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2018-10-20
Guerra semifredda fra M5s e Lega. La manovra ritorna in cantiere
ANSA
Farsi la guerra sulla pace (fiscale) è più di un paradosso: è un clamoroso autogol. Lo sanno bene Luigi Di Maio e Matteo Salvini, che oggi, alle 13, in Consiglio dei ministri, si troveranno faccia a faccia e limeranno, mettendo da parte le polemiche, il testo del decreto sulla pace fiscale, quello che ha scatenato la bufera tra Lega e Movimento 5 stelle. Del resto, ieri, è stato proprio il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, a richiamare i partiti che sostengono il governo al senso di responsabilità. «La maggioranza», ha detto ieri Conte da Bruxelles, «è assolutamente solida. Noi stiamo lavorando molto bene, quindi non c'è assolutamente motivo di dubitare. Abbiamo la piena consapevolezza che stiamo facendo riforme importanti per il Paese. Il problema lo risolviamo. È sorto un dubbio sulla traduzione tecnica dell'accordo politico. Se ci fosse qualche incongruenza», ha aggiunto Conte, «si può sempre intervenire. È una questione tecnica, escludo al momento che ci sia una questione politica, ma se ci fosse una questione politica la affronteremo». Come è ovvio, Matteo Salvini non ha smaltito del tutto l'amarezza per la «sparata» televisiva di Luigi Di Maio, ma la volontà di andare avanti aiuterà a smussare gli angoli, come sempre accade quando al governo c'è una coalizione e non un solo partito. Se poi, come in questo caso, la coalizione è formata da due grandi partiti con programmi elettorali diversi, non è possibile immaginare che tutto fili sempre liscio come l'olio. E così, salvo imprevisti clamorosi, la «guerra semifredda» tra Lega e M5s, è destinata a concludersi con una bella stretta di mano, anzi di manina, tra Salvini e Di Maio.
Matteo Salvini, ieri, ha utilizzato una diretta Facebook dal Trentino per fare chiarezza: «Noi siamo persone ragionevoli. Se il M5s ha cambiato idea, basta dirlo. Se Fico e Di Maio hanno cambiato idea, basta dirlo, noi siamo qui. Lo dicono, ci sediamo al tavolo, si va avanti. Meglio per telefono che in tv. Facciamo un altro Consiglio dei ministri per cambiare questo decreto. Rileggiamo e riscriviamo, ma lascio agli atti la verità di quel famoso Consiglio dei ministri, dal quale è nato questo can can su questo condono del quale non me ne può fregare di meno: c'erano due persone», ha raccontato Salvini, «protagoniste di quel Consiglio dei ministri da quale è nato quel decreto fiscale che ora fa inorridire qualche amico del M5s. Uno leggeva e uno scriveva, uno leggeva e uno verbalizzava il testo incriminato. Chi leggeva il testo sul cosiddetto condono, che non c'è, era il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che ha tutta la mia stima e di cui mi fido. Lui leggeva, e chi verbalizzava? Luigi Di Maio, altra persona coerente e corretta, con cui sto lavorando bene da quattro mesi e conto di lavorare bene altri cinque anni, verbalizzava. Insomma, passare per l'amico dei condonisti proprio no. Bisogna serrare le fila, compatti Lega e M5s. Rispettosi del contratto di governo ma senza fare scherzi. Ho aspettato», ha aggiunto Salvini, «senza dir nulla per ventiquattro ore e porto pazienza, anche se la pazienza ha un limite. Però per scemo non passo. Non volete quella roba lì? Non c'è. Andiamo in Consiglio dei ministri non per bisticciare. Chi se ne frega del condono! Anzi: anche il condono per gli abusivi di Ischia va riscritto».
Salvini parla di «Fico e Di Maio» non certo a caso: il presidente della Camera, Roberto Fico, sta conducendo una battaglia tutta interna al M5s per mettere in difficoltà Luigi Di Maio. Fico, ormai in preda alla «sindrome di Gianfranco Fini», sta utilizzando il suo ruolo di terza carica dello Stato per proporsi come leader di un'ipotetica alleanza M5s-Pd alle prossime politiche, se il centrodestra sarà unito, e manco a dirlo ieri ha gettato benzina sul fuoco: «Se rimane il condono», ha detto Fico, «mi sembra ovvio che ci sia un problema. Si agisce all'interno di un filo rosso che è quello del contratto perché se fossimo stati uguali alla Lega, ci saremmo candidati con la Lega ma noi non siamo uguali alla Lega e non ci candideremo nemmeno con la Lega. Se non si va avanti nel contratto non si può andare avanti. Se Salvini vuole parlare con me lo faccia sui contenuti e non dicendo: Fico faccia il presidente della Camera. Quello che dico io è da istituzione ma il background», conclude Fico, «appartiene alla nascita e alla costruzione del M5s».
Nemmeno il tempo di leggere le parole di Fico, e Luigi Di Maio è apparso in diretta Facebook, replicando a Salvini e riaccendendo la polemica: «Quando si dice che Conte leggeva e Di Maio scriveva si dice una cosa non vera. Nel testo del decreto letto lunedì sera», ha detto Di Maio, «c'era la dichiarazione integrativa con dentro il condono penale, dentro i capitali dall'estero? No, perché quello è stato oggetto di una riunione politica e Conte ha letto i termini generali dell'accordo in cdm. Da bugiardo non voglio passare e anche per questo quando mi si dice che ero distratto io non ci sto. La roba dello scudo penale per l'autoriciclaggio non serve. Siccome non siamo d'accordo, domani sistemiamo questa norma. Questo governo», ha sottolineato Di Maio, «può andare avanti per tanto tempo, perché tra M5s e Lega ci sono tante cose in comune».
