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2023-03-13
Gli Stati che dicono no all'immigrazione
Ansa
Una cosa l’abbiamo capita. Che se sei disperato vieni in Italia. Joe Biden sta tirando su le frontiere. L’ Inghilterra non ne parliamo. La Spagna spara ai clandestini. La Francia che mai si è risparmiata nel darci lezioni di bon ton, respinge i migranti a suon di baionette. Ve la ricordate no? Tra i tanti episodi incresciosi, come dimenticare quella donna incinta respinta alla frontiera di Bardonecchia e poi morta. Era il 2018. La Danimarca vuole arrivare a ingressi zero. L’Austria chiede un rafforzamento dei controlli alle frontiere. Il Nepal vanta una Costituzione assai draconiana. E perfino l’Africa teme che «i neri diventino troppi». Ma qual è la situazione generale?
Mentre in Italia le sinistre berciano per addossare la responsabilità dei morti di Cutro, al presidente Giorgia Meloni, a Matteo Salvini, al ministro Matteo Piantedosi, perfino la Tunisia dice basta. Ma andiamo con ordine.
La politica migratoria annunciata il 5 gennaio scorso dal presidente degli Stati Uniti, che tanto era bello e bravo e per niente guerrafondaio, prevede l’estensione del titolo 42. Ossia di quella misura varata dall’amministrazione Trump a seguito della pandemia e che prevede l’espulsione immediata dei richiedenti asilo per motivi di salute pubblica. Orbene, Biden che prometteva politiche migratorie umane, di certo non si è risparmiato nell’utilizzare tale misura. Questa legge, dalla sua entrata in vigore nel marzo 2020, è stata usata per espellere oltre 1,45 milioni di persone, ma di cui, bada bene, un milione, quindi circa il 70%, nel corso dell’amministrazione Biden. Le nuove misure potrebbero portare a un irrigidimento delle restrizioni migratorie, e quindi l’estensione del titolo 42 a persone di Haiti, Cuba e Nicaragua; l’ espulsione immediata in Messico, in accordo con le sue autorità, di un massimo di 30.000 persone ogni mese; le espulsioni accelerate in base al titolo 8 per le persone alle quali non sia possibile applicare il titolo 42, e l’aumento del personale, delle barriere e dei meccanismi di controllo per impedire i passaggi irregolari alla frontiera.
Illustrato il Nuovo Mondo, ci spostiamo un attimo in Africa. Anche qui non sembra andare meglio. Se ne sono accorti anche gli africani che non è possibile gestire l’immigrazione a casaccio. Come ricordato recentemente dalla Verità, il presidente tunisino Kais Saied, il 21 febbraio scorso, durante una riunione del Consiglio di sicurezza, ha detto che «esiste un piano criminale per cambiare la composizione demografica della Tunisia. Ci sono alcuni individui che hanno ricevuto grosse somme di denaro per dare la residenza ai migranti subsahariani, la loro presenza è fonte di violenza, crimini e atti inaccettabili, è il momento di mettere la parola fine a tutto questo perché c’è la volontà di fare diventare la Tunisia solamente un paese africano e non un membro del mondo arabo e islamico». Da qui la promessa di misure urgenti «per contrastare l’arrivo in Tunisia di un numero importante di migranti clandestini».
E non va meglio nella sinistra danese. Spostandoci a Nord del globo terrestre, il governo progressista di Copenaghen vuole arrivare a ingressi zero. E quindi ha stretto accordi con la Ruanda e il Kosovo per smaltire i flussi. Avete presente i danesi? Uno dei Paesi più avanzati al mondo per i diritti. Ecco, la giovane leader dei socialdemocratici, Mette Frederiksen ha sempre sostenuto che la spesa necessaria per l’integrazione di nuovi migranti nella società danese fosse assolutamente incompatibile con il mantenimento dello stato sociale. È stata lei a volere la politica «zero rifugiati», eccezion fatta per gli ucraini, e a mettere in piedi un piano, simile a quello del Regno Unito, per trasferire i richiedenti asilo in Ruanda. Avete capito bene sì. Clandestini in Ruanda e delinquenti immigrati mandati a scontare la pena in Kosovo. Piani che Giorgia Meloni o Marine Le Pen non hanno nemmeno mai ipotizzato. E forse nemmeno pensato.
Non solo. La Danimarca fu il primo Paese europeo a dire che i normali rifugiati potessero essere rimandati indietro. Lo fece quando tolse i permessi di soggiorno ai siriani provenienti da zone sicure. Contando il risultato dei socialdemocratici, difficile non riconoscere il successo della strategia danese sulle questioni migratorie.
E il comportamento della Francia, così attenta a criticare l’Italia, non è meno duro. A Mentone, per dire, viene segnalata ancora la pratica della polizia di modificare la data di nascita degli immigrati minorenni, facendoli passare per maggiorenni e quindi espellibili tramite il refus d’entrée, il foglio di via. E come dimenticare quel braccio di ferro sulla pelle dei rifugiati?
Quando a novembre scorso ci fu il caso della Ocean Viking, Parigi disse «sì ok, la prendiamo noi», ma attraverso il portavoce del governo francese, Olivier Véran, avvertì che non avrebbe accolto oltre 3.000 persone così come da accordi presi con l’Italia. Non paga, inoltre, invitò anche il resto dei Paesi europei a fare altrettanto.
Ma veniamo all’Ungheria dove il diritto di asilo viene concesso a poche decine di persone l’anno. In Grecia invece, un rapporto dell’Oxfam, la confederazione internazionale di organizzazioni non profit che si occupa di povertà e di tutela dei diritti umani, nel 2021 parlava di sette migranti su 10 in «detenzione amministrativa» già al momento della presentazione della domanda di asilo. Ecco perché non sbarcano qui. E a proposito: chi scrive ha visto con i propri occhi al confine tra la Slovenia e la Croazia, e tra la Croazia e la Bosnia, i migranti inginocchiati sull’asfalto venire respinti e ributtati al di là del confine dai poliziotti croati. Le carovane di disperati, che risalgono la rotta Balcanica, giunte alle frontiere vengono respinte anche con l’uso della forza. Chissà ora, dopo l’entrata nell’Area Schengen della Croazia.
Metà dell’Europa vuole cambiare passo almeno a parole
Insomma è cambiata l’aria. Chiudere le frontiere pare diventata una pratica europeicamente ammessa. L’Unione Europea sta accarezzando l’idea di cambiare passo sul tema immigrazione. E dopo anni che tenta di gestire i flussi, dimostrando la più totale incapacità, oggi cerca la formula magica per la crisi dei migranti.
La Commissione sta facendo sempre di più per assecondare i desideri degli Stati membri. Otto Paesi hanno scritto all’Ue chiedendo una riforma radicale del sistema di asilo e una seria e severa limitazione dell’immigrazione irregolare. Il sistema è rotto e avvantaggia i trafficanti di esseri umani, perché insomma basta, non se ne può più di questi che vanno vengono entrano escono. Il tutto alla luce del sole ma nell’ombra della clandestinità.
Tra i firmatari della lettera non c’è l’Italia, ormai stremata dalle continue e inascoltate richieste di aiuto.
