«Why not». Lo ripeteva spesso Almerigo Grilz. Tanto da farlo diventare un motto. «Lo ripeteva», racconta l’inviato di guerra, nonché suo amico fraterno Fausto Biloslavo, «nelle situazioni più impensabili, quando si trattava di mangiare una brodaglia ammuffita fra i ruderi di Beirut, non essendoci altro da mettere in pancia, o davanti all’obbligato travestimento musulmano, con tanto di turbante e lunghe tuniche, per entrare clandestinamente nell’Afghanistan occupato dall’Armata rossa». E ora la vita di Almerigo Grilz diventa un film. Albatross, il titolo, le cui riprese sono iniziate a Trieste mercoledì scorso.
Primo giornalista italiano caduto in guerra dopo la fine del secondo conflitto mondiale, quel giorno Grilz, il 19 maggio 1987, era a Caia, in Mozambico, e stava riprendendo uno scontro a fuoco tra i soldati governativi e i ribelli della Renamo, la resistenza nazionale mozambicana. Gli ultimi appunti di Almerigo, custoditi in agende che lui usava come diari di guerra, recitano: «La sveglia è chiamata poco dopo le 5. [...] Fa freddo, l’erba è umida e c’è una nebbiolina brinosa tutto attorno. Riteniamo opportuno iniziare la giornata con un sorso di whisky, che fa l’effetto di una fiammata in gola». Nelle sue agendine lui annotava scrupolosamente tutto, ogni momento, ogni testimonianza, ogni racconto, il tutto accompagnato da disegni e mappe. «In pochi minuti la colonna è in piedi. I soldati, intirizziti nei loro stracci sbrindellati raccolgono in fretta armi e fardelli. [...] Il vocione del generale Elias [...] li incita a muoversi: “Avanza primera compagnia! Vamos in bora!”». Da qui più niente. È il 18 maggio 1987. Il giorno dopo Grilz sarà ucciso. Aveva 34 anni. Il proiettile di un cecchino gli trapasserà la nuca.
Nel documentario video inserito all’interno di una mostra che gli inviati Fausto Biloslavo e Gian Micalessin hanno ideato e curato, si vede perfettamente il momento della morte di Grilz. È lì che corre, mentre filma i guerriglieri. Il fiato che avanza. Le riprese a tutto campo e poi all’improvviso un colpo secco. Almerigo cade a terra. La cinepresa continua a riprendere, inquadra il piede di lui e poi si ferma. Fissa. Immobile. Il piede già quasi inerme. La camera continua a riprendere. È lì fissa su quel campo giallo e verde, su quel cielo azzurro che sa di grigio, come a dire: «Mi avete ammazzato ma qualcuno continuerà per me».
E Biloslavo e Micalessin hanno continuato. Sono andati ovunque nel mondo a raccontare le guerre dimenticate. Insieme ad Almerigo avevano fondato la Albatross, un’agenzia di stampa indipendente, da cui ora il film trae il nome. La regia è di Giulio Base per la produzione «One More» con Rai Cinema e il sostegno di Fvg Film Commission - PromoTurismoFvg. Un viaggio cinematografico che parte dagli anni Settanta, dove si ripercorre la storia di due giovani che, partendo da posizioni politiche opposte, sviluppano amicizia e rispetto reciproci: Almerigo, interpretato da Francesco Centorame, e Vito personaggio di fantasia, impersonato da Giancarlo Giannini. Perché era così Almerigo.
Scrive Toni Capuozzo - nel fumetto sulla biografia di Grilz - Almerigo era «uno che preferì andare dove si combatteva piuttosto che sedersi in qualche redazione. Uno che non si chiese se il giornalismo dovesse essere di sinistra o di destra: raccontava i fatti, le battaglie, anche se in quel suo rigore morale, in quel suo vagabondare inquieto si leggono bene ideali non rinnegati». Il film infatti, le cui riprese andranno avanti fino al 15 novembre prossimo a Trieste, offre una riflessione sulla memoria, l’amicizia e il coraggio di perseguire la propria missione, anche a costo della vita. Un’opera priva di preconcetti ideologici, capace di scavare in profondità un personaggio ancor oggi discusso, spogliandolo del suo alone politico, raccontandone invece il lato prettamente umano. Dopo il 15 novembre la troupe si sposterà in altre regioni italiane.