Tutto lascia pensare che oggi il nodo sarà sciolto. L'ipotesi che il governo possa saltare per un dettaglio come questo, aprendo la strada a un esecutivo tecnico in un momento cruciale per il futuro dell'Italia e dell'Europa, quando su temi ben più importanti si è sempre raggiunta un'intesa, è pura fantapolitica.
Lo scudo poteva valere 3 miliardi
A vedere le tabelle della manovra sotto la voce altri proventi da pace fiscale le somme non superano i 180 milioni all'anno. Tale rigo fa appunto riferimento al tanto contestato articolo 9 del decreto fiscale, quello che prevederebbe uno scudo sui capitali portati all'estero. Uno scudo che azzererebbe il reato di autoriciclaggio. Non quello di riciclaggio. In sostanza, il testo voluto dal sottosegretario, Massimo Bitonci, spiega che nei confronti di quei cittadini che decidono di fare emergere il nero (entro il limite del 30% dell'imponibile dichiarato) non si applicano alcune norme penali che invece scattano nei confronti di chiunque abbia evaso anche poco: omessa dichiarazione, infedele dichiarazione, e un a serie di reati simili e soprattutto autoriciclaggio. Perché quel nero fatto poi bisogna farlo entrare nella disponibilità del commerciante che ha fatto “lo sconto" se non vuoi la fattura. E per farlo entrare nella disponibilità potresti compiere il reato di riciclaggio (la somma in nero è ovviamente illecita) e quasi di sicuro quello di autoriciclaggio. Se si applicassero quelle pene il contribuente che aderisce allo scudo anche su quelle cifre esigue rischierebbe comunque da uno a oltre dieci anni di carcere.
I rappresentanti della Lega si sono chiesti: chi a fronte di uno o dieci anni di galera sarà disposto a riportare in patria il gruzzolo? Ovviamente nessuno. Chi fino ad oggi è rimasto al riparo dagli 007 del fisco perché dovrebbe autodenunciarsi. Perché mai dovrebbe essere pizzicato oggi? Per questo motivo tutti i condoni- nessuno escluso- sono sempre accompagnati dalla depenalizzazione di queste norme. Nella riunione di maggioranza Luigi Di Maio avrebbe fatto presente che le pene non scatterebbero se si evade meno di 100.000 euro.
Ma in realtà il testo del decreto consente che la cifra valga per ogni anno d'imposta e per ogni imposta evasa fino al 30% dell'imponibile dichiarato. Le somme salgono così sensibilmente . Solo che senza depenalizzazione il condono non si potrebbe fare. Ecco perché è diventato un tema fondamentale. La copertura messa a bilancio è veramente esigua: 600 milioni in tre anni. In realtà è stata una mossa precisa. Alzare l'importo avrebbe voluto dire incassare una nuova accusa da parte dell'Unione europea che di solito contesta voci così variabili a copertura di uscite definite. Quindi l'obiettivo della maggioranza era avviare la pace fiscale e una volta rodato lo schema incassare nel 2020 e nel 2021 cifre ben superiori. Una forchetta compresa tra i due e i tre miliardi di euro. Che ai fini della manovra del prossimo anno sarebbero stati manna dal cielo per finanziare l'allargamento di quota 100 o un po' di taglio dell'Irpef o del cuneo fiscale.
Moscovici continua il suo tour del terrore: «Giudicheremo pure la prossima manovra»
Due conferenze stampa in due giorni (neanche fosse Donald Trump), incontri a raffica, convegni, una mezza dozzina di interviste.
È chiaro che Pierre Moscovici usa ogni occasione della sua visita in Italia come un palcoscenico per lanciare messaggi, avvertimenti e ricatti politici.
Non soddisfatto di aver incendiato l'altro ieri mercati e spread; di aver messo bocca su tutto (perfino sulle mense scolastiche di Lodi); di aver fatto ogni sforzo possibile per danneggiare l'Italia direttamente e indirettamente (pochi si sono accorti, l'altro giorno, dei suoi tweet velenosi e chirurgici in materia di evasione fiscale internazionale, tanto per parlare a nuora affinché suocera intenda, e per mettere altro sale nelle ferite tra Lega e Movimento 5 stelle), ieri il commissario francese ha proseguito la sua azione da euro-hooligan.
La prima provocazione è giunta in mattinata: «In Italia dicono che a maggio io andrò a casa? Sbagliano: questa Commissione scade a novembre 2019. Quindi non solo giudicheremo questa manovra, ma anche quella del prossimo anno». Se non parlassimo di cose tremendamente serie, ci sarebbe perfino da sorridere: è vero che formalmente il mandato della vecchia Commissione scade alla fine di ottobre 2019, ma le elezioni europee si tengono il 26 maggio prossimo, e già in estate ci sarà l'elezione (da parte del nuovo Parlamento europeo su proposta del Consiglio Ue, cioè dei governi) del successore di Jean Claude Juncker. Insomma, sarà politicamente tutto un altro mondo (e Moscovici sarà politicamente defunto). Pensare che a quel punto, con gli scatoloni in mano, lui e il sodaleValdis Dombrovskis possano ancora far danni è solo un'altra prova della campagna anti italiana che puzza tanto di campagna elettorale.
