetaria, tassi d'interesse, rapporti di cambio, entrate e spese pubbliche) per recuperare la responsabilità del nostro futuro in un habitat democratico.
Probabilmente non accadrà nulla di catastrofico, come la dissoluzione dell'euroarea e il crollo dell'economia italiana, anche se tutti si vanno impegnando a raggiungerle; ma i danni che si avranno saranno piuttosto elevati. In Italia, un certo numero di imprese falliranno e le banche ne usciranno più deboli e forse in mani straniere; ma, soprattutto, i ricchi diverranno ancora più ricchi e i poveri ancora più poveri.
Alla fine del 2011 si ritenne di poter mascherare gli effetti costituzionali della decisione nominando un «uomo della provvidenza», il primo dell'era postfascista: l'economista Mario Monti. Conoscevo il collega da una vita: persona molto per bene, di elevata educazione, sorretto dalla stampa radical chic, però titolare di eresie economiche. Era ed è un sostenitore dell'idea che da questa, se seguita fino in fondo, verrebbe tutto il bene necessario a un Paese; a volere essere generosi, questi europeisti sono tardi epigoni delle idee di Platone secondo cui il mondo va governato dalle élite, perché il popolo non sa scegliere mentre loro sì. Per essi la democrazia è un fastidioso metodo di governo e meno la si utilizza, meglio è.
L'errore più grave commesso da chi ha propiziato e firmato il Trattato di Maastricht è aver creduto che l'euro fosse il viatico per l'unificazione politica del Vecchio continente. Solo menti ottuse possono affermare oggi che l'evento si è determinato. [...] Non sorprendiamoci se la reazione antieuro e antieuropea, che ignora ideali e cancella successi, cresce, e quella pro euro e pro europea si fondi sulla paura di ciò che verrebbe in caso di deflagrazione dell'unione.
L'attuale politica della Bce di richiedere un maggiore impegno sulla politica fiscale è l'opposto di quanto sia necessario. La Bce dovrebbe chiedere alla Commissione Europea di avere un deficit fiscale emettendo obbligazioni europee sul mercato globale. La soluzione del problema dell'euro non risiede quindi in una maggiore integrazione politica, ma nella creazione di un nuovo agente fiscale o nell'azione della Commissione generatrice di un deficit che consenta il formarsi di un surplus nei Paesi altamente indebitati.
I nuovi vincoli europei [...] hanno aggravato la depressione in cui il Paese è caduto: il prodotto interno lordo reale è crollato di circa il 10% e la disoccupazione si è grandemente innalzata. Il modesto tasso di crescita reale recentemente registrato non colma il vuoto creatosi: 13 milioni restano senza lavoro. [...] Toccato il fondo della crisi, l'economia italiana ha registrato una lieve ripresa, ma i problemi sono restati sostanzialmente gli stessi: il popolo e le imprese chiedono continuamente protezione, ottenendola in parte [...] Tra i problemi che assillano il Paese, il più grave è certamente il debito pubblico; esso è esposto a rischi di default a causa della sua ri-denominazione in euro, una moneta fuori dalla sovranità monetaria del Paese in un assetto istituzionale privo di una politica comune dei debiti sovrani. Se il debito pubblico fosse in lire, il suo rimborso sarebbe sempre possibile perché lo Stato avrebbe il potere di stampare la moneta necessaria per il rimborso, ovviamente creando altri problemi per la creazione in eccesso, ma non l'insolvenza. La nascita dell'euro ha eliminato il rischio di cambio all'interno dell'eurosistema, ma generato il rischio di default sui debiti sovrani. Ditemi voi se questa storia non è un incubo.
La Germania non ha cambiato la visione del suo ruolo in Europa dopo la fine del nazismo, pur avendo abbandonato l'idea di imporla militarmente. Per tre volte l'Italia ha subìto il fascino della cultura tedesca che ha condizionato la sua storia, non solo economica, con la Triplice alleanza del 1882, il Patto d'acciaio del 1939 e l'Unione europea del 1992. È vero che ogni volta fu una nostra scelta. Non impariamo mai dagli errori?
Paolo Savona
Timori sulla squadra di governo per i tecnici infiltrati dal Quirinale
La battaglia delle ultime ore è sui soldi, altro che princìpi. Su Infrastrutture, Sviluppo economico e ministero dell'Economia, la Lega e il Movimento 5 stelle, a sua volta diviso al proprio interno, si stanno sfidando come in una partita di Monopoli. Ben sapendo, anche se non lo ammettono, che il banco lo tengono mandarini di Stato e poteri forti, per il tramite del Quirinale.
«Ormai vogliono solo limitare i danni, ma hanno perso», si dicono i vertici grillini. E anche nel Carroccio c'è la convinzione che ormai la partita sia vinta, «ma bisogna fare attenzione agli infiltrati» dell'ultimo minuto. Perché basta che Matteo Salvini o Luigi Di Maio mostrino la minima incertezza che arriva subito, su un piatto d'argento, il classico «tecnico» che poi, in Consiglio dei ministri, sarà la sentinella del Quirinale. «Lo schema è quello di piazzarci un Giovanni Legnini», il senatore abruzzese del Pd che svolge il compito di vicepresidente del Csm e che Sergio Mattarella utilizza come ambasciatore, sapendolo assai stimato da tutti.
Il capo della Lega dà per quasi sicuro Paolo Savona al Mef e lo ha detto anche nell'ennesimo video autoprodotto che sembra fatto per far percepire a Rai e Mediaset la nuova era della disintermediazione: «Sono orgoglioso di avere al mio fianco un ministro come Savona, io sono piccolo di fronte a lui. Lui saprà difendere il diritto dell'Italia di andare a crescere, contrattare da pari a pari con i partner europei: Merkel, Macron, i commissari Ue...». Un Salvini in versione Giovanni Battista. Che però intanto si prepara a fare il ministro dell'Interno secondo una semplice linea: «Gli altri espellevano solo la Shabalayeva, noi faremo rispettare i decreti di espulsione».
E già si analizzano i primi nomi come capo della polizia, al posto di Franco Gabrielli. Perché leghisti e grillini stanno anche già iniziando a parlare di nomine. E se ancora non è chiaro chi sarà il ministro della Difesa (il primo identikit è però questo: «Non il solito amico della Francia»), già sembra certo che la stagione dell'ex banchiere piddino Alessandro Profumo ai vertici di Leonardo sarà o breve, o travagliata, o breve e travagliata.
Confermato che Di Maio sarà un super ministro del Sud e dell'economia non di carta, con Sviluppo economico e Welfare, se Savona non dovesse farcela ecco che al Mef andrà il leghista Giancarlo Giorgetti. Altrimenti ben felice di starsene a Palazzo Chigi come novello Richelieu.