L’ attuale sistema di asilo «è rotto», scrivono Danimarca, Lituania, Lettonia, Estonia, Slovacchia, Grecia, Malta e Austria, «e avvantaggia soprattutto i cinici trafficanti di esseri umani che approfittano della sfortuna di donne, uomini e bambini». Inoltre, i Paesi elencati invitano la Commissione «a presentare un approccio europeo completo per tutte le rotte migratorie».
Anche perché, i trafficanti del mare sono assai più svegli e più veloci dell’Unione che dal 2015 cerca - ma non trova - soluzioni. La prova? L’ultimo naufragio a Cutro. Non è percorribile la rotta dell’Egeo? C’è quella nel mar Ionio. Non riesco a passare dalla Libia? Ci sono Egitto e Tunisia. Non riesco a uscire dal Marocco? Ci sono la Spagna. Le Isole Canarie. Ovunque ti giri siamo circondati. Per porre fine alla totale assenza di controllo ci vorrebbe un’istituzione che abbia polso, ma quello dell’Europa negli ultimi anni pare essersi slogato.
Alla vigilia della riunione straordinaria del Consiglio d’Europa, l’8 febbraio scorso, era stato il cancelliere austriaco Karl Nehammer a «minacciare» di mettere il veto al Consiglio Europeo insieme ad altri sette Paesi, chiedendo un rafforzamento delle frontiere dell’Unione e più risorse per Frontex. Oltre a un miglioramento del sistema dei visti e a un’accelerazione delle strategie per i respingimenti.
Di conseguenza, quindi, anche nuovi accordi con i Paesi di provenienza e di transito dei migranti. Non solo. Nehammer si era mostrato molto contrariato rispetto ai profughi che giungono alla frontiera austriaca senza essere stati registrati dai Paesi d’ingresso dell’Unione. «Un problema», ha detto, «grave per la sicurezza di tutta l’Ue e che dimostra che Schengen non funziona e che anche il sistema di asilo della Ue è fallito».
Da dire che Giorgia Meloni, già a dicembre scorso, chiedeva «un impegno comune di tutti, degli Stati dell’Unione europea da una parte, e degli Stati della sponda Sud del Mediterraneo dall’altra» perché l’Italia da sola non ce la può più fare, «non può gestire un flusso con dimensioni ingestibili».
E così nelle dichiarazioni finali del Consiglio, i leader dell’Ue hanno concordato di «mobilitare immediatamente ingenti fondi e mezzi» per aiutare i Paesi a rafforzare le loro «capacità e infrastrutture di protezione delle frontiere».
Ergo proteggere i confini di terra e mare anche con muri e pattugliamenti si può. Si deve fare. Non solo. Che il vento stia cambiando lo si vede anche dall’ultima lettera con cui Ursula von Der Leyen risponde a Giorgia Meloni sul problema dei flussi migratori. «La migrazione va affrontata con un approccio olistico», scrive, «combattendo i trafficanti, mettendo in campo i rimpatri per chi non ha diritto di restare, ma anche offrendo percorsi chiari per migrazioni sicure e legali». «Provvederemo», continua, «con almeno mezzo miliardo nel finanziare nuovi insediamenti e corridoi umanitari da qui al 2025, offrendo supporto ad almeno 50.000 persone».
Cinquantamila? Poche rispetto a quel milione di richiedenti asilo registrati solo nel 2022 nell’Unione. Forse sì. Il vento sta cambiando. Arriverà il libeccio. E difendere le frontiere tornerà di moda. Sempre che alle parole seguano i fatti.
Il primo premier di origine straniera ha blindato gli accessi al Regno Unito
Lotta dura all’immigrazione clandestina. La stretta di mano che segna un punto di svolta è quella tra il presidente francese Emmanuel Macron e il premier inglese, Rishi Sunak. Uomini così diversi, ma così uniti. Venerdì scorso a Parigi c’è stato il primo vertice bilaterale tra i due leader e al centro dell’incontro ovviamente il tema immigrazione. Sunak ha fatto sapere che stanzierà 543 milioni di euro per limitare le partenze dalla Francia, con tanto di pattugliamento delle spiagge.
Ecco il modello che ora tutti vogliono imitare: quello della lotta dura ai «criminali che gestiscono la tratta». Perché, checché ne dica Macron, facile parlare, ma quando i clandestini te li trovi in casa, la questione diventa meno simpatica.
L’intesa bilaterale prevede la costruzione di un nuovo centro di detenzione per i migranti nel Nord della Francia, «che riunirà per la prima volta le nostre squadre», ha fatto sapere il governo britannico. Inoltre vi sarà un dispiegamento di maggiori risorse sia di personale francese - si prevedono 500 nuovi agenti - sia di tecnologie dedicate per pattugliare più efficacemente le coste. Avete capito bene. Pattugliamento delle coste e 500 nuovi agenti francesi. «La cooperazione rafforzata mira ad aumentare il tasso d’intercettamento di tentati attraversamenti e a ridurne così drasticamente il numero».
Ma c’è dell’altro. Il nuovo disegno di legge studiato dal governo britannico per contrastare l’immigrazione illegale prevede il rimpatrio automatico per i migranti che arrivano via mare e dispone che chi entri in maniera irregolare nel Paese venga messo in stato di fermo e rimpatriato oppure espulso in un terzo paese come il Ruanda. Il tutto avviene mentre in Italia si cerca di addossare la responsabilità a qualcuno per i 74 morti nel naufragio di Cutro. Se il progetto di legge inglese dovesse divenire efficace, chiunque arrivasse nel Paese via mare sarebbe sottoposto a detenzione e rispedito nel suo Stato di origine qualunque sia la situazione al suo interno. Già nell’aprile 2022 l’allora ministro dell’Interno britannico Priti Patel e il ministro degli Esteri ruandese Vincent Biruta siglarono un accordo che prevedeva la deportazione in Ruanda dei migranti entrati illegalmente nel Regno Unito, nell’attesa che venisse sciolto il quesito sulla loro richiesta di asilo.
Una specie di parcheggio, in cambio del pagamento al Ruanda di grosse somme di denaro. Fu la Corte europea dei diritti dell’uomo a dichiarare illegittima la misura.
In Australia hanno le idee chiarissime. «Questa non sarà la vostra nuova casa»
«Non importa chi sei o da dove vieni. L’Australia non sarà la tua casa». È una delle mete più ambite dai nostri giovani che annoiati, frustrati e depressi dalla situazione in Italia, decidono di andare a vivere all’estero. Alcuni se ne vanno perché dicono che l’Italia sia un Paese chiuso e omofobo, razzista e quant’altro, ma forse non sanno che l’Australia, il sesto Paese più grande al mondo, «il Paese dove è bello vivere», nasconde una delle politiche di detenzione per immigrazione tra le più dure e severe.
La detenzione qui è obbligatoria per chiunque non abbia un visto valido. La legge prevede che tutti i «non cittadini illegali» siano detenuti per immigrazione per un periodo che può essere indefinito. Avete capito bene. Sì.
Secondo il Migration Act 1958 qui gli agenti devono detenere qualsiasi persona che sanno o sospettano essere in Australia illegalmente. E una volta che la persona viene sistemata nei centri di detenzione, deve rimanerci fino a quando non le viene concesso un visto. L’alternativa è quella di lasciare il Paese. Questo vale per chi è senza visto, per colui al quale è stato cancellato, o per chi ce l’ha scaduto.