Ieri la giornata romana del francese è proseguita con altri due impegni. Il primo, istituzionale: un incontro con il ministro degli Esteri Enzo Moavero. Inevitabile parlare della manovra, dopo la lettera di richiamo al curaro recapitata il giorno prima. Una nota della Farnesina ha cercato di smorzare i toni, spiegando che i due «hanno, in particolare, concordato sull'importanza di mantenere la discussione in un'atmosfera improntata a un corretto, leale e costruttivo confronto delle rispettive valutazioni, in coerenza con le normative vigenti». Ma l'osservazione appare perfino surreale se il francese continua a fare dichiarazioni a Borse aperte, a ruota libera, con gli effetti che ciascuno può constatare. Il secondo appuntamento è stato invece una conferenza, il forum Italia-Francia organizzato dall'Aspen institute. Anche lì Moscovici ha ripetuto le sue giaculatorie: «Manterrò un dialogo costruttivo con ogni Stato membro per assicurarmi che restino impegnati in traiettorie di bilancio sane. Lo farò nell'interesse dei cittadini della zona euro e della sua stabilità poiché l'esperienza di questi ultimi anni ci ha dimostrato che un'applicazione intelligente delle regole può stimolare la crescita e la creazione di posti di lavoro, riducendo il deficit e, a lungo termine, il debito». Naturalmente, tutto questo mentre la Borsa era in sofferenza (in particolare i titoli bancari) e lo spread proseguiva la sua altalena.
Infine, la conferenza stampa, dove - come se a dichiarare fino a quel momento fosse stato un sosia cattivo, un gemello perfido - improvvisamente Moscovici ha ripreso a parlare con toni più flautati: «L'Ue comprende le priorità economiche del governo italiano, non abbiamo intenzione di far lezione all'Italia sulla manovra, non vogliamo interferire nelle scelte di politica economica di uno Stato membro, non c'è volontà discriminatoria, non c'è contagio». Dichiarandosi perfino disponibile a incontrare Matteo Salvini e Luigi Di Maio, il commissario ha concluso: «Aspettiamo una risposta per lunedì a mezzogiorno, nessuna decisione è stata presa, la risposta del ministro Tria sarà molto importante. Dialogare è fondamentale, sappiamo tutti che la questione è delicata non abbiamo interesse a creare ulteriori tensioni, la palla è ora nel campo delle autorità italiane».
Insomma, il solito schema: bastone a Borse aperte, carote (e beffe) in chiusura di giornata. È palese che Moscovici abbia deciso di usare queste settimane per una missione politica e di parte: creare difficoltà a un governo «sgradito», e contemporaneamente inviare un messaggio a eventuali altri ribelli europei (colpirne uno per «educarne» altri 27, si potrebbe dire). Quello che invece resta senza spiegazione è che anche le massime cariche istituzionali italiane sembrino di fatto accettare questo comportamento da parte di un Commissario europeo. Poi però, se uno Stato fondatore dell'Ue, contribuente netto dell'Unione, seconda economia manifatturiera del Comtinente, viene trattato così, non ci si sorprenda se l'euroscetticismo continua a aumentare tra i cittadini italiani, che assistono attoniti a questa pervicace volontà di umiliare il nostro Paese. Faranno bene a rifletterci, sul piano politico, anche i vertici dei 5 stelle: ha senso, con polemiche interne destabilizzanti, offrire il fianco a queste scorribande?
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Matteo Salvini ai grillini: «Il testo non contiene sorprese. Conte leggeva e Di Maio verbalizzava». Poi tende la mano agli alleati: «Se hanno cambiato idea, basta dirlo». L'altro vicepremier: «Non voglio passare da bugiardo».La misura della discordia, pure se a budget prevedeva 600 milioni di gettito, nel biennio 2020-21 avrebbe generato più fondi. Con i quali sostenere l'allargamento di quota 100.Il commissario europeo ci bastona a Borse aperte, poi prende in giro: «Non c'è volontà persecutoria». E avverte: «A maggio vado a casa? Sbagliato».Lo speciale contiene tre articoli. Farsi la guerra sulla pace (fiscale) è più di un paradosso: è un clamoroso autogol. Lo sanno bene Luigi Di Maio e Matteo Salvini, che oggi, alle 13, in Consiglio dei ministri, si troveranno faccia a faccia e limeranno, mettendo da parte le polemiche, il testo del decreto sulla pace fiscale, quello che ha scatenato la bufera tra Lega e Movimento 5 stelle. Del resto, ieri, è stato proprio il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, a richiamare i partiti che sostengono il governo al senso di responsabilità. «La maggioranza», ha detto ieri Conte da Bruxelles, «è assolutamente solida. Noi stiamo lavorando molto bene, quindi non c'è assolutamente motivo di dubitare. Abbiamo la piena consapevolezza che stiamo facendo riforme importanti per il Paese. Il problema lo risolviamo. È sorto un dubbio sulla traduzione tecnica dell'accordo politico. Se ci fosse qualche incongruenza», ha aggiunto Conte, «si può sempre intervenire. È una questione tecnica, escludo al momento che ci sia una questione politica, ma se ci fosse una questione politica la affronteremo». Come è ovvio, Matteo Salvini non ha smaltito del tutto l'amarezza per la «sparata» televisiva di Luigi Di Maio, ma la volontà di andare avanti aiuterà a smussare gli angoli, come sempre accade quando al governo c'è una coalizione e