Alla Farnesina, lo Stato (delle cose) spinge sempre i nomi di Elisabetta Belloni e Giampiero Massolo, ex capo dei servizi segreti. L'ambasciatrice è stata stoppata e Massolo anche, nonostante la Lega lo avesse accettato. Il fatto che provenga dalla nidiata andreottiana e dalla segreteria di Silvio Berlusconi premier ha convinto M5s ha dargli lo stop. Chi ne ha beneficiato è stato il tecnico Enzo Moavero Milanesi, che tornerà per la terza volta agli Affari europei e rappresenta il contentino al capo dello Stato da parte dei ragazzi terribili Matteo e Gigino. Mentre per gli Esteri corre l'ambasciatore Pasquale Salzano, renziano e amicissimo di Di Maio.
E ora i mal di pancia tra alleati, che riguardano in gran parte lo Sviluppo economico, dove ci sono i soldi dei cantieri, delle infrastrutture e dei pedaggi che creano consenso sul territorio e dei finanziamenti ai partiti, la delega alle telecomunicazioni, la gestione delle grandi crisi occupazionali. M5s e Di Maio vogliono la trentenne Laura Castelli, torinese in grande ascesa. Però si è messa in luce in quel movimento No Tav che il Pd piemontese ha saputo criminalizzare con personaggi come Stefano Esposito, Giancarlo Caselli, Piero Fassino e Sergio Chiamparino (più moderato). Hanno così regalato migliaia di voti della sinistra ai 5 stelle, che ora però un po' se ne vergognano e già lo dimostrarono scegliendo come sindaco di Torino Chiara Appendino, espressione della buona borghesia locale, al posto di Vittorio Bertola. Proprio per il passato No Tav, la Castelli ha il veto della Lega, che preferisce l'immarcescibile avvocato della Sea Giuseppe Bonomi. Possibile dunque che Castelli finisca come vice di Savona all'Economia. Il giovane senatore milanese Daniele Pesco è invece il probabile sottosegretario del Mise per le crisi aziendali, come Ilva e Alitalia, che già segue per il Movimento. E il giornalista Emilio Carelli dovrebbe invece essere confermato ai Beni culturali, essendo tra i più colti della compagnia. Tornando invece a Palazzo Chigi, il siculo Vito Crimi dovrebbe farcela a ottenere il ruolo di sottosegretario con delega ai servizi. Su questa nomina, che spetta a M5s in quanto la Lega avrà già il Viminale, c'è stata una spaccatura interna. Potrebbe essere risolta con l'invio di un fedelissimo di Beppe Grillo come il senatore Elio Lannutti nel Copasir, la cui presidenza andrà come sempre all'opposizione.
Francesco Bonazzi
Mattarella vuole fare il badante di Conte
La strana coppia formata da Sergio Mattarella e Giuseppe Conte sembra andare sempre più d'accordo, e per la Lega potrebbero essere guai seri. Il presidente della Repubblica e il (quasi) presidente del Consiglio, nelle due ore di incontro dell'altro ieri al Quirinale, si sono ritrovati sulla stessa lunghezza d'onda: quella di Mattarella. Del resto, bisogna capirlo, Conte: Mattarella gli ha fatto capire che l'unica garanzia che il professore ha di arrivare a Palazzo Chigi e di restarci a lungo è l'armonia con il Colle.
Ieri, mentre Conte alla Camera riceveva le delegazioni di tutti i partiti, dal Quirinale è trapelata una «velina» che ha scatenato una vera e propria bufera. «Il Quirinale», ha fatto sapere Mattarella, «sta attendendo l'esito delle consultazioni avviate dal presidente del Consiglio incaricato e si aspetta una risposta da Giuseppe Conte, che ha accettato l'incarico con riserva. Quanto alla possibilità che esistano veti presidenziali su alcuni ministri», ha aggiunto il Quirinale, «il Colle risponde che il tema all'ordine del giorno non è quello di presunti veti ma, al contrario, quello dell'inammissibilità di diktat nei confronti del presidente del Consiglio e del presidente della Repubblica nell'esercizio delle funzioni che la Costituzione attribuisce loro. La Costituzione prevede scelte condivise tra presidente del Consiglio e presidente della Repubblica sulla scelta dei ministri. La preoccupazione del Colle», ha fatto trapelare Mattarella, «è che si stia cercando di limitare l'autonomia del presidente del Consiglio incaricato e, di conseguenza, del presidente della Repubblica nell'esercizio delle loro prerogative. L'articolo 92 della Costituzione, tra le altre cose, recita: il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri».
Tradotto dal mattarellese: caro Matteo Salvini, su Paolo Savona ministro dell'Economia non accettiamo diktat. Non accettiamo, al plurale: Mattarella parla anche a nome di Conte. È questo che preoccupa la Lega, che su Savona si gioca tutto: se dovesse saltare, sarebbe chiaro che Matteo Salvini in questo governo legastellato avrebbe un ruolo assolutamente marginale. Il Carroccio teme che Mattarella possa usare Conte come arma contro Salvini, che non molla la presa e insiste sul suo economista. «Noi proponiamo», ha commentato Matteo Salvini, subito dopo la diffusione delle indiscrezioni dal Quirinale, «non imponiamo. Noi consigliamo, suggeriamo. Quando c'è il meglio a disposizione tu parti dal meglio e dal mio punto di vista e di tanti altri Savona è il meglio, è la garanzia che l'Italia possa tornare a sedersi ai tavoli europei da protagonisti. Comunque noi umilmente facciamo le nostre proposte, mettendoci a disposizione». Più sfumata la risposta di Luigi Di Maio, che pure continua a sostenere la candidatura di Paolo Savona all'Economia, a chi gli chiedeva delle indiscrezioni: «Non so neanche», ha detto Di Maio, «se sono vere. Figuratevi se commento il Quirinale. Escono tante cose anche su di me che non sono vere. Della squadra dei ministri bisognerà prima parlarne con il premier incaricato Giuseppe Conte», ha tagliato corto Di Maio, «che deciderà con il capo dello Stato».
La giornata di consultazioni ha portato in dote a Giuseppe Conte quattro preziosissimi senatori in più: gli ex M5s Maurizio Buccarella e Carlo Martelli, e i parlamentari eletti all'estero Ricardo Antonio Merlo e Adriano Cario voteranno sì alla fiducia, e così la maggioranza sale a quota 171. Il numero potrebbe ancora salire, visto che i rappresentanti delle Autonomie tengono aperta l'interlocuzione con Conte: i senatori di Svp-Patt e Uv sono quattro.