Dati alla mano, secondo le statistiche del dipartimento degli Affari Interni, le persone detenute per immigrazione, al 31 agosto 2021, erano 1.440. La detenzione per immigrazione, secondo il governo, fa parte di uno stretto controllo delle frontiere e della salvaguardia dell’integrità del programma migratorio dell’Australia. E a dire che il sistema funziona, ci pensano i dati. Le statistiche del governo australiano mostrano che tra il 1° gennaio 1947 e il 30 giugno 2022 sono arrivati 940.159 tra rifugiati e migranti attraverso i processi di reinsediamento offshore e la protezione via terra.
Si stima che nei primi mesi del 2023, il numero di rifugiati e accolti in Australia dalla seconda guerra mondiale - badate bene: dalla seconda guerra mondiale - supererà i 950.000. Avete capito bene: 950.000. Nulla se si confrontano i richiedenti asilo nell’Unione europea nel 2022. Essi sono stati 5 milioni. Va bene, c’è stata la guerra in Ucraina. Ma la maggior parte dei richiedenti asilo in Australia proviene dall’Iran, dall’Iraq, dall’Afghanistan, dallo Sri Lanka. Era il 2014 quando il governo australiano diffuse una campagna contro l’immigrazione illegale mettendo in guardia tutti coloro che avrebbero voluto avventurarsi via mare. «No Way», era il titolo. «Non importa chi sei o da dove vieni. L’Australia non sarà la tua casa», c’era scritto.
Perfino a Katmandu non vanno pazzi per l’idea della sostituzione di popolo
Persino il piccolo Nepal (30 milioni di abitanti su 147.516 chilometri quadrati) non ci sta a vedere la propria popolazione «sostituita». Stretto tra due giganti demografici come Cina e India, lo stato himalayano fa di tutto per preservare la propria identità, sia in termini qualitativi che meramente quantitativi. E se la frontiera con la Cina è resa impervia da barriere culturali, geografiche e politiche, il confine indo-nepalese è aperto, non c’è bisogno di visto per attraversarlo, e le due popolazioni sono culturalmente molto vicine. Si spiega così la stringente legge sulla cittadinanza del Paese. Secondo la Costituzione del 2015, chiunque nasca da padre nepalese ottiene la nazionalità automaticamente per diritto di sangue, mentre se la madre è nepalese e il padre è straniero, il bambino può solo chiedere una «naturalizzazione», spesso complicata da ottenere. Ma anche in presenza di entrambi i genitori nepalesi, se i nonni non lo sono, è comunque difficile ottenere la cittadinanza. L’identità del padre deve essere inoltre provata con certezza, cosa non semplice in un Paese in cui nelle aree rurali c’è molta poligamia. Il carattere assai radicale delle normative vigenti ha determinato il fenomeno dei nepalesi apolidi: ragazzi cresciuti nel Paese, ma privi di cittadinanza. Non ci sono cifre certe, ma alcune Ong hanno calcolato che nel 2011 il 23% della popolazione sopra i 16 anni non possedeva un certificato di cittadinanza. Si stima che circa 6,7 milioni di nepalesi vivano oggi in questo limbo. Il tema della necessità di preservare la propria identità bio-culturale è comunque molto sentito nel Paese. Qualche mese fa il re Gyanendra Shah (nella foto), deposto nel 2008 ma presenza comunque ancora influente nel Paese, si è rivolto alla cittadinanza, criticando i tentativi di allentare le maglie della legge sulla cittadinanza: «Da una parte i nostri giovani andranno all’estero, dall’altra arriveranno stranieri a sostituirli. È un attacco fatale contro la religione, la cultura e la civiltà del Nepal. La nostra nazionalità e la nostra storia sono in una situazione critica. Il processo di sostituzione delle nostre credenze religiose e culturali originali è drasticamente accelerato. Man mano che la politica estera diventa sbilanciata, il nostro interesse nazionale e la nostra sicurezza sono minacciati. La corruzione diffusa ha perso la società, che deve ritrovare le sue fondamenta», ha aggiunto il monarca.
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Dagli Usa alla Danimarca, dalla Tunisia alla Francia: ovunque, nel mondo, i Paesi tornano a chiudere le frontiere. La grande ondata di flussi partita nel 2011potrebbe essere giunta al termine. Ora la parole d’ordine è: rafforzare i confini.Dopo anni nel mondo delle favole, Bruxelles mobilita fondi e mezzi per vigilare su chi entra. Forse è la volta buona.Ecco il modello inglese che ora tutti vogliono imitare: quello della lotta dura ai «criminali che gestiscono la tratta».«Non importa chi sei o da dove vieni. L’Australia non sarà la tua casa». In Nepal una delle leggi sulla cittadinanza più stringenti del mondo.Lo speciale contiene cinque articoliUna cosa l’abbiamo capita. Che se sei disperato vieni in Italia. Joe Biden sta tirando su le frontiere. L’ Inghilterra non ne parliamo. La Spagna spara ai clandestini. La Francia che mai si è risparmiata nel darci lezioni di bon ton, respinge i migranti a suon di baionette. Ve la ricordate no? Tra i tanti episodi incresciosi, come dimenticare quella donna incinta respinta alla frontiera di Bardonecchia e poi morta. Era il 2018. La Danimarca vuole arrivare a ingressi zero. L’Austria chiede un rafforzamento dei controlli alle frontiere. Il Nepal vanta una Costituzione assai draconiana. E perfino l’Africa teme che «i neri diventino troppi». Ma qual è la situazione generale?Mentre in Italia le sinistre berciano per addossare la responsabilità dei morti di Cutro, al presidente Giorgia Meloni, a Matteo Salvini, al ministro Matteo Piantedosi, perfino la Tunisia dice basta. Ma andiamo con ordine.La politica migratoria annunciata il 5 gennaio scorso dal presidente degli Stati Uniti, che tanto era bello e bravo e per niente guerrafondaio, prevede l’estensione del titolo 42. Ossia di quella misura varata dall’amministrazione Trump a seguito della pandemia e che prevede l’espulsione immediata dei richiedenti asilo per motivi di salute pubblica. Orbene, Biden che prometteva politiche migratorie umane, di certo non si è risparmiato nell’utilizzare tale misura. Questa legge, dalla sua entrata in vigore nel marzo 2020, è stata usata per espellere oltre 1,45 milioni di persone, ma di cui, bada bene, un milione, quindi circa il 70%, nel corso dell’amministrazione Biden. Le nuove misure potrebbero portare a un irrigidimento delle restrizioni migratorie, e quindi l’estensione del titolo 42 a persone di Haiti, Cuba e Nicaragua; l’ espulsione immediata in Messico, in accordo con le sue autorità, di un massimo di 30.000 persone ogni mese; le espulsioni accelerate in base al titolo 8 per le persone alle quali non sia possibile applicare il titolo 42, e l’aumento del personale, delle barriere e dei meccanismi di controllo per impedire i passaggi irregolari alla frontiera.Illustrato il Nuovo Mondo, ci spostiamo un attimo in Africa. Anche qui non sembra andare meglio. Se ne sono accorti anche gli africani che non è possibile gestire l’immigrazione a casaccio. Come ricordato recentemente dalla Verità, il presidente tunisino Kais Saied, il 21 febbraio scorso, durante una riunione del Consiglio di sicurezza, ha detto che «esiste un piano criminale per cambiare la composizione demografica della Tunisia. Ci sono alcuni individui che hanno ricevuto grosse somme di denaro per dare la residenza ai migranti subsahariani, la loro presenza è fonte di violenza, crimini e atti inaccettabili, è il momento di mettere la parola fine a tutto questo perché c’è