non un solo partito. Se poi, come in questo caso, la coalizione è formata da due grandi partiti con programmi elettorali diversi, non è possibile immaginare che tutto fili sempre liscio come l'olio. E così, salvo imprevisti clamorosi, la «guerra semifredda» tra Lega e M5s, è destinata a concludersi con una bella stretta di mano, anzi di manina, tra Salvini e Di Maio.Matteo Salvini, ieri, ha utilizzato una diretta Facebook dal Trentino per fare chiarezza: «Noi siamo persone ragionevoli. Se il M5s ha cambiato idea, basta dirlo. Se Fico e Di Maio hanno cambiato idea, basta dirlo, noi siamo qui. Lo dicono, ci sediamo al tavolo, si va avanti. Meglio per telefono che in tv. Facciamo un altro Consiglio dei ministri per cambiare questo decreto. Rileggiamo e riscriviamo, ma lascio agli atti la verità di quel famoso Consiglio dei ministri, dal quale è nato questo can can su questo condono del quale non me ne può fregare di meno: c'erano due persone», ha raccontato Salvini, «protagoniste di quel Consiglio dei ministri da quale è nato quel decreto fiscale che ora fa inorridire qualche amico del M5s. Uno leggeva e uno scriveva, uno leggeva e uno verbalizzava il testo incriminato. Chi leggeva il testo sul cosiddetto condono, che non c'è, era il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che ha tutta la mia stima e di cui mi fido. Lui leggeva, e chi verbalizzava? Luigi Di Maio, altra persona coerente e corretta, con cui sto lavorando bene da quattro mesi e conto di lavorare bene altri cinque anni, verbalizzava. Insomma, passare per l'amico dei condonisti proprio no. Bisogna serrare le fila, compatti Lega e M5s. Rispettosi del contratto di governo ma senza fare scherzi. Ho aspettato», ha aggiunto Salvini, «senza dir nulla per ventiquattro ore e porto pazienza, anche se la pazienza ha un limite. Però per scemo non passo. Non volete quella roba lì? Non c'è. Andiamo in Consiglio dei ministri non per bisticciare. Chi se ne frega del condono! Anzi: anche il condono per gli abusivi di Ischia va riscritto».Salvini parla di «Fico e Di Maio» non certo a caso: il presidente della Camera, Roberto Fico, sta conducendo una battaglia tutta interna al M5s per mettere in difficoltà Luigi Di Maio. Fico, ormai in preda alla «sindrome di Gianfranco Fini», sta utilizzando il suo ruolo di terza carica dello Stato per proporsi come leader di un'ipotetica alleanza M5s-Pd alle prossime politiche, se il centrodestra sarà unito, e manco a dirlo ieri ha gettato benzina sul fuoco: «Se rimane il condono», ha detto Fico, «mi sembra ovvio che ci sia un problema. Si agisce all'interno di un filo rosso che è quello del contratto perché se fossimo stati uguali alla Lega, ci saremmo candidati con la Lega ma noi non siamo uguali alla Lega e non ci candideremo nemmeno con la Lega. Se non si va avanti nel contratto non si può andare avanti. Se Salvini vuole parlare con me lo faccia sui contenuti e non dicendo: Fico faccia il presidente della Camera. Quello che dico io è da istituzione ma il background», conclude Fico, «appartiene alla nascita e alla costruzione del M5s».Nemmeno il tempo di leggere le parole di Fico, e Luigi Di Maio è apparso in diretta Facebook, replicando a Salvini e riaccendendo la polemica: «Quando si dice che Conte leggeva e Di Maio scriveva si dice una cosa non vera. Nel testo del decreto letto lunedì sera», ha detto Di Maio, «c'era la dichiarazione integrativa con dentro il condono penale, dentro i capitali dall'estero? No, perché quello è stato oggetto di una riunione politica e Conte ha letto i termini generali dell'accordo in cdm. Da bugiardo non voglio passare e anche per questo quando mi si dice che ero distratto io non ci sto. La roba dello scudo penale per l'autoriciclaggio non serve. Siccome non siamo d'accordo, domani sistemiamo questa norma. Questo governo», ha sottolineato Di Maio, «può andare avanti per tanto tempo, perché tra M5s e Lega ci sono tante cose in comune». Tutto lascia pensare che oggi il nodo sarà sciolto. L'ipotesi che il governo possa saltare per un dettaglio come questo, aprendo la strada a un esecutivo tecnico in un momento cruciale per il futuro dell'Italia e dell'Europa, quando su temi ben più importanti si è sempre raggiunta un'intesa, è pura fantapolitica. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/guerra-semifredda-fra-m5s-e-lega-la-manovra-ritorna-in-cantiere-2613642557.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="lo-scudo-poteva-valere-3-miliardi" data-post-id="2613642557" data-published-at="1765544522" data-use-pagination="False"> Lo scudo poteva valere 3 miliardi A vedere le tabelle della manovra sotto la voce altri proventi da pace fiscale le somme non superano i 180 milioni all'anno. Tale rigo fa appunto riferimento al tanto contestato articolo 9 del decreto fiscale, quello che prevederebbe uno scudo sui capitali portati all'estero. Uno scudo che azzererebbe il reato di autoriciclaggio. Non quello di riciclaggio. In sostanza, il testo voluto dal sottosegretario, Massimo Bitonci, spiega che nei confronti di quei cittadini che decidono di fare emergere il nero (entro il limite del 30% dell'imponibile dichiarato) non si applicano alcune norme penali che invece scattano nei confronti di chiunque abbia evaso anche poco: omessa dichiarazione, infedele