Emma Bonino, di + Europa, ha annunciato una «opposizione rigorosa»; Pietro Grasso di Leu ha parlato di «opposizione intransigente». Giorgia Meloni, di Fdi, ha assunto una posizione più sfumata; il Pd ha confermato una opposizione dura. Forza Italia ha movimentato la giornata: Silvio Berlusconi, insieme ai capigruppo Mariastella Gelmini e Anna Maria Bernini, ha incontrato Conte, ma al termine del colloquio con il premier incaricato non si è presentato ai microfoni, ma ha incontrato (da solo) Matteo Salvini. Subito dopo, ha riunito lo stato maggiore del partito. Forza Italia ha ribadito poi attraverso una nota il «no» al governo Conte. Subito dopo, Conte ha incontrato le delegazioni della sua maggioranza, Lega e M5s. «Ottimo confronto», ha detto Matteo Salvini al termine della consultazione, «con Giuseppe Conte: idee, proposte, un mondo diverso rispetto a quello che leggiamo su qualche giornale, si parla del futuro della gente fuori del palazzo che ci chiede di far partire il governo. A Conte», ha aggiunto Salvini, «l'onore e l'onere di proporre, a chi di dovere, nomi e ruoli di chi si farà carico realizzare quello che gli italiani si aspettano».
«Noi siamo», ha detto Luigi Di Maio, «una delle due forze politiche che fanno parte di questa maggioranza, che mira a governare cinque anni. Non abbiamo discusso di nomi. Della squadra dei ministri», ha aggiunto Di Maio, «si occuperanno il presidente Conte e il presidente della Repubblica Mattarella».
«Oggi», ha detto Giuseppe Conte, al termine delle consultazioni, «ho avviato e concluso le consultazioni con tutti i partiti. Desidero ringraziarli tutti vivamente per la franca e cortese interlocuzione che ho avuto con tutti loro, è stata una giornata proficua da tutti i punti di vista. Domattina (oggi per chi legge, ndr) incontrerò il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco. Per quanto riguarda la formazione del governo», ha aggiunto Conte, «dedicherò l'intera giornata di domani (oggi, ndr) a elaborare una proposta da sottoporre al presidente della Repubblica. Saranno ministro politici, che condividono obiettivi e programmi del contratto». Il premier incaricato potrebbe sciogliere la riserva domattina.
Carlo Tarallo
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Il prof che Matteo Salvini vorrebbe all'Economia ha maturato le proprie tesi antieuropee sul campo: Bankitalia, il governo Ciampi, i grandi atenei. E quando firmammo per Maastricht, lui c'era: «La Germania ci domina».Lo studioso Paolo Savona sfata il mito dell'inviolabilità del patto di stabilità e mette in discussione i dogmi dannosi dell'eurozona. Può essere l'uomo della svolta, perciò lo osteggiano.Pentastellati e Carroccio fiutano l'ultimo assalto dei «mandarini» per normalizzare l'esecutivo. Un nodo da risolvere resta lo Sviluppo economico, erogatore di finanziamenti: i lumbard spingono Bonomi, ex Sea.Il Colle apre il suo ombrello: «Inaccettabili i diktat al premier sui nomi». Salvini: «Noi suggeriamo, ma Savona è il meglio». L'incaricato vede i gruppi: Pd e Fi fanno muro. Da ex M5s ed eletti all'estero ossigeno al Senato. Oggi programma e ministri.Lo speciale contiene quattro articoli.I tedeschi? In fondo non si sono mai scrollati di dosso la visione nazista dell'Europa. La moneta unica? Un cappio che stringe al collo dell'Italia e ha dimezzato il nostro potere d'acquisto. L'economista Paolo Savona, candidato numero uno al Tesoro di Lega e M5s, non è abituato ad avere peli sulla lingua. Forse anche per questione di terra natale, la stessa Sardegna del picconatore Francesco Cossiga. E come lui, non nasconde le idee che lo animano. Spesso critiche nei confronti di Bruxelles e il suo establishment, per questo motivo si è guadagnato il soprannome di «professore antieuro», anche se è la semplificazione di un pensiero molto più articolato. Tutto ciò sembra comunque preoccupare il presidente Sergio Mattarella, che preferirebbe un ministro più gradito ai partner europei. In particolare alla cancelliera Angela Merkel, con la quale Savona ha sempre avuto pochissimo feeling. Ritiene infatti che euro ed Ue siano «creazioni della Germania», ideate «per controllare e sfruttare in maniera coloniale gli altri Paesi europei».Come si legge nella sua autobiografia, che verrà pubblicata a breve: «La Germania non ha cambiato la visione del suo ruolo in Europa dopo la fine del nazismo, pur avendo abbandonato l'idea di imporla militarmente». Secondo il suo autorevole parere, il nazismo proponeva la Germania come Paese d'ordine e pretendeva che tutte le monete si dovessero comportare come il marco. Il resto dei Paesi, Italia compresa, non doveva dedicarsi all'industria ma all'agricoltura, al turismo e al benessere dei tedeschi. Savona ha sempre affermato che l'unica differenza (non da poco, a dire il vero) sta nel fatto che prima il Terzo Reich voleva imporsi manu militari. Oggi invece i tedeschi hanno inventato un meccanismo che si chiama Europa unita e che «porta gli stessi effetti». Nonostante i pareri chiari e lapidari, non bisogna però pensare a Paolo Savona come a un iconoclasta, pronto a dare alle fiamme il Reichstag o Palazzo Berlaymont, sede della stigmatizzata Commissione europea. Stiamo parlando di un politico e studioso nato e cresciuto all'interno delle istituzioni, il cui curriculum è inattaccabile. Dopo la laurea cum laude nel 1961 comincia la carriera al centro studi di Banca d'Italia, dove diventa direttore. Le esperienze all'estero sono di primissimo ordine: si specializza in economia monetaria ed econometria al Massachusetts Institute of Technology di Boston, dove collabora con Franco Modigliani e studia con Giorgio La Malfa la curva dei rendimenti dell'economia italiana. Sempre oltreoceano collabora con la Federal Reserve a Washington, dove studia il funzionamento del mercato monetario in vista dell'emissione in Italia dei Bot. Scorrere l'intero curriculum del professore, avendo compiuto 82 anni e sempre lavorato parecchio, diventerebbe troppo lungo. Aggiungiamo che ha insegnato politica economica all'università di Cagliari, di Perugia, di Tor Vergata a Roma, alla Luiss, alla Scuola superiore della pubblica amministrazione. È stato direttore generale di Confindustria e ha ricoperto vari incarichi istituzionali, tra cui ministro dell'Industria e al riordino delle partecipazioni statali nel governo di Carlo Azeglio Ciampi. Con Silvio Berlusconi è stato a capo del dipartimento per le Politiche comunitarie.Ma soprattutto ha