la volontà di fare diventare la Tunisia solamente un paese africano e non un membro del mondo arabo e islamico». Da qui la promessa di misure urgenti «per contrastare l’arrivo in Tunisia di un numero importante di migranti clandestini». E non va meglio nella sinistra danese. Spostandoci a Nord del globo terrestre, il governo progressista di Copenaghen vuole arrivare a ingressi zero. E quindi ha stretto accordi con la Ruanda e il Kosovo per smaltire i flussi. Avete presente i danesi? Uno dei Paesi più avanzati al mondo per i diritti. Ecco, la giovane leader dei socialdemocratici, Mette Frederiksen ha sempre sostenuto che la spesa necessaria per l’integrazione di nuovi migranti nella società danese fosse assolutamente incompatibile con il mantenimento dello stato sociale. È stata lei a volere la politica «zero rifugiati», eccezion fatta per gli ucraini, e a mettere in piedi un piano, simile a quello del Regno Unito, per trasferire i richiedenti asilo in Ruanda. Avete capito bene sì. Clandestini in Ruanda e delinquenti immigrati mandati a scontare la pena in Kosovo. Piani che Giorgia Meloni o Marine Le Pen non hanno nemmeno mai ipotizzato. E forse nemmeno pensato.Non solo. La Danimarca fu il primo Paese europeo a dire che i normali rifugiati potessero essere rimandati indietro. Lo fece quando tolse i permessi di soggiorno ai siriani provenienti da zone sicure. Contando il risultato dei socialdemocratici, difficile non riconoscere il successo della strategia danese sulle questioni migratorie. E il comportamento della Francia, così attenta a criticare l’Italia, non è meno duro. A Mentone, per dire, viene segnalata ancora la pratica della polizia di modificare la data di nascita degli immigrati minorenni, facendoli passare per maggiorenni e quindi espellibili tramite il refus d’entrée, il foglio di via. E come dimenticare quel braccio di ferro sulla pelle dei rifugiati?Quando a novembre scorso ci fu il caso della Ocean Viking, Parigi disse «sì ok, la prendiamo noi», ma attraverso il portavoce del governo francese, Olivier Véran, avvertì che non avrebbe accolto oltre 3.000 persone così come da accordi presi con l’Italia. Non paga, inoltre, invitò anche il resto dei Paesi europei a fare altrettanto. Ma veniamo all’Ungheria dove il diritto di asilo viene concesso a poche decine di persone l’anno. In Grecia invece, un rapporto dell’Oxfam, la confederazione internazionale di organizzazioni non profit che si occupa di povertà e di tutela dei diritti umani, nel 2021 parlava di sette migranti su 10 in «detenzione amministrativa» già al momento della presentazione della domanda di asilo. Ecco perché non sbarcano qui. E a proposito: chi scrive ha visto con i propri occhi al confine tra la Slovenia e la Croazia, e tra la Croazia e la Bosnia, i migranti inginocchiati sull’asfalto venire respinti e ributtati al di là del confine dai poliziotti croati. Le carovane di disperati, che risalgono la rotta Balcanica, giunte alle frontiere vengono respinte anche con l’uso della forza. 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Otto Paesi hanno scritto all’Ue chiedendo una riforma radicale del sistema di asilo e una seria e severa limitazione dell’immigrazione irregolare. Il sistema è rotto e avvantaggia i trafficanti di esseri umani, perché insomma basta, non se ne può più di questi che vanno vengono entrano escono. Il tutto alla luce del sole ma nell’ombra della clandestinità. Tra i firmatari della lettera non c’è l’Italia, ormai stremata dalle continue e inascoltate richieste di aiuto. L’ attuale sistema di asilo «è rotto», scrivono Danimarca, Lituania, Lettonia, Estonia, Slovacchia, Grecia, Malta e Austria, «e avvantaggia soprattutto i cinici trafficanti di esseri umani che approfittano della sfortuna di donne, uomini e bambini». Inoltre, i Paesi elencati invitano la Commissione «a presentare un approccio europeo completo per tutte le rotte migratorie». Anche perché, i trafficanti del mare sono assai più svegli e più veloci dell’Unione che dal 2015 cerca - ma non trova - soluzioni. La prova? L’ultimo naufragio a Cutro. Non è percorribile la rotta dell’Egeo? C’è quella nel mar Ionio. Non riesco a passare dalla Libia? Ci sono Egitto e Tunisia. Non riesco a uscire dal Marocco? Ci sono la Spagna. Le Isole Canarie. Ovunque ti giri siamo circondati. Per porre fine alla totale assenza di controllo ci vorrebbe un’istituzione che abbia polso, ma quello dell’Europa negli ultimi anni pare essersi slogato. Alla vigilia della riunione straordinaria del Consiglio d’Europa, l’8 febbraio scorso, era stato il cancelliere austriaco Karl Nehammer a «minacciare» di mettere il veto al Consiglio Europeo insieme ad altri sette Paesi, chiedendo un rafforzamento delle frontiere dell’Unione e più risorse per Frontex. Oltre a un miglioramento del sistema dei visti e a un’accelerazione delle strategie per i respingimenti. Di conseguenza, quindi, anche nuovi accordi con i Paesi di provenienza e di transito dei migranti. Non solo. Nehammer si era mostrato molto contrariato rispetto ai profughi che giungono alla frontiera austriaca senza essere stati registrati dai Paesi d’ingresso dell’Unione. «Un problema», ha detto, «grave per la sicurezza di tutta l’Ue e che dimostra che Schengen non funziona e che anche il sistema di asilo della Ue è fallito». Da dire che Giorgia Meloni, già a dicembre scorso, chiedeva «un impegno comune di tutti, degli Stati dell’Unione europea da una parte, e degli Stati della sponda Sud del Mediterraneo dall’altra» perché l’Italia da sola non ce la può più fare, «non può gestire un flusso con dimensioni ingestibili». E così nelle dichiarazioni finali del Consiglio, i leader dell’Ue hanno concordato di «mobilitare immediatamente ingenti fondi e mezzi» per aiutare i Paesi a rafforzare le loro «capacità e infrastrutture di protezione delle frontiere». Ergo proteggere i confini di terra e mare anche con muri e pattugliamenti si può. Si deve fare. Non solo. Che il vento stia cambiando lo si vede anche dall’ultima lettera con cui Ursula von Der Leyen risponde a Giorgia Meloni sul problema dei flussi migratori. «La migrazione va affrontata con un approccio olistico», scrive, «combattendo i trafficanti, mettendo in campo i rimpatri per chi non ha diritto di restare, ma anche offrendo percorsi chiari per migrazioni sicure e legali». «Provvederemo», continua, «con almeno mezzo miliardo nel finanziare nuovi insediamenti e corridoi umanitari da qui al 2025, offrendo supporto ad almeno 50.000 persone». Cinquantamila? Poche rispetto a quel milione di richiedenti asilo registrati solo nel 2022 nell’Unione. Forse sì. Il vento sta cambiando. Arriverà il libeccio. E difendere le frontiere tornerà di moda. 