dichiarazione, e un a serie di reati simili e soprattutto autoriciclaggio. Perché quel nero fatto poi bisogna farlo entrare nella disponibilità del commerciante che ha fatto “lo sconto" se non vuoi la fattura. E per farlo entrare nella disponibilità potresti compiere il reato di riciclaggio (la somma in nero è ovviamente illecita) e quasi di sicuro quello di autoriciclaggio. Se si applicassero quelle pene il contribuente che aderisce allo scudo anche su quelle cifre esigue rischierebbe comunque da uno a oltre dieci anni di carcere. I rappresentanti della Lega si sono chiesti: chi a fronte di uno o dieci anni di galera sarà disposto a riportare in patria il gruzzolo? Ovviamente nessuno. Chi fino ad oggi è rimasto al riparo dagli 007 del fisco perché dovrebbe autodenunciarsi. Perché mai dovrebbe essere pizzicato oggi? Per questo motivo tutti i condoni- nessuno escluso- sono sempre accompagnati dalla depenalizzazione di queste norme. Nella riunione di maggioranza Luigi Di Maio avrebbe fatto presente che le pene non scatterebbero se si evade meno di 100.000 euro. Ma in realtà il testo del decreto consente che la cifra valga per ogni anno d'imposta e per ogni imposta evasa fino al 30% dell'imponibile dichiarato. Le somme salgono così sensibilmente . Solo che senza depenalizzazione il condono non si potrebbe fare. Ecco perché è diventato un tema fondamentale. La copertura messa a bilancio è veramente esigua: 600 milioni in tre anni. In realtà è stata una mossa precisa. Alzare l'importo avrebbe voluto dire incassare una nuova accusa da parte dell'Unione europea che di solito contesta voci così variabili a copertura di uscite definite. Quindi l'obiettivo della maggioranza era avviare la pace fiscale e una volta rodato lo schema incassare nel 2020 e nel 2021 cifre ben superiori. Una forchetta compresa tra i due e i tre miliardi di euro. Che ai fini della manovra del prossimo anno sarebbero stati manna dal cielo per finanziare l'allargamento di quota 100 o un po' di taglio dell'Irpef o del cuneo fiscale. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/guerra-semifredda-fra-m5s-e-lega-la-manovra-ritorna-in-cantiere-2613642557.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="moscovici-continua-il-suo-tour-del-terrore-giudicheremo-pure-la-prossima-manovra" data-post-id="2613642557" data-published-at="1765544522" data-use-pagination="False"> Moscovici continua il suo tour del terrore: «Giudicheremo pure la prossima manovra» Due conferenze stampa in due giorni (neanche fosse Donald Trump), incontri a raffica, convegni, una mezza dozzina di interviste. È chiaro che Pierre Moscovici usa ogni occasione della sua visita in Italia come un palcoscenico per lanciare messaggi, avvertimenti e ricatti politici. Non soddisfatto di aver incendiato l'altro ieri mercati e spread; di aver messo bocca su tutto (perfino sulle mense scolastiche di Lodi); di aver fatto ogni sforzo possibile per danneggiare l'Italia direttamente e indirettamente (pochi si sono accorti, l'altro giorno, dei suoi tweet velenosi e chirurgici in materia di evasione fiscale internazionale, tanto per parlare a nuora affinché suocera intenda, e per mettere altro sale nelle ferite tra Lega e Movimento 5 stelle), ieri il commissario francese ha proseguito la sua azione da euro-hooligan. La prima provocazione è giunta in mattinata: «In Italia dicono che a maggio io andrò a casa? Sbagliano: questa Commissione scade a novembre 2019. Quindi non solo giudicheremo questa manovra, ma anche quella del prossimo anno». Se non parlassimo di cose tremendamente serie, ci sarebbe perfino da sorridere: è vero che formalmente il mandato della vecchia Commissione scade alla fine di ottobre 2019, ma le elezioni europee si tengono il 26 maggio prossimo, e già in estate ci sarà l'elezione (da parte del nuovo Parlamento europeo su proposta del Consiglio Ue, cioè dei governi) del successore di Jean Claude Juncker. Insomma, sarà politicamente tutto un altro mondo (e Moscovici sarà politicamente defunto). Pensare che a quel punto, con gli scatoloni in mano, lui e il sodaleValdis Dombrovskis possano ancora far danni è solo un'altra prova della campagna anti italiana che puzza tanto di campagna elettorale. Ieri la giornata romana del francese è proseguita con altri due impegni. Il primo, istituzionale: un incontro con il ministro degli Esteri Enzo Moavero. Inevitabile parlare della manovra, dopo la lettera di richiamo al curaro recapitata il giorno prima. Una nota della Farnesina ha cercato di smorzare i toni, spiegando che i due «hanno, in particolare, concordato sull'importanza di mantenere la discussione in un'atmosfera improntata a un corretto, leale e costruttivo confronto delle rispettive valutazioni, in coerenza con le normative vigenti». Ma l'osservazione appare perfino surreale se il francese continua a fare dichiarazioni a Borse aperte, a ruota libera, con gli effetti che ciascuno può constatare. Il secondo appuntamento è stato invece una conferenza, il forum Italia-Francia organizzato dall'Aspen institute. Anche lì Moscovici ha ripetuto le sue giaculatorie: «Manterrò un dialogo costruttivo con ogni Stato membro per assicurarmi che restino impegnati in traiettorie di bilancio sane. Lo farò nell'interesse dei cittadini della zona euro e della sua