affiancato Guido Carli quando da ministro del Tesoro firmò per l'Italia il trattato di Maastricht. E sin dal 1992 si è espresso in modo molto critico rispetto ai parametri stabiliti dal trattato, che sono secondo Savona troppo rigidi e privi di base scientifica. Una convinzione che lo accompagna da 25 anni, da tempi non sospetti e non ha nulla a che fare con il populismo o gli sguaiati fermenti antieuropei degli ultimi anni. Il professore sostiene che Carli e Ciampi fossero consapevoli che l'Italia non era pronta a entrare nell'euro, ma «non volevano rimanere fuori dalla porta». Erano convinti in buona fede che il tempo avrebbe migliorato la situazione, mentre invece «è peggiorata».Non esclude a priori l'idea che Roma possa uscire dall'Ue o dall'eurozona, ma ritiene che questa eventualità debba essere attentamente preparata, perché delicata e pericolosa. Come scrive nel suo libro: «Se l'Italia decidesse di seguire il Regno Unito (ma questa scelta va seriamente studiata) essa attraverserebbe certamente una grave crisi di adattamento, con danni immediati ma effetti salutari, quelli che ci sono finora mancati: sostituirebbe infatti il poco dignitoso vincolo esterno con una diretta responsabilità di governo dei gruppi dirigenti». Dicevamo, e bisogna ribadirlo, che il probabile ministro del governo di Giuseppe Conte è però lontano dalle demagogie che vedono nell'Unione l'origine di tutti i mali. Non si definisce antieuropeista, anzi dice di essere per l'Europa unita, ma biasima le élite di Bruxelles e la moneta unica. «L'euro ha dimezzato il potere d'acquisto degli italiani, anche se le autorità lo negano», si legge ancora in un passaggio dell'autobiografia. Inoltre attacca l'ex presidente del Consiglio, Mario Monti, che descrive come «portabandiera del servilismo agli interessi dei poteri dominanti». E infine accusa il governatore della Bce, Mario Draghi, e quello della Banca d'Italia, Ignazio Visco, di aver contribuito a chiudere l'Italia nella «gabbia europea».Insomma, Paolo Savona sembra la persona giusta, con l'autorevolezza e l'esperienza necessarie, per andare a discutere e ricontrattare norme, vincoli e regolamenti a Bruxelles. Si tratta di ricostruire e non sfasciare l'Unione, ma tornando a far sentire la voce dell'Italia, da troppi anni inascoltata. Che poi è anche quello che gli elettori hanno chiesto con il voto del 4 marzo scorso.Si tratta soprattutto di recuperare la posizione dell'Italia come commenta Giulio Sapelli, docente di Storia economica all'Università di Milano: «Preoccupato per una rottura degli accordi con l'Europa? Bisognerebbe essere più preoccupati per l'inasprirsi della situazione economica. Aumentano i poveri, i disoccupati e ci sono piccole e medie imprese che non trovano operai specializzati. Tutto è fuori squadra. Abbiamo quasi distrutto il sistema universitario, non formiamo più classe dirigente. Abbiamo perso prestigio internazionale». E conclude difendendo il collega: «Allora rinegoziamo i trattati. Nel 2005 Danimarca e Francia hanno votato contro la Costituzione europea e nessuno ha detto nulla. Sono anni che Savona dice che un sistema a cambi fissi, a moneta unica sta distruggendo l'economia e produce divergenze. E ora la sinistra fa la schizzinosa con Savona che se alza il telefono parla con tutti i governatori centrali? Ma come si permettono? Ma si sciacquino la bocca».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ha-capito-che-lue-non-e-cosa-buona-dopo-una-vita-a-osservarla-da-vicino-2571770600.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="dalleuro-alla-sovranita-le-eresie-di-savona-terrorizzano-bruxelles" data-post-id="2571770600" data-published-at="1765665442" data-use-pagination="False"> Dall’euro alla sovranità: le «eresie» di Savona terrorizzano Bruxelles Per entrare nell'euro Carlo Azeglio Ciampi [...] impose agli italiani una pesante eurotassa per consentire il raggiungimento dell'obiettivo. A eresia si sovrappose quindi altra eresia: la scelta troppo affrettata di entrare nell'euro invece di invocare, come fece il Regno Unito, la clausola prevista dal Trattato di opting out, ossia di non aderirvi in attesa di una più matura riflessione delle condizioni richieste per restarci, che in Italia mancarono, nonostante che l'adesione fosse equivalente a un'importante modifica costituzionale, che avrebbe richiesto procedure più elaborate e maggioranze più qualificate. Dicono che, se non si fosse deciso allora, non saremo mai entrati, con una classica affermazione incoerente con i dati della storia d'Italia del tipo «se il naso di Cleopatra fosse stato diverso, lo sarebbe stata anche la storia del mondo». Intanto siamo entrati nell'eurozona e, perdendo la sovranità monetaria, stiamo perdendo anche quella fiscale, senza ottenere la terra promessa dell'unione politica. Era così difficile capirlo subito? Il problema della crisi dell'Italia sta tutta qui. [...] Essersi disfatti della sovranità di regolare il mercato e la moneta senza mettere le sorti europee in comune, nell'illusione che ciò avrebbe migliorato le nostre condizioni, è stato un errore di politica economica molto grave. Si sarebbe dovuto insistere nel convincere i cittadini quali fossero i comportamenti adatti per fronteggiare le nuove condizioni di competizione internazionale, mantenendo le tre sovranità monetarie (quantità di moneta, tassi d'interesse e rapporti di cambio) per correggere gli effetti del mancato rispetto delle regole del gioco da parte degli italiani e degli europei comunitari. Oggi, invece, sulla base della politica decisa a Bruxelles e a Francoforte, dobbiamo subire una continua deflazione. Saprà reggere la società italiana? Noi siamo propensi a rispondere sì, ma i danni che si produrranno saranno notevoli. Ci aggrappiamo all'Europa e all'euro senza voler ammettere la verità: c'è un costo da pagare se non vogliamo correre l'alea del rischio in cui si incorrerebbe se abbandonassimo l'Unione europea. [...] Si preferisce pensare che i giovani siano incalliti bamboccioni destinati a stare senza lavoro, tanto provvederanno le famiglie e quel poco di welfare che resta. Non si considera che, se non si impegna al lavoro una generazione, il Paese e le sue istituzioni peggiorano in prospettiva. La «manovra correttiva» è la madre di tutti gli esorcismi della politica. Con essa si è data l'illusione agli italiani che si ponesse rimedio ai mali di fondo in contropartita dei sacrifici richiesti ogni volta. Il risultato, però, è stato