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Sunak ha fatto sapere che stanzierà 543 milioni di euro per limitare le partenze dalla Francia, con tanto di pattugliamento delle spiagge. Ecco il modello che ora tutti vogliono imitare: quello della lotta dura ai «criminali che gestiscono la tratta». Perché, checché ne dica Macron, facile parlare, ma quando i clandestini te li trovi in casa, la questione diventa meno simpatica. L’intesa bilaterale prevede la costruzione di un nuovo centro di detenzione per i migranti nel Nord della Francia, «che riunirà per la prima volta le nostre squadre», ha fatto sapere il governo britannico. Inoltre vi sarà un dispiegamento di maggiori risorse sia di personale francese - si prevedono 500 nuovi agenti - sia di tecnologie dedicate per pattugliare più efficacemente le coste. Avete capito bene. Pattugliamento delle coste e 500 nuovi agenti francesi. «La cooperazione rafforzata mira ad aumentare il tasso d’intercettamento di tentati attraversamenti e a ridurne così drasticamente il numero». Ma c’è dell’altro. Il nuovo disegno di legge studiato dal governo britannico per contrastare l’immigrazione illegale prevede il rimpatrio automatico per i migranti che arrivano via mare e dispone che chi entri in maniera irregolare nel Paese venga messo in stato di fermo e rimpatriato oppure espulso in un terzo paese come il Ruanda. Il tutto avviene mentre in Italia si cerca di addossare la responsabilità a qualcuno per i 74 morti nel naufragio di Cutro. Se il progetto di legge inglese dovesse divenire efficace, chiunque arrivasse nel Paese via mare sarebbe sottoposto a detenzione e rispedito nel suo Stato di origine qualunque sia la situazione al suo interno. Già nell’aprile 2022 l’allora ministro dell’Interno britannico Priti Patel e il ministro degli Esteri ruandese Vincent Biruta siglarono un accordo che prevedeva la deportazione in Ruanda dei migranti entrati illegalmente nel Regno Unito, nell’attesa che venisse sciolto il quesito sulla loro richiesta di asilo. Una specie di parcheggio, in cambio del pagamento al Ruanda di grosse somme di denaro. Fu la Corte europea dei diritti dell’uomo a dichiarare illegittima la misura. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/gli-stati-che-dicono-no-all-immigrazione-2659584855.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="in-australia-hanno-le-idee-chiarissime-questa-non-sara-la-vostra-nuova-casa" data-post-id="2659584855" data-published-at="1678617468" data-use-pagination="False"> In Australia hanno le idee chiarissime. «Questa non sarà la vostra nuova casa» «Non importa chi sei o da dove vieni. L’Australia non sarà la tua casa». È una delle mete più ambite dai nostri giovani che annoiati, frustrati e depressi dalla situazione in Italia, decidono di andare a vivere all’estero. Alcuni se ne vanno perché dicono che l’Italia sia un Paese chiuso e omofobo, razzista e quant’altro, ma forse non sanno che l’Australia, il sesto Paese più grande al mondo, «il Paese dove è bello vivere», nasconde una delle politiche di detenzione per immigrazione tra le più dure e severe. La detenzione qui è obbligatoria per chiunque non abbia un visto valido. La legge prevede che tutti i «non cittadini illegali» siano detenuti per immigrazione per un periodo che può essere indefinito. Avete capito bene. Sì. Secondo il Migration Act 1958 qui gli agenti devono detenere qualsiasi persona che sanno o sospettano essere in Australia illegalmente. E una volta che la persona viene sistemata nei centri di detenzione, deve rimanerci fino a quando non le viene concesso un visto. L’alternativa è quella di lasciare il Paese. Questo vale per chi è senza visto, per colui al quale è stato cancellato, o per chi ce l’ha scaduto. Dati alla mano, secondo le statistiche del dipartimento degli Affari Interni, le persone detenute per immigrazione, al 31 agosto 2021, erano 1.440. La detenzione per immigrazione, secondo il governo, fa parte di uno stretto controllo delle frontiere e della salvaguardia dell’integrità del programma migratorio dell’Australia. E a dire che il sistema funziona, ci pensano i dati. Le statistiche del governo australiano mostrano che tra il 1° gennaio 1947 e il 30 giugno 2022 sono arrivati 940.159 tra rifugiati e migranti attraverso i processi di reinsediamento offshore e la protezione via terra. Si stima che nei primi mesi del 2023, il numero di rifugiati e accolti in Australia dalla seconda guerra mondiale - badate bene: dalla seconda guerra mondiale - supererà i 950.000. Avete capito bene: 950.000. Nulla se si confrontano i richiedenti asilo nell’Unione europea nel 2022. Essi sono stati 5 milioni. Va bene, c’è stata la guerra in Ucraina. Ma la maggior parte dei richiedenti asilo in Australia proviene dall’Iran, dall’Iraq, dall’Afghanistan, dallo Sri Lanka. Era il 2014 quando il governo australiano diffuse una campagna contro l’immigrazione illegale mettendo in guardia tutti coloro che avrebbero voluto avventurarsi via mare. «No Way», era il titolo. «Non importa chi sei o da dove vieni. L’Australia non sarà la tua casa», c’era scritto. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem4" data-id="4" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/gli-stati-che-dicono-no-all-immigrazione-2659584855.html?rebelltitem=4#rebelltitem4" data-basename="perfino-a-katmandu-non-vanno-pazzi-per-lidea-della-sostituzione-di-popolo" data-post-id="2659584855" data-published-at="1678649384" data-use-pagination="False"> Perfino a Katmandu non vanno pazzi per l’idea della sostituzione di popolo Persino il piccolo Nepal (30 milioni di abitanti su 147.516 chilometri quadrati) non ci sta a vedere la propria popolazione «sostituita». Stretto tra due giganti demografici come Cina e India, lo stato himalayano fa di tutto per preservare la propria identità, sia in termini qualitativi che meramente quantitativi. E se la frontiera con la Cina è resa impervia da barriere culturali, geografiche e politiche, il confine indo-nepalese è aperto, non c’è bisogno di visto per attraversarlo, e le due popolazioni sono culturalmente molto vicine. Si spiega così la stringente legge sulla cittadinanza del Paese. Secondo la Costituzione del 2015, chiunque nasca da padre nepalese ottiene la nazionalità automaticamente per diritto di sangue, mentre se la madre è nepalese e il padre è straniero, il bambino può solo chiedere una «naturalizzazione», spesso complicata da ottenere. Ma anche in presenza di entrambi i genitori nepalesi, se i nonni non lo sono, è comunque difficile ottenere la cittadinanza. L’identità del padre deve essere inoltre provata con certezza, cosa non semplice in un Paese in cui nelle aree rurali c’è molta poligamia. Il carattere assai radicale delle normative vigenti ha determinato il fenomeno dei nepalesi apolidi: ragazzi cresciuti nel Paese, ma privi di cittadinanza. Non ci sono cifre certe, ma alcune Ong hanno calcolato che nel 2011 il 23% della popolazione sopra i 16 anni non possedeva un certificato di cittadinanza. Si stima che circa 6,7 milioni di nepalesi vivano oggi in questo limbo. Il tema della necessità di preservare la propria identità bio-culturale è comunque molto sentito nel Paese. Qualche mese fa il re Gyanendra Shah (nella foto), deposto nel 2008 ma presenza comunque ancora influente nel Paese, si è rivolto alla cittadinanza, criticando i tentativi di allentare le maglie della legge sulla cittadinanza: «Da una parte i nostri giovani andranno all’estero, dall’altra arriveranno stranieri a sostituirli. È un attacco fatale contro la religione, la cultura e la civiltà del Nepal. La nostra nazionalità e la nostra storia sono in una situazione critica. Il processo di sostituzione delle nostre credenze religiose e culturali originali è drasticamente accelerato. Man mano che la politica estera diventa sbilanciata, il nostro interesse nazionale e la nostra sicurezza sono minacciati. La corruzione diffusa ha perso la società, che deve ritrovare le sue fondamenta», ha aggiunto il monarca.