stabilità poiché l'esperienza di questi ultimi anni ci ha dimostrato che un'applicazione intelligente delle regole può stimolare la crescita e la creazione di posti di lavoro, riducendo il deficit e, a lungo termine, il debito». Naturalmente, tutto questo mentre la Borsa era in sofferenza (in particolare i titoli bancari) e lo spread proseguiva la sua altalena. Infine, la conferenza stampa, dove - come se a dichiarare fino a quel momento fosse stato un sosia cattivo, un gemello perfido - improvvisamente Moscovici ha ripreso a parlare con toni più flautati: «L'Ue comprende le priorità economiche del governo italiano, non abbiamo intenzione di far lezione all'Italia sulla manovra, non vogliamo interferire nelle scelte di politica economica di uno Stato membro, non c'è volontà discriminatoria, non c'è contagio». Dichiarandosi perfino disponibile a incontrare Matteo Salvini e Luigi Di Maio, il commissario ha concluso: «Aspettiamo una risposta per lunedì a mezzogiorno, nessuna decisione è stata presa, la risposta del ministro Tria sarà molto importante. Dialogare è fondamentale, sappiamo tutti che la questione è delicata non abbiamo interesse a creare ulteriori tensioni, la palla è ora nel campo delle autorità italiane». Insomma, il solito schema: bastone a Borse aperte, carote (e beffe) in chiusura di giornata. È palese che Moscovici abbia deciso di usare queste settimane per una missione politica e di parte: creare difficoltà a un governo «sgradito», e contemporaneamente inviare un messaggio a eventuali altri ribelli europei (colpirne uno per «educarne» altri 27, si potrebbe dire). Quello che invece resta senza spiegazione è che anche le massime cariche istituzionali italiane sembrino di fatto accettare questo comportamento da parte di un Commissario europeo. Poi però, se uno Stato fondatore dell'Ue, contribuente netto dell'Unione, seconda economia manifatturiera del Comtinente, viene trattato così, non ci si sorprenda se l'euroscetticismo continua a aumentare tra i cittadini italiani, che assistono attoniti a questa pervicace volontà di umiliare il nostro Paese. Faranno bene a rifletterci, sul piano politico, anche i vertici dei 5 stelle: ha senso, con polemiche interne destabilizzanti, offrire il fianco a queste scorribande?
Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Un concetto già smentito da Fdi che in un dossier sulle fake news relative proprio all’oro di Bankitalia, ha precisato l’infondatezza dell’allarmismo basato sulla errata idea di volersi impossessare delle riserve auree per ridurre il debito. E nello stesso documento si ricordava invece come questa idea non dispiacesse al governo di sinistra di Romano Prodi del 2007. Peraltro nel dossier si precisa che la finalità dell’emendamento è di «non far correre il rischio all’Italia che soggetti privati rivendichino diritti sulle riserve auree degli italiani».
Per due volte la Banca centrale europea ha puntato i piedi, probabilmente spinta dal retropensiero che il governo voglia mettere le mani sull’oro detenuto e gestito da Bankitalia, per venderlo. Ma anche su questo punto da Fdi hanno tranquillizzato. Nel documento esplicativo precisano che «al contrario, vogliamo affermare che la proprietà dell’oro detenuto dalla Banca d’Italia è dello Stato proprio per proteggere le riserve auree da speculazioni». Il capitale dell’istituto centrale è diviso in 300.000 quote e nessun azionista può detenere più del 5%. I principali soci di Via Nazionale sono grandi banche e casse di previdenza. Dai dati pubblicati sul sito Bankitalia, primo azionista risulta Unicredit (15.000 quote pari al 5%), seguono con il 4,93% ciascuna Inarcassa (la Cassa di previdenza di ingegneri e architetti), Fondazione Enpam (Ente di previdenza dei medici e degli odontoiatri) e la Cassa forense. Del 4,91% la partecipazione detenuta da Intesa Sanpaolo. Al sesto posto tra gli azionisti, troviamo la Cassa di previdenza dei commercialisti con il 3,66%. Seguono Bper Banca con il 3,25%, Iccrea Banca col 3,12%, Generali col 3,02%. Pari al decimo posto, con il 3% ciascuna, Inps, Inail, Cassa di sovvenzioni e risparmio fra il personale della Banca d'Italia, Cassa di Risparmio di Asti. Primo azionista a controllo straniero è la Bmnl (Gruppo Bnp Paribas) col 2,83% seguita da Credit Agricole Italia (2,81%). Bff Bank (partecipata da fondi italiani e internazionali) detiene l’1,67% mentre Banco Bpm (i cui principali azionisti sono Credit Agricole con circa il 20% e Blackrock con circa il 5%) ha l’1,51%.
Un motivo fondato quindi per esplicitare che le riserve auree sono di proprietà di tutti gli italiani. Il che, a differenza di quanto sostenuto da politici e analisti di sinistra, «non mette in discussione l’indipendenza della Banca d’Italia, né viola i trattati europei. Non si comprende quindi la levata di scudi di queste ore nei confronti della proposta di Fdi. A meno che, ed è lecito domandarselo, chi oggi si agita non abbia altri motivi per farlo».
C’è poi il fatto che «alcuni Stati, anche membri dell’Ue, hanno già chiarito che la proprietà delle riserve appartiene al popolo, nella propria legislazione, mettendolo nero su bianco, a dimostrazione del fatto che ciò è perfettamente compatibile con i Trattati europei». Pertanto si tratta di un emendamento «di buon senso».