sempre lo stesso: la pressione fiscale è aumentata, ma la spesa pubblica non è mai stata frenata [...] Le manovre sono il veicolo, non si sa se attivato in modo cosciente o inconsapevole, attraverso il quale si è causato, anno dopo anno, il disastro della finanza pubblica. Le istituzioni europee si sono impossessate dello strumento suggerendo inizialmente e ora imponendo ai paesi in difficoltà manovre correttive a prescindere dagli effetti deflazionistici che esse generano, spingendo in un circolo vizioso le economie già afflitte da crisi di crescita e di occupazione preoccupanti [...] Manovra dopo manovra, lo Stato si è presa quasi la metà del prodotto lordo annuale. È un vero assalto al reddito personale, che si trasmette al patrimonio delle famiglie, ossia al risparmio. La continua invocazione del rispetto del Patto di stabilità (che si è perso per strada lo sviluppo) e delle condizioni di permanenza nell'euro ha tutti i crismi di un esorcismo per evitare che le cose vadano peggio. «Che cosa avremmo dovuto patire di peggio se non avessimo l'euro» è la frase consueta che accompagna chi non ha altro argomento da avanzare per difendere i costi che stiamo pagando per restarci. L'invasione europea delle sovranità fiscali nazionali, in nome della stabilità che non è stata in grado di garantire è solo un modo per sostituire l'unità politica con l'egemonia dei più forti, che non è certamente il simbolo più lampante di democrazia. è [...] Non intendiamo proporre di uscire dall'Unione europea e, quindi, dall'euro, ma solo uscire da un duplice equivoco. Uno giuridico, di considerare legittimo che, data la Costituzione italiana e la mancanza di una europea di pari livello, i gruppi dirigenti possano modificare, come hanno fatto, la Costituzione reale senza adeguate procedure che garantiscano ai cittadini del nostro Paese d'essere governati da leggi e non da altri Stati. Uno di fatto, di permettere che si realizzi un'invasione del nostro futuro in nome di un ideale, quello della stabilità, che il Nobel James Tobin affermò essere un principio con cui non si mangia. Un Paese dotato di gruppi dirigenti seri deve essere pronto ad attuare un piano A per stare nell'euro in contropartita di garanzie di stabilità e sviluppo [...]. Ma anche attivare un piano B, dotato di un programma di emergenza sostenuto da alleanze internazionali solide, che garantiscano la possibilità di rientrare in possesso degli strumenti tradizionali di politica economica (creazione monetaria, tassi d'interesse, rapporti di cambio, entrate e spese pubbliche) per recuperare la responsabilità del nostro futuro in un habitat democratico. Probabilmente non accadrà nulla di catastrofico, come la dissoluzione dell'euroarea e il crollo dell'economia italiana, anche se tutti si vanno impegnando a raggiungerle; ma i danni che si avranno saranno piuttosto elevati. In Italia, un certo numero di imprese falliranno e le banche ne usciranno più deboli e forse in mani straniere; ma, soprattutto, i ricchi diverranno ancora più ricchi e i poveri ancora più poveri. Alla fine del 2011 si ritenne di poter mascherare gli effetti costituzionali della decisione nominando un «uomo della provvidenza», il primo dell'era postfascista: l'economista Mario Monti. Conoscevo il collega da una vita: persona molto per bene, di elevata educazione, sorretto dalla stampa radical chic, però titolare di eresie economiche. Era ed è un sostenitore dell'idea che da questa, se seguita fino in fondo, verrebbe tutto il bene necessario a un Paese; a volere essere generosi, questi europeisti sono tardi epigoni delle idee di Platone secondo cui il mondo va governato dalle élite, perché il popolo non sa scegliere mentre loro sì. Per essi la democrazia è un fastidioso metodo di governo e meno la si utilizza, meglio è. L'errore più grave commesso da chi ha propiziato e firmato il Trattato di Maastricht è aver creduto che l'euro fosse il viatico per l'unificazione politica del Vecchio continente. Solo menti ottuse possono affermare oggi che l'evento si è determinato. [...] Non sorprendiamoci se la reazione antieuro e antieuropea, che ignora ideali e cancella successi, cresce, e quella pro euro e pro europea si fondi sulla paura di ciò che verrebbe in caso di deflagrazione dell'unione. L'attuale politica della Bce di richiedere un maggiore impegno sulla politica fiscale è l'opposto di quanto sia necessario. La Bce dovrebbe chiedere alla Commissione Europea di avere un deficit fiscale emettendo obbligazioni europee sul mercato globale. La soluzione del problema dell'euro non risiede quindi in una maggiore integrazione politica, ma nella creazione di un nuovo agente fiscale o nell'azione della Commissione generatrice di un deficit che consenta il formarsi di un surplus nei Paesi altamente indebitati. I nuovi vincoli europei [...] hanno aggravato la depressione in cui il Paese è caduto: il prodotto interno lordo reale è crollato di circa il 10% e la disoccupazione si è grandemente innalzata. Il modesto tasso di crescita reale recentemente registrato non colma il vuoto creatosi: 13 milioni restano senza lavoro. [...] Toccato il fondo della crisi, l'economia italiana ha registrato una lieve ripresa, ma i problemi sono restati sostanzialmente gli stessi: il popolo e le imprese chiedono continuamente protezione, ottenendola in parte [...] Tra i problemi che assillano il Paese, il più grave è certamente il debito pubblico; esso è esposto a rischi di default a causa della sua ri-denominazione in euro, una moneta fuori dalla sovranità monetaria del Paese in un assetto istituzionale privo di una politica comune dei debiti sovrani. Se il debito pubblico fosse in lire, il suo rimborso sarebbe sempre possibile perché lo Stato avrebbe il potere di stampare la moneta necessaria per il rimborso, ovviamente creando altri problemi per la creazione in eccesso, ma non l'insolvenza. La nascita dell'euro ha eliminato il rischio di cambio all'interno dell'eurosistema, ma generato il rischio di default sui debiti sovrani. Ditemi voi se questa storia non è un incubo. La Germania non ha cambiato la visione del suo ruolo in Europa dopo la fine del nazismo, pur avendo abbandonato l'idea di imporla militarmente. Per tre volte l'Italia ha subìto il fascino della cultura tedesca che ha condizionato la sua storia, non solo economica, con la Triplice alleanza del 1882, il Patto d'acciaio del 1939 e l'Unione europea del 1992. È vero che ogni volta fu una nostra scelta. Non impariamo mai dagli errori? Paolo Savona <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ha-capito-che-lue-non-e-cosa-buona-dopo-una-vita-a-osservarla-da-vicino-2571770600.