Nel 2017 è uscito anche il fumetto Almerigo Grilz: Avventure di una vita al fronte, con i disegni di Francesco Bisaro. Un lavoro frutto di una lunga e complessa ricostruzione resa possibile solo grazie e attraverso il materiale storico, le testimonianze, i ricordi degli amici di Almerigo. E nel 2023, nell’anno in cui Grilz avrebbe compiuto 70 anni, con 40 anni di ritardo si è riusciti a esercitare il diritto alla memoria. Perché si sa, Almerigo, nel marasma di riconoscimenti alle vittime politicamente corrette, era scomodo. Grazie all’associazione Amici di Almerigo è stato istituito anche il premio giornalistico a lui intitolato.
«Why not», racconta Biloslavo, «divenne un motto, che assieme a Gian Micalessin ci portò a viaggiare in mezzo mondo raccontando la cosiddetta “pace” degli anni Ottanta, ovvero guerre terribili e spesso dimenticate, ultimi bagliori dello scontro senza quartiere fra le superpotenze». Chi lo sa. Magari oggi se gli avessero chiesto: «Almerigo facciamo un film?», lui avrebbe risposto: «Why not».
Alberto Rizzotto, l’autista alla guida del bus precipitato giù dal cavalcavia di Mestre il 3 ottobre scorso, aveva avuto problemi cardiaci. Prima della tragedia era stato diverse volte al pronto soccorso lamentando problemi al cuore. La Procura ha quindi chiesto esami approfonditi. Da dire che l’autopsia eseguita sul corpo di Rizzotto non aveva evidenziato tracce di malori. Ma, a fine ottobre scorso, l’ipotesi che Rizzotto si fosse sentito male era tornata a galla. E ora da un esame clinico dell’autista quarantenne si sono resi necessari ulteriori accertamenti sul cuore. Esami che la Procura ha conferito lunedì mattina scorso e che dovranno essere documentati in una relazione da presentare entro il 10 gennaio. La titolare delle indagini, il sostituto procuratore Laura Cameli ha chiesto a Cristina Basso, cardiologa dell’università di Padova, un nuovo sezionamento del cuore dell’autista. Sezionamento che avverrà il 28 novembre prossimo.
Questo al fine di evidenziare cause o concause di carattere cardiopatologico che possano aver provocato un malore o un decesso. La Procura, come riporta il Gazzettino, ha affidato l’incarico a una luminare delle cosiddette «morti invisibili», che fino a una quindicina di anni fa rimanevano irrisolte, causate cioè da problemi cardiaci che sfuggono anche ai normali esami. Al momento per la strage ci sono tre indagati: l’ad della società di trasporti La Linea, Massimo Fiorese; Roberto Di Bussolo e Alberto Cesaro, rispettivamente dirigente e funzionario del settore Viabilità di terraferma del comune di Venezia. Tutti hanno nominato dei loro consulenti.
Dal 28 novembre, giorno in cui il cuore come detto verrà sezionato di nuovo, si avranno tre mesi di tempo per capire se a provocare la strage del 3 ottobre sia stato un malore del conducente.
Quella sera, l’autobus stava percorrendo il cavalcavia di Mestre quando all’improvviso è volato nel vuoto. Dalle immagini di un video ripreso nei momenti dello schianto alla «smart control room», sistema di monitoraggio integrato, del Comune di Venezia, si nota il bus affiancarne un altro, presumibilmente fermo al semaforo che immette a sinistra e che ha la freccia inserita.
Subito dopo l’autobus si piega e sprofonda di sotto. Il bilancio è terribile: 21 morti e 15 feriti. A causare la caduta, il varco di servizio che interrompe le barriere, e il fatto che il bus si sia infilato proprio lì. Sul perché la barriera fosse ancora in quello stato è in corso la consulenza della Procura. Consulenza che riprenderà giovedì quando l’ingegner Placido Migliorino, già ispettore per il Ponte Morandi, tornerà sul cavalcavia, prelevando anche dei campioni del guardrail.