Mohammad Shahin (Ansa)
Naturalmente non stupisce che la Corte d’Appello sia di manica larga con un imam che teorizza che l’assassinio di 1.200 persone e il rapimento di altre 250 non sia violenza. In fondo la sentenza si inserisce in una tendenza che nei tribunali italiani gode di una certa popolarità. Non furono ritenute incompatibili con il trattenimento nel Cpr in Albania anche decine di extracomunitari con la fedina penale lunga una spanna? Nonostante nel casellario giudiziale figurassero precedenti per reati anche gravi come aggressioni e perfino un tentato omicidio, i migranti furono prontamente rimpatriati e ovviamente lasciati liberi di scorrazzare per il Paese e di commettere altri crimini. Sia mai che qualcuno venga trattenuto e successivamente espulso.
Del resto, recentemente un altro magistrato, questa volta di Bologna, ha detto al Manifesto che le recenti disposizioni europee in materia di Paesi sicuri sono da ritenersi incostituzionali. Perché ovviamente per alcune toghe il diritto è à la carte, cioè si sceglie da un menù quello che più gusta. Se bisogna opporre un diniego alla legge varata dal Parlamento ci si appella alla giurisprudenza europea, che va da sé è preminente rispetto a quella nazionale. Ma se poi una direttiva Ue o del Consiglio europeo non piace si fa il contrario e ci si appella al diritto italiano, che in questo caso torna prevalente. Insomma, comunque vada il migrante ha sempre ragione e deve essere ritenuto discriminato e dunque coccolato e tutelato. Se un italiano inneggia al fascismo deve essere messo in galera, se un imam si dichiara d’accordo con una strage, non considerandola violenza ma resistenza invece scatta la libertà di espressione, quella stessa espressione che gli autori del massacro di Charlie Hebdo anni fa negarono ai vignettisti del settimanale francese, colpevoli di aver disegnato immagini sarcastiche sull’islam.
Purtroppo, la tendenza a giustificare tutto e dare addosso a chi denuncia i pericoli legati a un’immigrazione indiscriminata ormai dilaga. Ieri sulla prima pagina di Repubblica campeggiava uno studio in cui la questione che lega gli stranieri al crescente clima di insicurezza era addebitata ai media. Colpa di giornali e tv se si parla di migranti. «I picchi di informazione e audience sul pericolo stranieri avvengono nei periodi elettorali», tiene a precisare il quotidiano che la famiglia Agnelli ha messo in vendita. In realtà i picchi coincidono sempre con fatti di cronaca nera. Stragi, rapine, stupri: quei fatti che né i giudici, né alcuni giornali vogliono vedere.
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Sergio Mattarella (Ansa)
Dite che in tutto questo c’è qualcosa che non funziona? Forse non avete tutti i torti. Però è esattamente quello che è successo. Alla XVIII Conferenza delle ambasciatrici e degli ambasciatori, Mattarella si è lasciato possedere dallo spirito di Kaja Kallas e ha impugnato lo spadone: «Permane l’aggressione russa ai danni dell’Ucraina», ha detto, «con vittime e immani distruzioni, e con l’aberrante intendimento, malgrado gli sforzi negoziali in atto, di infrangere il principio del rifiuto di ridefinire con la forza gli equilibri e i confini in Europa. Infrangere questo principio è un’azione ritenuta irresponsabile e inammissibile già oltre cinquanta anni addietro nella Conferenza di Helsinki sulla cooperazione e sicurezza nel continente». Quindi anche il bombardamento di Belgrado era già un’azione «ritenuta irresponsabile e inammissibile»...
Ma il particolare non ha turbato l’uomo del Colle, che ha proseguito bellicoso: «Appare, a dir poco, singolare che, mentre si affacciano, in ambito internazionale, esperienze dirette a unire Stati e a coordinarne le aspirazioni e le attività, si assista a una disordinata e ingiustificata aggressione nei confronti dell’Unione europea, alterando la verità e presentandola, anziché come una delle esperienze storiche di successo per la democrazia e i diritti dei popoli, sviluppatasi anche con la condivisione e l’apprezzamento dell’intero Occidente, come una organizzazione oppressiva se non addirittura nemica della libertà». Oplà: sistemati anche i nemici della meravigliosa e infallibile Unione europea «apprezzata dall’intero Occidente». Intero. E pazienza se anche alcuni scudieri del sovrano del Quirinale, segnatamente Enrico Letta e Mario Draghi, si sono recentemente azzardati a criticare anche aspramente l’architettura parasovietica allestita a Bruxelles. Per Mattarella è l’ora delle decisioni irrevocabili: «È evidente che è in atto un’operazione, diretta contro il campo occidentale, che vorrebbe allontanare le democrazie dai propri valori, separando i destini delle diverse nazioni. Non è possibile distrarsi e non sono consentiti errori».
Ecco, non sono consentiti errori. E allora perché, proprio mentre si tratta a Berlino, il presidente della Repubblica compie un’invasione di campo così clamorosa? Come mai è tanto ansioso di metterci in rotta di collisione con la Russia da superare in oltranzismo i Volenterosi e persino lo stesso Zelensky, ormai pragmaticamente orientato a discutere per evitare la catastrofe finale al suo popolo stremato? Che cosa hanno in testa Mattarella e il suo consigliere Francesco Saverio Garofani, che siede ancora con lui (e con Giorgia Meloni) nel Consiglio supremo di Difesa malgrado le imbarazzanti frasi, rivelate dalla Verità, su «provvidenziali scossoni» per impedire alla stessa leader di Fratelli d’Italia di rivincere le elezioni e, orrore, magari insediare qualcuno non di sinistra sul Colle più alto di Roma?