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="timori-sulla-squadra-di-governo-per-i-tecnici-infiltrati-dal-quirinale" data-post-id="2571770600" data-published-at="1765665442" data-use-pagination="False"> Timori sulla squadra di governo per i tecnici infiltrati dal Quirinale La battaglia delle ultime ore è sui soldi, altro che princìpi. Su Infrastrutture, Sviluppo economico e ministero dell'Economia, la Lega e il Movimento 5 stelle, a sua volta diviso al proprio interno, si stanno sfidando come in una partita di Monopoli. Ben sapendo, anche se non lo ammettono, che il banco lo tengono mandarini di Stato e poteri forti, per il tramite del Quirinale. «Ormai vogliono solo limitare i danni, ma hanno perso», si dicono i vertici grillini. E anche nel Carroccio c'è la convinzione che ormai la partita sia vinta, «ma bisogna fare attenzione agli infiltrati» dell'ultimo minuto. Perché basta che Matteo Salvini o Luigi Di Maio mostrino la minima incertezza che arriva subito, su un piatto d'argento, il classico «tecnico» che poi, in Consiglio dei ministri, sarà la sentinella del Quirinale. «Lo schema è quello di piazzarci un Giovanni Legnini», il senatore abruzzese del Pd che svolge il compito di vicepresidente del Csm e che Sergio Mattarella utilizza come ambasciatore, sapendolo assai stimato da tutti. Il capo della Lega dà per quasi sicuro Paolo Savona al Mef e lo ha detto anche nell'ennesimo video autoprodotto che sembra fatto per far percepire a Rai e Mediaset la nuova era della disintermediazione: «Sono orgoglioso di avere al mio fianco un ministro come Savona, io sono piccolo di fronte a lui. Lui saprà difendere il diritto dell'Italia di andare a crescere, contrattare da pari a pari con i partner europei: Merkel, Macron, i commissari Ue...». Un Salvini in versione Giovanni Battista. Che però intanto si prepara a fare il ministro dell'Interno secondo una semplice linea: «Gli altri espellevano solo la Shabalayeva, noi faremo rispettare i decreti di espulsione». E già si analizzano i primi nomi come capo della polizia, al posto di Franco Gabrielli. Perché leghisti e grillini stanno anche già iniziando a parlare di nomine. E se ancora non è chiaro chi sarà il ministro della Difesa (il primo identikit è però questo: «Non il solito amico della Francia»), già sembra certo che la stagione dell'ex banchiere piddino Alessandro Profumo ai vertici di Leonardo sarà o breve, o travagliata, o breve e travagliata. Confermato che Di Maio sarà un super ministro del Sud e dell'economia non di carta, con Sviluppo economico e Welfare, se Savona non dovesse farcela ecco che al Mef andrà il leghista Giancarlo Giorgetti. Altrimenti ben felice di starsene a Palazzo Chigi come novello Richelieu. Alla Farnesina, lo Stato (delle cose) spinge sempre i nomi di Elisabetta Belloni e Giampiero Massolo, ex capo dei servizi segreti. L'ambasciatrice è stata stoppata e Massolo anche, nonostante la Lega lo avesse accettato. Il fatto che provenga dalla nidiata andreottiana e dalla segreteria di Silvio Berlusconi premier ha convinto M5s ha dargli lo stop. Chi ne ha beneficiato è stato il tecnico Enzo Moavero Milanesi, che tornerà per la terza volta agli Affari europei e rappresenta il contentino al capo dello Stato da parte dei ragazzi terribili Matteo e Gigino. Mentre per gli Esteri corre l'ambasciatore Pasquale Salzano, renziano e amicissimo di Di Maio. E ora i mal di pancia tra alleati, che riguardano in gran parte lo Sviluppo economico, dove ci sono i soldi dei cantieri, delle infrastrutture e dei pedaggi che creano consenso sul territorio e dei finanziamenti ai partiti, la delega alle telecomunicazioni, la gestione delle grandi crisi occupazionali. M5s e Di Maio vogliono la trentenne Laura Castelli, torinese in grande ascesa. Però si è messa in luce in quel movimento No Tav che il Pd piemontese ha saputo criminalizzare con personaggi come Stefano Esposito, Giancarlo Caselli, Piero Fassino e Sergio Chiamparino (più moderato). Hanno così regalato migliaia di voti della sinistra ai 5 stelle, che ora però un po' se ne vergognano e già lo dimostrarono scegliendo come sindaco di Torino Chiara Appendino, espressione della buona borghesia locale, al posto di Vittorio Bertola. Proprio per il passato No Tav, la Castelli ha il veto della Lega, che preferisce l'immarcescibile avvocato della Sea Giuseppe Bonomi. Possibile dunque che Castelli finisca come vice di Savona all'Economia. Il giovane senatore milanese Daniele Pesco è invece il probabile sottosegretario del Mise per le crisi aziendali, come Ilva e Alitalia, che già segue per il Movimento. E il giornalista Emilio Carelli dovrebbe invece essere confermato ai Beni culturali, essendo tra i più colti della compagnia. Tornando invece a Palazzo Chigi, il siculo Vito Crimi dovrebbe farcela a ottenere il ruolo di sottosegretario con delega ai servizi. Su questa nomina, che spetta a M5s in quanto la Lega avrà già il Viminale, c'è stata una spaccatura interna. Potrebbe essere risolta con l'invio di un fedelissimo di Beppe Grillo come il senatore Elio Lannutti nel Copasir, la cui presidenza andrà come sempre all'opposizione. Francesco Bonazzi <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ha-capito-che-lue-non-e-cosa-buona-dopo-una-vita-a-osservarla-da-vicino-2571770600.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="mattarella-vuole-fare-il-badante-di-conte" data-post-id="2571770600" data-published-at="1765665442" data-use-pagination="False"> Mattarella vuole fare il badante di Conte La strana coppia formata da Sergio Mattarella e Giuseppe Conte sembra andare sempre più d'accordo, e per la Lega potrebbero essere guai seri. Il presidente della Repubblica e il (quasi) presidente del Consiglio, nelle due ore di incontro dell'altro ieri al Quirinale, si sono ritrovati sulla stessa lunghezza d'onda: quella di Mattarella. Del resto, bisogna capirlo, Conte: Mattarella gli ha fatto capire che l'unica garanzia che il professore ha di arrivare a Palazzo Chigi e di restarci a lungo è l'armonia con il Colle. Ieri, mentre Conte alla Camera riceveva le delegazioni di tutti i partiti, dal Quirinale è trapelata una «velina» che ha scatenato una vera e propria bufera. «Il Quirinale», ha fatto sapere Mattarella, «sta attendendo l'esito delle consultazioni avviate dal presidente