In un mese intorno alla vicenda varie ipotesi sono emerse sulla causa dell’incidente. Chi ha puntato il dito contro lo stato della barriera di protezione. Chi contro lo stato del bus. Chi è convinto che il guidatore abbia avuto un malore.
E gli elementi che farebbero tendere per l’una o per l’altra causa un po’ alla volta parrebbero emergere.
In primis il fatto che la procura di Venezia avesse già da un anno molta della documentazione sul pessimo stato del cavalcavia della Vempa di Mestre. Gli uffici giudiziari avevano acquisito il materiale in via esplorativa dopo numerosi articoli apparsi sulla stampa che denunciavano il pessimo stato dell’infrastruttura.
Ma i lavori di manutenzione erano iniziati solo il 4 settembre scorso.
Poi il modello del bus, l’E-12, bus elettrico cinese, che nel giro di pochi giorni in Veneto è stato coinvolto in ben due incidenti. Il secondo a pochi giorni dalla tragedia, ha causato 13 feriti. E a giugno scorso, invece, un terzo bus, sempre della stessa società «La Linea», stavolta lungo la statale Romea, aveva tamponato un camion.
Dalla società hanno assicurato che le perizie accertarono che il funzionamento dei freni era regolare.
- A Roma un trentaduenne è gravissimo dopo essere stato ferito alla gola. Lo straniero, che aveva già minacciato i passeggeri di un bus, ha cercato di vendere delle rose all’uomo e poi ha estratto il coltello. Quando è stato arrestato, aveva ancora l’arma insanguinata.
- Firenze: tre tunisini in fuga dopo il furto di una moto piombano su un automobilista, uccidendolo.
Lo speciale contiene due articoli.
«Prendete una rosa!». I due giovani italiani declinano. Il ventinovenne marocchino insiste: «Comprate una rosa!». Poi la lama, il sangue, l’ospedale. Roma, via Michele di Lando, dintorni di piazza Bologna. Non certo un quartiere malfamato, piuttosto borghese e universitario. Zona di movida, tra l’altro. I ragazzi, difatti, sono davanti a un bar.
È l’una di notte. Chiacchierano serenamente. Arriva lui: un clandestino senza fissa dimora. Aveva già minacciato i passeggeri di un autobus. Poi, dopo essere sceso in piazzale delle Provincie, vaga fino a raggiungere quel bar. Felpa bianca con il cappuccio alzato: in mano una rosa gialla, in tasca un coltello. Si avvicina ai ragazzi. Il primo approccio va a vuoto. I due non comprano il fiore. Il marocchino comincia a blaterare, fingendo di chiedere informazioni: «Dov’è la stazione Termini?». È uno di quegli incontri molesti che possono ormai capitare a chiunque, soprattutto nelle grandi città.
I ragazzi capiscono. Tentano inutilmente di liberarsi dal fastidioso avventore. Si allontanano. Ma il fiorista per caso tira fuori la lama e accoltella uno dei due alla gola. Il trentaduenne è in un lago di sangue. «Sto morendo» mormora prima di accasciarsi. L’altro prova a inseguire l’aggressore che, però, s’è già dileguato. Carica allora l’amico ferito sull’auto e lo porta al pronto soccorso dell’Umberto I. Dopo due operazioni, è ricoverato in prognosi riservata. Rischia la vita. Le sue condizioni restano disperate.
La fuga del clandestino dura poco. Viene fermato nei paraggi, dai poliziotti delle volanti. Ha ancora il coltello sporco di sangue. Gli agenti lo disarmano e lo immobilizzano. Adesso è in carcere a Regina Coeli, accusato di tentato omicidio. Al momento si escludono collegamenti con il terrorismo islamico, anche se rimane oscuro il motivo dell’accoltellamento. Se non la delinquenza straniera, quella che sostanzia il dilagante senso di insicurezza, tracimata nella follia criminale.