La riformulazione della proposta potrebbe essere presentata oggi, come annunciato dal capogruppo di Fdi in Senato, Lucio Malan. «Si tratta di dare», ha specificato, «una formulazione che dia maggiore chiarezza». Nella risposta alle richieste della presidente della Bce, Christine Lagarde, il ministro Giorgetti, avrebbe precisato che la disponibilità e gestione delle riserve auree del popolo italiano sono in capo alla Banca d’Italia in conformità alle regole dei Trattati e che la riformulazione della norma trasmessa è il frutto di apposite interlocuzioni con quest’ultima per addivenire a una formulazione pienamente coerente con le regole europee.
Risolto questo fronte, altri agitano l’iter della manovra. L’obiettivo è portare la discussione in Aula per il weekend. Il lavoro è tutto sulle coperture. Ci sono i malumori delle forze dell’ordine per la mancanza di nuovi fondi, rinviati a quando il Paese uscirà dalla procedura di infrazione, e ieri quelli dei sindacati dei medici, Anaao Assomed e Cimo-Fesmed, che hanno minacciato lo stato di agitazione se saranno confermate le voci «del tentativo del ministero dell’Economia di bloccare l’emendamento, peraltro segnalato, a firma Francesco Zaffini, presidente della commissione Sanità del Senato con il sostegno del ministro della Salute», che prevede un aumento delle indennità di specificità dei medici, dirigenti sanitari e infermieri. In ballo, affermano le due sigle, ci sono circa 500 milioni già preventivati. E reclamano che il Mef «licenzi al più presto la pre-intesa del Ccnl 2022-2024 per consentire la firma e quindi il pagamento di arretrati e aumenti».
Intanto in una riformulazione del governo l’aliquota della Tobin Tax è stata raddoppiata dallo 0,2% allo 0,4%.
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John Elkann (Ansa)
Fatta la doverosa e sincera premessa, non riusciamo a comprendere perché da ieri le opposizioni italiane stiano inondando i media di comunicati stampa che chiamano in causa il governo Meloni, al quale si chiede di riferire in aula in relazione a quella che è una trattativa tra privati. O meglio: è sacrosanta la richiesta di attenzione per la tutela dei livelli occupazionali, come succede in tutti i casi in cui un grande gruppo imprenditoriale passa di mano: ciò che si comprende meno, anzi non si comprende proprio, sono gli appelli al governo a intervenire per salvaguardare la linea editoriale delle testate in vendita.
L’agitazione in casa dem tocca livelli di puro umorismo: «Di fronte a quanto sta avvenendo nelle redazioni di Repubblica e Stampa», dichiara il capogruppo dem al Senato, Francesco Boccia, «il governo italiano non può restare silente e fermo. Chigi deve assumere un’iniziativa immediata di fronte a quella che appare come una vera e propria dismissione di un patrimonio della democrazia italiana. Per la tutela di beni e capitali strategici di interesse nazionale viene spesso evocato il Golden power. Utilizzato da questo governo per molto meno». Secondo Boccia, il governo dovrebbe bloccare l’operazione oppure intervenire direttamente ponendo condizioni. Siamo, com’è ben chiaro, di fronte al delirio politico in purezza, senza contare il fatto che quando il governo ha utilizzato il Golden power nel caso Unicredit-Bpm, il Pd ha urlato allo scandalo per l’«interventismo» dell’esecutivo. Come abbiamo detto, sono sacrosante le preoccupazioni sul mantenimento dei livelli occupazionali, molto meno comprensibili invece quelle su qualità e pluralismo dell’informazione, soprattutto se collegate alla richiesta al governo di riferire in aula firmata da Pd, Avs, M5s e +Europa.
Cosa dovrebbe fare nel concreto Giorgia Meloni? Convocare gli Elkann e Kyriakou e farsi garantire che le testate del gruppo Gedi continueranno a pubblicare gli stessi articoli anche dopo l’eventuale vendita? E a che titolo un governo potrebbe mai intestarsi un’iniziativa di questo tipo, senza essere accusato di invadere un territorio che non è di propria competenza? Con quale coraggio la sinistra che ha costantemente accusato il centrodestra di invadere il sacro terreno della libertà di stampa, ora si lamenta dell’esatto contrario? Non si sa: quello che si sa è che quando il gruppo Stellantis, di proprietà degli Elkann, ha prosciugato uno dopo l’altro gli stabilimenti di produzione di auto in Italia tutto questo allarme da parte de partiti di sinistra non lo abbiamo registrato.
Ma le curiosità (eufemismo) non finiscono qui. Riportiamo una significativa dichiarazione del co-leader di Avs, Angelo Bonelli: «La vendita de La Repubblica, La Stampa, Huffington, delle radio e dei siti connessi all’armatore greco Kyriakou», argomenta Bonelli, «è un fatto che desta profonda preoccupazione anche per la qualità della nostra democrazia. L’operazione riguarda una trattativa tra l’erede del gruppo Gedi, John Elkann, e la società ellenica Antenna Group, controllata da Theodore Kyriakou, azionista principale e presidente del gruppo. Kyriakou può contare inoltre su un solido partner in affari: il principe saudita Mohammed Bin Salman Al Saud, che tre anni fa ha investito 225 milioni di euro per acquistare il 30% di Antenna Group». E quindi? «Il premier», deduce con una buona dose di sprezzo del ridicolo Sherlock Holmes Bonelli, «all’inizio di quest’anno, ha guidato una visita di Stato in Arabia Saudita, conclusa con una dichiarazione che auspicava una nuova fase di cooperazione e sviluppo dei rapporti tra Italia e il regno del principe ereditario. Se la vendita dovesse avere questo esito, si aprirebbe un problema serio che riguarda i livelli occupazionali e, allo stesso tempo, la qualità della nostra democrazia. La concentrazione dell’informazione radiotelevisiva, della stampa e del Web sarebbe infatti praticamente schierata sulle posizioni del governo e della sua presidente». Avete letto bene: secondo il teorema Bonelli, Bin Salman è socio di Kyriakou, Bin Salman ha ricevuto Meloni in visita (come altre centinaia di leader di tutto il mondo), quindi Meloni sta mettendo le mani su Repubblica, Stampa e tutto il resto.