Il Quirinale, con la docile stampa al seguito, si è affrettato a far calare una cappa di silenzio su quella voce dal sen fuggita che rivelava desideri e trame di chi sussurra all’orecchio di Mattarella. Ma ora è il capo dello Stato in persona a uscire allo scoperto. È lui a dare sulla voce al premier, che pochi giorni fa, accogliendolo a Roma, ha parlato a Zelensky della necessità di fare «dolorose concessioni». È lui a dare una linea alternativa (anche al sé stesso più giovane) in politica estera, esondando dalle sue funzioni. Ennesima dimostrazione che l’opposizione vera a questo governo si fa sul Colle. E che forse Garofani non esprimeva solo considerazioni personali.
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Il titolare del supermercato Conad City, che si trova a ridosso del centro storico della città, dopo l’ennesimo episodio di violenza avvenuto all’interno del suo negozio, ha deciso di dotare le dipendenti, e in particolare le cassiere, di spray al peperoncino da tenere a portata di mano durante il turno di lavoro.
Pochi giorni fa, infatti, a metà mattinata, due ubriachi sono entrati con cattive intenzioni e mentre uno si dirigeva verso il reparto alcolici, l’altro si è avvicinato ai banchi dell’ortofrutta e, afferrato un grappolo d’uva, si è messo a mangiare con gusto, cerando di farsi consegnare denaro dai presenti. Invitati ad allontanarsi, i due, hanno reagito con violenza minacciando il titolare del negozio e spaventando il resto del personale, costretto a rifugiarsi nel box informazioni per la paura di essere assalito. Decisivo l’intervento della figlia del proprietario che, vista la situazione di pericolo, con un impeto di coraggio ha sfoderato lo spray al peperoncino e messo in fuga i due. Da lì l’idea di dotare tutte le cassiere del presidio deterrente: «Le cassiere sono giovani e hanno paura» ha dichiarato il titolare alla tv locale, ricordando altri tre episodi simili avvenuti nel giro di un solo mese, uno dei quali costato la frattura di una mano ad un dipendente che cercava di difendere una collega.
Recentemente Il Sole 24 Ore ha posizionato la Provincia di Treviso al primo posto in Italia per numero di minori coinvolti in rapine e aggressioni perché, in città e nel suo comprensorio, il 9,5% delle persone denunciate o arrestate per atti violenti è risultato essere un under 18 (il dato nazionale si ferma al 5%). E insieme ai dati anche le cronache recenti confermano il trend.
A meno di un chilometro di distanza dal supermercato con le cassiere costrette ad «armarsi», dalla parte opposta del centro cittadino, una settimana fa, in una serata di movida, dieci maranza hanno accerchiato e brutalmente pestato quattro giovani i trevigiani, colpevoli solo di aver risposto per le rime alle offese pronunciate dalla gang, con l’intento di provocare. In risposta allo scambio colorito di epiteti uno degli stranieri ha colpito uno dei rivali e, per tentare di far rientrare la situazione, un amico è corso a difenderlo. A quel punto, però, il gruppo di maranza si è accanito su di lui colpendolo al volto, rompendogli mandibola e orbita, e ferendo gli altri con calci e colpi sferrati con il tirapugni. In risposta all’episodio, il comitato Prima i Trevigiani, in sinergia con Azione Studentesca, si è recato nei luoghi dell’aggressione, affiggendo uno striscione con su scritto «Baby gang e maranza, è finita la tolleranza». «Siamo stanchi di associare la nostra generazione a questi atti di teppismo e criminalità. Treviso ha dato prova di una lunga pazienza, ma ora siamo al limite. Chiediamo fermezza immediata, più controlli e l'applicazione di sanzioni esemplari per ripristinare il diritto alla sicurezza e alla serenità di tutti i trevigiani. La tolleranza verso chi semina il panico è ufficialmente finita», ha dichiarato Federico Piasentin, referente giovani del Comitato. A fargli eco il presidente, Leonardo Capion, che ha spiegato: «La violenza nella nostra città, messa in atto da parte di queste bande, va avanti da tempo, anche se in questo periodo è diventata ancora più frequente e comincia ad essere sotto i riflettori. Come Comitato raccogliamo un numero sempre più alto di segnalazioni e di adesioni dai cittadini stanchi della paura di subire assalti e di non poter vivere liberamente le strade e i luoghi pubblici e proseguiremo con le passeggiate che già da tempo organizziamo per la città come forma di deterrenza».
Per Capion «il problema principale è che la giustizia è troppo lenta nel fare il suo corso e che i violenti sono molto spesso minorenni verso cui le pene sono tutt’altro che severe».
In effetti proprio a distanza di un anno dalla morte di Favaretto, il giovane sgozzato con un vetro il 12 dicembre 2024 durante una rissa, è arrivata, per quattro dei sei ragazzi che lo aggredirono, un maxi sconto di pena. Due ragazzi e due ragazze che presero parte al pestaggio, rinviati a giudizio per omicidio volontario aggravato dall’intenzione di effettuare una rapina e di rapina in concorso, hanno chiesto il rito abbreviato e ottenuto la messa alla prova. Non finiranno in carcere ma se la caveranno dedicandosi ai lavori sociali. E nemmeno lavoreranno gratis: per le loro mansioni saranno retribuiti, in modo da poter - secondo i giudici - risarcire la mamma di Francesco nell’ottica di una «giustizia riparativa».
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Se per i Maya erano oggetto di venerazione quasi religiosa, tanto era il loro riconosciuto valore non solo economico, per gli europei coltivare il cacao era troppo complesso e, in seguito, ci si «accontentò» di mangiarne le fave importate in forma di cioccolata. L’Europa iniziò a conoscere per bene la cioccolata in tazza dopo il 1517. In quell’anno il conquistatore spagnolo Hernàn Cortés era sbarcato anch’egli sull’attuale Messico e l’imperatore azteco Montezuma II gli aveva fatto conoscere la «chocolatl», il trito di fave di cacao e mais cotto con acqua e miele che l’imperatore beveva come afrodisiaco. Quando Cortés, morto Montezuma II e conquistato l’impero azteco, divenne governatore, esportò stabilmente la cioccolata presso la corte spagnola di Carlo V. Da lì, la squisita bevanda divenne in breve tempo una specie di ambrosia dei nobili poiché consumarla voleva dire acquisire un vero e proprio status symbol: solo il nobile poteva bere l’esotica e buonissima cioccolata quando voleva. Pensate che Carlo V la mandava come regalo di nozze quando un familiare sposava un nobile di altra nazione e, addirittura, questo farne dono fu il primo modo di diffusione della cioccolata nel resto d’Europa. Inoltre, un po’ come un vero chef, Carlo V non dava la sua ricetta e perciò si svilupparono diverse varianti. E perfino diversi luoghi dedicati dove trovarla per berla, quando era diventata accessibile anche ai borghesi. A Londra, nel 1657 nacque la prima Chocolate house, sulla scia delle Coffee house, e poi in tutta la Gran Bretagna si diffusero tante altre chocolate house, oggi in Italia le chiameremmo cioccolaterie, luoghi nei quali bere la cioccolata e intrattenersi. Dai Maya a noi la cioccolata calda ha fatto tanta strada in ogni senso. Un po’ come la pizza o la pasta, la cioccolata calda è diventata un’icona pop che più passa il tempo più espande la sua costellazione di innovazioni che insieme la confermano e la mutano.