del Consiglio incaricato e si aspetta una risposta da Giuseppe Conte, che ha accettato l'incarico con riserva. Quanto alla possibilità che esistano veti presidenziali su alcuni ministri», ha aggiunto il Quirinale, «il Colle risponde che il tema all'ordine del giorno non è quello di presunti veti ma, al contrario, quello dell'inammissibilità di diktat nei confronti del presidente del Consiglio e del presidente della Repubblica nell'esercizio delle funzioni che la Costituzione attribuisce loro. La Costituzione prevede scelte condivise tra presidente del Consiglio e presidente della Repubblica sulla scelta dei ministri. La preoccupazione del Colle», ha fatto trapelare Mattarella, «è che si stia cercando di limitare l'autonomia del presidente del Consiglio incaricato e, di conseguenza, del presidente della Repubblica nell'esercizio delle loro prerogative. L'articolo 92 della Costituzione, tra le altre cose, recita: il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri». Tradotto dal mattarellese: caro Matteo Salvini, su Paolo Savona ministro dell'Economia non accettiamo diktat. Non accettiamo, al plurale: Mattarella parla anche a nome di Conte. È questo che preoccupa la Lega, che su Savona si gioca tutto: se dovesse saltare, sarebbe chiaro che Matteo Salvini in questo governo legastellato avrebbe un ruolo assolutamente marginale. Il Carroccio teme che Mattarella possa usare Conte come arma contro Salvini, che non molla la presa e insiste sul suo economista. «Noi proponiamo», ha commentato Matteo Salvini, subito dopo la diffusione delle indiscrezioni dal Quirinale, «non imponiamo. Noi consigliamo, suggeriamo. Quando c'è il meglio a disposizione tu parti dal meglio e dal mio punto di vista e di tanti altri Savona è il meglio, è la garanzia che l'Italia possa tornare a sedersi ai tavoli europei da protagonisti. Comunque noi umilmente facciamo le nostre proposte, mettendoci a disposizione». Più sfumata la risposta di Luigi Di Maio, che pure continua a sostenere la candidatura di Paolo Savona all'Economia, a chi gli chiedeva delle indiscrezioni: «Non so neanche», ha detto Di Maio, «se sono vere. Figuratevi se commento il Quirinale. Escono tante cose anche su di me che non sono vere. Della squadra dei ministri bisognerà prima parlarne con il premier incaricato Giuseppe Conte», ha tagliato corto Di Maio, «che deciderà con il capo dello Stato». La giornata di consultazioni ha portato in dote a Giuseppe Conte quattro preziosissimi senatori in più: gli ex M5s Maurizio Buccarella e Carlo Martelli, e i parlamentari eletti all'estero Ricardo Antonio Merlo e Adriano Cario voteranno sì alla fiducia, e così la maggioranza sale a quota 171. Il numero potrebbe ancora salire, visto che i rappresentanti delle Autonomie tengono aperta l'interlocuzione con Conte: i senatori di Svp-Patt e Uv sono quattro. Emma Bonino, di + Europa, ha annunciato una «opposizione rigorosa»; Pietro Grasso di Leu ha parlato di «opposizione intransigente». Giorgia Meloni, di Fdi, ha assunto una posizione più sfumata; il Pd ha confermato una opposizione dura. Forza Italia ha movimentato la giornata: Silvio Berlusconi, insieme ai capigruppo Mariastella Gelmini e Anna Maria Bernini, ha incontrato Conte, ma al termine del colloquio con il premier incaricato non si è presentato ai microfoni, ma ha incontrato (da solo) Matteo Salvini. Subito dopo, ha riunito lo stato maggiore del partito. Forza Italia ha ribadito poi attraverso una nota il «no» al governo Conte. Subito dopo, Conte ha incontrato le delegazioni della sua maggioranza, Lega e M5s. «Ottimo confronto», ha detto Matteo Salvini al termine della consultazione, «con Giuseppe Conte: idee, proposte, un mondo diverso rispetto a quello che leggiamo su qualche giornale, si parla del futuro della gente fuori del palazzo che ci chiede di far partire il governo. A Conte», ha aggiunto Salvini, «l'onore e l'onere di proporre, a chi di dovere, nomi e ruoli di chi si farà carico realizzare quello che gli italiani si aspettano». «Noi siamo», ha detto Luigi Di Maio, «una delle due forze politiche che fanno parte di questa maggioranza, che mira a governare cinque anni. Non abbiamo discusso di nomi. Della squadra dei ministri», ha aggiunto Di Maio, «si occuperanno il presidente Conte e il presidente della Repubblica Mattarella». «Oggi», ha detto Giuseppe Conte, al termine delle consultazioni, «ho avviato e concluso le consultazioni con tutti i partiti. Desidero ringraziarli tutti vivamente per la franca e cortese interlocuzione che ho avuto con tutti loro, è stata una giornata proficua da tutti i punti di vista. Domattina (oggi per chi legge, ndr) incontrerò il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco. Per quanto riguarda la formazione del governo», ha aggiunto Conte, «dedicherò l'intera giornata di domani (oggi, ndr) a elaborare una proposta da sottoporre al presidente della Repubblica. Saranno ministro politici, che condividono obiettivi e programmi del contratto». Il premier incaricato potrebbe sciogliere la riserva domattina. Carlo Tarallo
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Prima di essere lapidati da musicofili inflessibili o da fanatici ammiratori di Beethoven (lo siamo anche noi) lasciamo allo stesso Ludwig Vchean l’ultima parola sull’argomento: «Solo i puri di cuore», affermò il genio tedesco, «possono cucinare una buona zuppa». Capito? Il sommo compositore a tavola amava i piatti semplici e disprezzava quelli troppo complicati. Adorava la zuppa, soprattutto quella di pane e uova: era il suo piatto preferito insieme ai maccheroni con il formaggio. Era sordo, ma le papille gustative gli funzionavano alla grande.
Una vera e propria zuppa di verdure musicale la serve al pubblico un gruppo austriaco formato da musicisti, designer, scenografi, autori. Si chiama The Vegetable Orchestra, che usa le verdure come strumenti musicali: una carota intagliata in una certa maniera diventa un flauto, la zucca uno strumento di percussione, le melanzane diventano dopo un sapiente lavoro di intaglio delle nacchere, le zucchine strumenti a fiato e così via. Con questi strumenti suonano pezzi di jazz o di dub, un genere musicale che deriva dal reggae giamaicano, e altra musica. Finito il concerto, dopo gli applausi del pubblico stupito da tanta musica «verde», i musicisti si trasformano in cuochi, gettano gli strumenti in pentoloni e preparano una bella zuppa per il pubblico dopo aver lavato gli strumenti, soprattutto quelli a fiato.
