2020-09-01
Crolla il Pil e Gualtieri prevede rimbalzi:
non ne ha azzeccata una
Si tratta del dato peggiore di sempre. Ma il ministro continua a parlare di ripresa in vista e si fa i complimenti per l'aumento delle entrate fiscali: un'altra prova degli errori del governo. Gli fa eco Laura Castelli: «Resistiamo»Mentre l'esecutivo promette mari e monti, l'Alto rappresentante europeo agli affari esteri ricorda: «Serve il sì di 27 Parlamenti nazionali». Oggi audizione con Paolo GentiloniLo speciale contiene due articoliL'economia piange, loro ridono. È difficile organizzare un party dopo i plumbei dati dell'Istat sul crollo del prodotto interno lordo, ma al ministero dell'Economia si avvertono tintinnii di bicchieri. Il -12,8% del secondo trimestre è un diretto alla punta del mento tirato da Muhammad Alì, eppure il ministro piddino Roberto Gualtieri vede rinascite improvvise, albe fosforescenti post Covid. Un mese fa ha sbagliato dello 0,4% i calcoli preliminari (non è la prima volta), ma davanti al peggiore crollo della storia fa professione di ottimismo: «Auspichiamo un forte rimbalzo del Pil nel terzo trimestre dopo la caduta nel secondo confermata dai dati Istat, che apportano alla precedente stima una revisione molto contenuta».In tempi normali uno 0,4% avrebbe fatto la differenza fra sopravvivenza e rilancio, oggi davanti alle macerie di Gerico è un dettaglio. Il problema è il numero supremo, quello annuo, che non si discosta dal temuto -14,7%. Se anche terzo e quarto trimestre dovessero chiudersi a zero saremmo sott'acqua con tutte le piume, invischiati nella più devastante recessione del secolo. Mentre Gualtieri estrae la chitarra dalla custodia e cerca di aggrapparsi alle note per indorare la pillola, l'Istat sforna impietosa il suo report sul quale gli italiani meritano di conoscere la verità. «A trascinare la caduta del Pil è stata soprattutto la domanda interna, con un apporto particolarmente negativo dei consumi privati e contributi negativi rilevanti di investimenti e variazioni delle scorte». «Anche la domanda estera ha fornito un apporto negativo», per la riduzione delle esportazioni più sostanziosa delle importazioni.I consumi in picchiata su una base di partenza già scricchiolante sono un segnale di allarme, l'indice primario che non si tratta solo di una situazione contingente ma di un significativo mutamento di indirizzo della collettività. Il commercio al dettaglio attende l'autunno con paura e lo scenario Istat è il peggiore di sempre, determinato dal lockdown per contrastare il virus cinese ma anche dalle strategie poco incisive - per non dire abborracciate - del governo per sostenere l'economia in un momento così difficile. Completamente appiattito sull'Europa, Palazzo Chigi si è limitato ad accodarsi a Bruxelles e non ha avuto il coraggio di lasciare nelle tasche di artigiani, partite Iva, piccole imprese, le riserve per ripartire.Così il ministero si balocca con quel -12,8% che rappresenta una fossa delle Marianne nei grafici di settore. «Il peggior dato dal 1995», segnalano puntualmente i titoli dei siti più qualificati. Questo non perché quell'anno fosse stato particolarmente negativo (anzi, allora si fece un +2,9% che oggi verrebbe salutato con una festa nazionale), ma perché fu il primo nel quale si calcolò il Pil con i metodi di oggi. Quindi mai cosi male, anche se in Via XX Settembre tira un'incomprensibile aria di ottimismo, suffragata anche dalla nota del viceministro grillino Laura Castelli pubblicata su Facebook: «I dati dicono che nonostante gli scossoni forti al nostro sistema produttivo, abbiamo le spalle larghe. Resistiamo. Ed ora soprattutto rilanciamo con gli investimenti del Recovery fund». L'«ora» va tradotto con l'estate dell'anno prossimo, a essere ottimisti. La lunga traversata del deserto è appena cominciata e l'inconsistenza dei due titolari di cattedra si misura anche sull'esultanza per l'aumentato gettito fiscale. «I dati provvisori sulle entrate tributarie acquisiti al 20 agosto mostrano un andamento superiore alle attese e una situazione complessiva in via di miglioramento per l'economia italiana», spiega una nota del ministero. La crescita dell'Irpef è del 3,3% rispetto al 2019 e quella societaria dell'Ires è del 4,8%. Ma questi dati sottolineano solo l'intervento misero, insufficiente del governo guidato da Giuseppe Conte nell'alleggerire la pressione fiscale. Le percentuali in crescita dimostrano che lo Stato ha continuato ad avere mani con le dita adunche mentre i cittadini erano chiusi in casa e le attività erano ferme. Nessuno slittamento fiscale, tanti maledetti e subito. E adesso, invece di far passare sotto silenzio il bottino, Gualtieri se lo intesta come un segnale di ripartenza.Esultare per questi numeri è da attori di avanspettacolo, anche perché la base dei dati Istat è costituita dai saldi 2019 e dai primi acconti 2020. Quando arriveranno i versamenti degli acconti successivi il sorriso potrebbe trasformarsi in paresi facciale. Ma il ministro Gualtieri non ha problemi, l'uomo del rimbalzo (neanche avesse Dino Meneghin come consulente) è uno storico melodico. E in questa sgangherata avventura nei Palazzi dell'Economia e delle Finanze è accompagnato da tre previsioni che fanno tremare i polsi. La prima, all'inizio della pandemia, quando disse che sarebbero bastati 3,6 miliardi per risolvere tutto ma ha dovuto sforare i 100. La seconda quando spiegò che ce la saremmo cavata con «pochi, gestibili punti di Pil» e siamo arrivati a quasi -13%. La terza quando tuonò che nessuno avrebbe perso il posto di lavoro; oggi la previsione per fine 2020 è di 980.000 occupati in meno. Non ci prende mai. Sarebbe auspicabile che il primo fosse lui. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/gualtieri-festeggia-il-pil-al-12-8-il-rimbalzo-e-lultima-falsa-speranza-2647416040.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-recovery-fund-crescono-i-dubbi" data-post-id="2647416040" data-published-at="1598910237" data-use-pagination="False"> Il Recovery fund? Crescono i dubbi Per quanto prestigioso, è un ruolo di assoluta irrilevanza politica. Stiamo parlando dell'Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri, colui che dovrebbe essere il ministro degli Esteri europeo. Ma non vi è una crisi internazionale che veda l'Europa inserirsi ai tavoli negoziali come protagonista. Una poltrona che conosciamo solo perché ricoperta dal 2014 al 2019 dalla piddina Federica Mogherini e del cui predecessore ignoravamo le generalità, così come del suo successore. Se non fosse che questo, il socialista spagnolo Josep Borrell, ha ieri deciso di uscire dal celeste anonimato per balzare agli onori delle cronache occupandosi di cose che esulano dal suo mandato. L'attenzione è ben meritata. Un commissario Ue che decide di parlare di Recovery fund può sempre distillare qualche notizia degna di nota. Mentre Giuseppe Conte fa filtrare il retroscena che lo vedrebbe impegnato ad accelerare i tempi per vedere qualche spicciolo, Borrell intervenendo al Forum di Bled a Lubiana ci tiene a dirci che la priorità in Europa è completare il percorso di approvazione del Recovery fund perché, se non arriverà la luce verde da tutti i Parlamenti nazionali, sarà «un grande fallimento», infatti «viviamo in un sistema dove ci sono il Parlamento europeo e i parlamenti nazionali. E abbiamo bisogno della ratifica di tutti Parlamenti nazionali e, in alcuni casi, dei Parlamenti regionali. E non è completamente chiaro che questo avverrà». La notizia non è di quelle da sottacere. Non solo e non tanto perché si contempla il fallimento (più teorico che pratico) nell'approvare uno strumento che invece ai fini della ripresa economica sarà praticamente e non teoricamente fallimentare. Non vi sono infatti dubbi che alla fine il topolino verrà dalla montagna partorito. Certo che il percorso per arrivarvi è tortuoso quasi quanto le gimcane che i vari Stati dovranno percorrere per accedere a quei pochi spiccioli. Si fa presto a mettere su i 209 miliardi dell'Italia contando i fondi che arriveranno (forse) in sette anni e mescolando le mele dei trasferimenti dagli Stati alla Ue e da questa agli Stati con le pere dei finanziamenti che l'Unione dovrebbe erogare alle diverse economie. Un po' come mescolare quattro anni di stipendi di un operaio con un mutuo di 100.000 euro per arrivare a una cifra di 200.000 euro che per un operaio sono indubbiamente tanti. Ciascun Parlamento nazionale (e sono 27) dovrà dire sì allo stesso testo. E dovrà dire sì financo il Parlamento Ue che conta quanto il due di bastoni quando briscola è spade. Il Recovery plan è stato «infatti approvato dal Consiglio europeo ma non basta» ammonisce il ministro degli Esteri. Tutto questo perché l'Italia riceva circa 30 miliardi di trasferimenti netti in sette anni, cui ne andranno tolti 11 per pagare gli sconti che Olanda, Austria, Danimarca, Germania e Svezia hanno ottenuto sui contributi che avrebbero dovuto versare all'Ue. Quelli sì che sono bei soldi. Quelli che invece l'Italia dovrebbe forse ricevere, 2,7 miliardi l'anno pari allo 0,15% Pil, dovranno derivare da proposte ufficialmente presentate l'anno prossimo e grazie alle quali potrà forse arrivare nel 2021 un prefinanziamento del 10% di quanto dovuto (da 8 a 20 miliardi a seconda che ci si mettano dentro pure i debiti), come ha comunicato ieri un portavoce della Commissione, e a patto che sia approvato un «piano di riforme» che piaccia a Bruxelles con tanto di programma vincolante per realizzarlo. Le richieste dovranno arrivare entro il 15 ottobre, ma per avviare uno scambio con la Commissione europea ed evitare ingolfamenti i piani saranno considerati presentati formalmente solo dal 1° gennaio 2021. In pratica come donare mezzo piatto della nostra minestra in cambio di una forchetta con cui mangiarla. E domani Paolo Genitloni, commissario Ue all'economia, ci detterà la linea in audizione davanti alle commissioni riunite Politiche europee e Bilancio di Camera e Senato.