La cioccolateria contemporanea ci ha dato innanzitutto la cioccolata calda fatta con cioccolato diverso da quello al latte o fondente: c’è la cioccolata calda bianca fatta con cioccolato bianco, che a sua volta può essere aromatizzata e quindi possiamo trovare anche la cioccolata calda di colore verde e al sapore di pistacchio, per esempio. E c’è la cioccolata calda rosa realizzata col cioccolato ruby, un cioccolato fatto con fave di cacao provenienti da Ecuador, Costa d’Avorio e Brasile che contengono naturalmente pigmenti rosa. La cioccolata si può preparare sia con il cioccolato tritato, in questo casa potrà essere al latte, fondente, bianca oppure ruby, sia con il cacao. Al di là del tipo di materia prima usata, la cioccolata calda si può poi ormai declinare in mille modi, non solo nel laboratorio della propria cucina, dove basta aggiungere una spolverizzata di cacao oppure di cannella in cima, sia che ci sia panna, sia che non ci sia. O di peperoncino oppure, perché no?, di pepe. I cafè nei quali si beve cioccolata calda hanno i propri mix oppure offrono il menu completo dei mix pensati da produttori artigianali o industriali di preparati per cioccolate in busta. Il marchio apripista in questa direzione fu Eraclea, fondato a Milano circa 50 anni fa e passato dal 2010 al gruppo Lavazza. Quel preparato in busta che decenni or sono era pioneristico oggi è diventato un genere di prodotti e molti fanno il proprio, dalla storica pasticceria Marchesi di Milano al pasticcere torinese Guido Gobino passando per Antonino Cannavacciuolo e le sue choco bomb, versione solida e sferica del preparato, e il Ciobar, l’offerta per preparare una squisita cioccolata in tazza a casa seguendo semplicemente le istruzioni sulla confezione degli ingredienti predosati è vastissima e spazia fin dove si può spaziare. Cioccolata con tocco crunchy? Basta aggiungere granella di nocciole, di pistacchi, perfino bacche di Goji. Cioccolata salata (parzialmente)? Nessun problema, c’è la cioccolata con caramello salato. Cioccolata vegana (recentemente anche la gelateria Grom, artefice di una cioccolata in tazza super cremosa, ha modificato la ricetta per renderla vegana)? Ancora nessun impedimento, basta sostituire il latte con bevanda vegetale. La più sorprendente è sicuramente quella che sembra la negazione della cioccolata calda: la cioccolata fredda. In realtà, si tratta di una versione che destagionalizza la cioccolata calda, disponibile in concomitanza con l’arrivo del freddo per tutta la stagione autunnale e invernale, fino alla primavera. La cioccolata fredda si oppone a questa stagionalità e rendendola estiva attua l’estensione della cioccolata calda a tutto l’anno, naturalmente però raffreddandola. Si prepara con gli stessi ingredienti, ma poi si fa freddare in frigo e si gusta quando fa caldo per rinfrescarsi, non quando fa freddo per riscaldarsi. A proposito di riscaldarsi, sapevate che in montagna è prassi bere una cioccolata calda per contrastare il clima chiaramente molto freddo e riprendere energia dopo una giornata di sci alpino? Deriva da questo l’idea che l’ora della cioccolata calda sia le 16:30, in (giocosa) differenziazione rispetto alle 17, l’ora del tè.
La cioccolata calda è considerata un comfort food e insieme un peccato di gola. Conosciamone meglio le caratteristiche e come trarne il massimo beneficio per la nostra salute ed il nostro benessere.
In 100 ml di cioccolata calda preparata con cioccolato, latte intero, zucchero, un po’ di addensante (qualunque farina oppure amido o fecola) troviamo circa 90 calorie, per il 60% derivanti da carboidrati, per il 25% da grassi e per il 15% da proteine. Fate attenzione perché spesso le tazze sono da 200 ml, quindi considerate 180 calorie. Inoltre, più la cioccolata è densa, più è calorica. Per diminuire i carboidrati si può eliminare lo zucchero, per diminuire un po’ di proteine e di grassi si può usare l’acqua al posto del latte, per diminuire tutto, grassi, proteine e carboidrati, si può usare il cacao magro al posto della cioccolata. Un cucchiaio raso di panna montata aggiunge circa 20 calorie. Durante la stagione fredda, caratterizzata anche dalla diminuzione delle ore di luce, la cioccolata calda è sicuramente un momento di piacere gastronomico, ma anche una spinta energetica per il nostro organismo e per il nostro umore. I flavonoidi hanno effetto antiossidante che aiuta anche la salute del sistema cardiocircolatorio. Grazie a triptofano, feniletilamina e teobromina di cacao o cioccolato, che stimolano la produzione di neurotrasmettitori come la serotonina (il cosiddetto ormone della felicità) e le endorfine (che riducono dolore e stress), una cioccolata in tazza solleva il nostro umore, funge da antistress e ci dona serenità anche nei giorni no. Migliorano anche la memoria e la concentrazione e aumenta un pochino il livello di alcuni sali minerali (potassio, rame, magnesio e ferro). Inoltre, abbiamo sollievo se abbiamo la gola secca e ci scaldiamo: la bevanda, infatti, scalda la bocca, la trachea, lo stomaco e quindi il nucleo centrale del nostro organismo, la parte interna costituita dal busto, che protegge gli organi e che in inverno va protetta dal freddo per mantenere la sua temperatura ottimale di circa 37 gradi centigradi. Inoltre, la cioccolata calda ci dà l’energia che serve al nostro organismo per attuare le sue pratiche anti freddo. Funziona così: il nostro guscio periferico (capo, arti, pelle, muscoli, grasso) cerca di minimizzare la dispersione termica dovuta al fatto che la temperatura esterna è molto bassa tramite la vasocostrizione che diminuisce il flusso sanguigno. Il calore che serve a mantenere il nostro nucleo centrale a 37 gradi (pena malanni o malesseri anche letali se la temperatura scende di troppo) viene prodotto nel nucleo centrale attraverso il metabolismo, che trasforma il cibo in kilocalorie e si trasferisce verso il guscio. Quando fa freddo, il corpo riduce questo trasferimento per conservare il calore centrale, a scapito della temperatura periferica. Tutto questo è un lavoro continuo del nostro organismo, di cui non ci accorgiamo e che richiede molte kilocalorie. Le pratiche che il nostro organismo mette in atto per riscaldarci in inverno ci richiedono e ci fanno consumare molte più calorie di quelle che esso mette in atto per disperdere il calore in estate, perciò mangiamo di più in inverno, perché consumiamo più kilocalorie per mantenere la nostra temperatura interna a circa 37 gradi di quante ne consumiamo in estate per non farla aumentare troppo oltre i 37 gradi. Non bisogna certamente esagerare nel bere cioccolata calda, soprattutto pensando ai grassi (per riscaldarsi va bene anche un tè caldo senza zucchero), ma concedersi una cioccolata di tanto in tanto non può che fare bene. Ultimi consigli. Se avete mal di gola o in generale siete raffreddati, aggiungete in cima alla vostra cioccolata calda polvere di peperoncino, di cannella, di curry, di curcuma. Se avete problemi digestivi, polvere di té verde, di té matcha o di semi di finocchio.
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