La zuppa vanta una storia vecchia come l’homo sapiens. Fu uno dei primi piatti elaborati dai nostri cavernicoli progenitori centinaia di migliaia di anni fa. Gli studiosi del periodo paleolitico ci documentano che la scoperta dell’acqua calda e il suo impiego per cuocere verdure e altri cibi avvenne nell’età della pietra antica, in incavi di roccia pieni d’acqua nella quale gli uomini primitivi tuffavano pietre roventi per farla bollire. Fu così che nacquero i primi minestroni. La parola «zuppa» arriverà molti millenni dopo, ma sempre in tempi molto antichi rispetto a noi, mutuata dal termine germanico suppa che definiva la fetta di pane inzuppata. Il pane era nell’antichità il cucchiaio dei poveri, le dita della mano la forchetta. La «posateria» delle classi più umili era tutta lì. Una sorta di brodaglia nera molto spartana chiamata melas zomos, nera zuppa, fatta con sangue di porco, budella e vino era la zuppa dei duri soldati di Sparta. A loro, che non cercavano mollezze, piaceva così, brutta da vedere ma semplice e nutriente, adatta a sostenere il fisico durante le campagne militari. Spostandoci in altre parti dell’antica penisola ellenica troviamo una cucina meno rigorosa, ma sempre con un menu nel quale zuppe e piatti brodosi a base di verdure, cereali, erbe spontanee e legumi vari, abbondavano.
Cotture e metodi a parte, quelle preparazioni sono le bis-bis-bisnonne delle zuppe che mangiamo noi oggi fatte, come allora, con cereali tipo orzo e farro, o con legumi, ceci, lenticchie, fave. Borlotti e cannellini erano al di là dell’Atlantico che aspettavano di essere scoperti. Il Phaseolus vulgaris arriverà dopo i viaggi di Colombo e degli altri viaggiatori su caravelle dirette verso il Nuovo mondo. Dalla Grecia a Roma le zuppe sostanzialmente non cambiano: erano piatti che facevano parte della dieta quotidiana dei Romani. Fonti di proteine e nutrienti, erano il comfort food delle classi plebee e dei contadini. Tra le altre zuppe, i legionari amavano quella fatta con pane, aglio, olio e aceto. Furono loro a introdurla in Spagna dove si evolverà fino a diventare il moderno gazpacho, zuppa fredda che si arricchì dal Cinquecento in poi con il pomodoro e i peperoni venuti dall’America.
Una zuppa leggendaria è la soupe à la pavoise, la zuppa pavese, che ha trovato posto nei libri di storia gastronomica dove si racconta di Francesco I di Valois, re di Francia sconfitto e fatto prigioniero dagli spagnoli di Carlo V nella battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525. L’accasciato François du grand nez, come lo chiamavano i suoi sudditi per via del nasone che gli troneggiava sopra la bocca, fu portato dai nemici vincitori in un cascinale di campagna dove trovò ristoro e consolazione nella povera zuppa preparatogli dalla contadina del casolare che mise in una rozza scodella due croste di pane raffermo sopra le quali scocciò un uovo versando poi sul tutto il brodo bollente di erbe spontanee che gorgogliava quotidianamente nella marmitta sul camino. Francesco I, con il morale a terra per la sconfitta («Tutto è perduto fuorché l’onore»), apprezzò talmente quella zuppa villana che quando ritornò sul trono convocò i cuochi di corte insegnando loro la ricetta della zuppa pavese che fu perfezionata dagli chef i quali aggiunsero altri ingredienti ricchi elevandola da contadina che era ad aristocratica.
C’è da dire che la zuppa in Francia troverà il successo che merita grazie a una figura più leggendaria che reale, tale Monsieur Boulanger marchand de bouillon, mercante di brodo. Siamo a Parigi 25 anni prima della presa della Bastiglia e dello scoppio della rivoluzione. Il mitico Boulanger vende zuppe restaurateurs, restauratrici, che sistemano lo stomaco dei clienti cagionevoli rimettendoli in salute in un ambiente tutto sommato comodo con i tavoli accoglienti. Nasce da queste zuppe il restaurant, il ristorante che prende il nome dal ristoro, il conforto, che regalano le zuppe. Dando ragione in questo all’antico e saggio proverbio italiano regalatoci dalla civiltà contadina fin dal Medioevo: «Sette cose fa la zuppa: cava la fame e la sete tutta, empie il ventre, netta il dente, fa dormire, fa smaltire e la guancia fa arrossire».
Il più alto riconoscimento a questo piatto umile ma tanto utile alla sopravvivenza della povera umanità, lo firmano, tra gli altri, alcuni grandi artisti moderni: Paul Cézanne con la sua Natura morta con zuppiera (1884), Pablo Picasso che affronta il tema della povertà ne La zuppa, opera del periodo blu che mostra una vecchia paurosamente magra che porge una scodella di zuppa a una bambina, ma soprattutto Andy Warhol. Il re della Pop art che confessò di aver mangiato a pranzo per vent’anni i barattoloni di zuppa Campbell’s rivoluzionò i concetti di natura morta e di bellezza immortalando le stesse lattine zuppesche in una serie di opere seriali la più importante delle quali è la Campbell’s Soup Cans che presenta tutta la produzione di zuppe della Cambell’s: al pomodoro, agli asparagi, alla carne, al pollo, ai fagioli neri, e così via per 200 volte. Paradossalmente a dare importanza alla zuppa nell’arte sono stati anche le attiviste per il clima che il 28 gennaio dello scorso anno lanciarono la zuppa contro la Gioconda di Leonardo, ben protetta dal vetro antiguai, invocando un’agricoltura mondiale sana.
È profondamente ingiusto nei confronti della zuppa il detto «Se non è zuppa è pan bagnato». Come sopra detto la zuppa è salvifica, ristoratrice, ristoro e medicina attraverso i secoli dell’umanità misera. E poi la famiglia zuppesca è molto varia. Oltre alla zuppa-madre ci sono la minestra, il minestrone, la crema, la vellutata, il passato. Non sono sinonimi, ogni piatto ha la sua caratteristica che riguarda gli ingredienti e le tecniche di preparazione per le quali rimandiamo ai libri di cucina.
Concludiamo con la mistica zen. Un allievo chiede al maestro: «Cosa devo fare per raggiungere l’Illuminazione?». Gli risponde il maestro: «Hai mangiato la zuppa?» «Sì». «Allora lava la scodella».
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Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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