Quello che sfugge a Bonelli è che Bin Salman è, come è arcinoto, in eccellenti rapporti con Matteo Renzi, e guarda caso La Verità è in grado di rivelare che il leader di Italia viva starebbe giocando, lui sì, un ruolo di mediazione in questa operazione. Renzi avrebbe pure già in mente il nuovo direttore di Repubblica: il prescelto sarebbe Emiliano Fittipaldi, attuale direttore del quotidiano Domani, giornale di durissima opposizione al governo. In ogni caso, per rasserenare gli animi, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’informazione, Alberto Barachini, ha convocato i vertici di Gedi e i Cdr di Stampa e Repubblica, «in relazione», si legge in una nota, «alla vicenda della ventilata cessione delle due testate del gruppo».
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Il premier, intervenendo alla prima edizione dei Margaret Thatcher Awards, evento organizzato all’Acquario Romano dalla fondazione New Direction, il think tank dei Conservatori europei: «Non si può rispettare gli altri se non si cerca di capirli, ma non si può chiedere rispetto se non si difende ciò che si è e non si cerca di dimostrarlo. Questo è il lavoro che ogni conservatore fa, ed è per questo che voglio ringraziarvi per combattere in un campo in cui sappiamo che non è facile combattere. Sappiamo di essere dalla parte giusta della storia».
«Grazie per questo premio» – ha detto ancora la premier – «che mi ha riportato alla mente le parole di un grande pensatore caro a tutti i conservatori, Sir Roger Scruton, il quale disse: “Il conservatorismo è l’istinto di aggrapparsi a ciò che amiamo per proteggerlo dal degrado e dalla violenza, e costruire la nostra vita attorno ad esso”. Essere conservatori significa difendere ciò che si ama».
Pier Silvio Berlusconi (Getty Images)
Forza Italia, poi, è un altro argomento centrale ed è anche l’occasione per ribadire un concetto che negli ultimi mesi aveva già espresso: «Il mio pensiero non cambia, c’è la necessità di un rinnovamento nella classe dirigente del partito». Esprime gratitudine per il lavoro svolto dal segretario nazionale, Antonio Tajani, e da tutta la squadra di Forza Italia che «ha tenuto in piedi il partito dopo la scomparsa di mio padre, cosa tutt’altro che facile». Ma confessa che per il futuro del partito «servirebbero facce nuove, idee nuove e un programma rinnovato, che non metta in discussione i valori fondanti di Forza Italia, che sono i valori fondanti del pensiero e dell'agire politico di Silvio Berlusconi, ma valori che devono essere portati a ciò che è oggi la realtà». E fa una premessa insolita: «Non mi occupo di politica, ma chi fa l’imprenditore non può essere distante dalla politica. Che io e Marina ci si appassioni al destino di Forza Italia, siamo onesti, è naturale. Tra i lasciti di mio padre tra i più grandi, se non il più grande, c’è Forza Italia». Tajani è d’accordo e legge nelle parole di Berlusconi «sollecitazioni positive, in perfetta sintonia sulla necessità del rinnovamento e di guardare al futuro, che poi è quello che stiamo già facendo».
In qualità di esperto di comunicazione, l’ad di Mediaset, traccia anche il punto della situazione sullo stato di salute dell’editoria italiana, toccando i tasti dolenti delle paventate vendite di Stampa e Repubblica, appartenenti al gruppo Gedi. La trattativa tra Gedi e il gruppo greco AntennaUno, guidato dall’armatore Theodore Kyriakou, scatena l’agitazione dei giornalisti. «Il libero mercato è sovrano, ma è un dispiacere vedere un prodotto italiano andare in mano straniera». Pier Silvio Berlusconi elogia, invece, Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport: «Cairo è un editore puro, ormai l’unico in Italia, e ha fatto un lavoro eccellente: Corriere e Gazzetta hanno un’anima coerente con la loro storia».
Una stoccata sulla patrimoniale: «Non la ritengo sbagliata, ma la parola patrimoniale, secondo me, non va bene. Così com’era sbagliatissima l’espressione “extra profitti”, cosa vuol dire extra? Non vuol dire niente e mi sembra onestamente fuori posto che in certi momenti storici dell’economia di particolare fragilità, ci possano essere delle imposte una tantum che vengono legate a livello di profitto delle aziende».
Un tema di stretta attualità, specialmente dopo le dichiarazioni di Donald Trump, è il ruolo dell’Europa nel mondo. «Di sicuro ciò che è stato fatto fino a oggi non è sufficiente, ma l’Europa deve riuscire a esistere, ad agire e a difendersi. Di questo sono certo. Prima di tutto da cittadino italiano ed europeo e ancor di più da imprenditore italiano ed europeo».
Quanto al controllo del gruppo televisivo tedesco ProSieben, Pier Silvio Berlusconi assicura che «in Germania faremo il possibile per mantenere l’occupazione del gruppo così com’è, al momento non c’è nessun piano di licenziamento». Ora Mfe guarda alla Francia? «Lì ci sono realtà consolidate private come Tf1 e M6: entrare in Francia sarebbe un sogno, ma al momento non vedo spiragli».
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