Il marocchino con la tuta bianca è uno dei tantissimi clandestini denunciati o arrestati in Italia. Solo nel 2022, dettaglia l’ultimo report del Viminale, sono stati 124.771: il 15,4% del totale, italiani e stranieri compresi. I numeri, a differenza delle acute discettazioni buoniste, sono difficili da distorcere. E dunque: gli irregolari nel nostro Paese, secondo stime concordi, sono mezzo milione. E quelli che hanno compiuto reati quasi 125.000. Conclusione: un clandestino su quattro delinque. Più in generale: nonostante siano appena l’1% della popolazione, la loro incidenza sul totale dei reati è del 15,5%, che sale al 21,7% al Nord.
Lo scorso giugno la Direzione centrale della polizia criminale ha presentato un rapporto dal titolo eloquente: «Delittuosità straniera in Italia». Nel 2022, rivela, sono stati segnalati 277.171 stranieri: ovvero il 34,1% dei denunciati e arrestati, che al Nord salgono al 43,9. Una sostanziosa crescita, rispetto al 2021, di quasi due punti percentuali. Tra gli stranieri, a sua volta, il peso criminale degli irregolari è del 45%, che nelle Regioni settentrionali sfiora la metà. Va ancora peggio per alcuni reati: quelli che possono capitare nella vita quotidiana e minano la sicurezza degli abitanti, appunto. Come i furti: il 45,5% degli autori sono stranieri. Il dato si aggrava per le rapine: oltre il 47%, con il 57% di clandestini. Aumentano anche nello spaccio di stupefacenti: 38,8%, con gli irregolari che sfiorano il 64%. E le violenze sessuali: oltre il 43% dei denunciati non è italiano. Il rapporto del Viminale, quindi, conclude: «I dati confermano la sensazione di un’incidenza significativa degli autori stranieri nell’ambito dei presunti autori noti di delitti, con percentuali sempre superiori al 30% a fronte di una popolazione straniera residente pari a circa l’8,5% del totale». E tutti i dati, aggiunge lo studio del Dipartimento di sicurezza, «sono saliti dai 2 ai 4 punti percentuali nel biennio».
Numeri del Viminale alla mano, l’emergenza diventa allarme. Ieri, il marocchino con la tuta bianca. Da mesi, però, le cronache sono piene di scelleratezze criminali. Rovereto, agosto 2023: un nigeriano uccide la sessantunenne Iris Setti, dopo aver tentato di violentarla. È un quarantenne senza fissa dimora, con una lista di precedenti interminabile: danneggiamenti, lesioni, spaccio. Roma, un mese dopo: un marocchino senza permesso di soggiorno e con precedenti per rapina, accoltella a morte l’infermiera Rossella Nappini, colpevole di voler chiudere la loro relazione. Negli stessi giorni, a Foggia: un altro marocchino, espulso ma ancora in Italia, assassina la tabaccaia Francesca Marasco. Milano, due settimane più tardi: un tunisino senza permesso di soggiorno ammazza sui Navigli Yuri Urizio, un cameriere comasco. Strangolato per sette minuti. Senza nessun motivo. Come il ragazzo adesso in fin di vita nella capitale. Quasi sgozzato per aver rifiutato una rosa.
Tunisini rubano una moto a Firenze. Nella fuga uccidono un automobilista
Vendeva libri usati ai mercatini. Quei libri dalle pagine molto vissute, ingiallite, strappate, a volte unte. Ma la sua vita si è interrotta a metà strada quando, sul suo percorso, ha incrociato la folle corsa di una banda di tunisini a bordo di una moto rubata.
Lorenzo Brogioni, 43 anni, stava rientrando a casa lunedì notte. Era a bordo della sua Fiat Panda quando, a Firenze, è stato travolto da una moto che procedeva contromano a velocità folle. A bordo del motoveicolo c’erano addirittura tre persone. L’impatto tra i mezzi è stato così forte e così tremendo che la Panda su cui viaggiava Lorenzo è finita sul marciapiede opposto, ribaltandosi. Lorenzo Brogioni è rimasto imprigionato tra le lamiere. Nel giro di pochio momenti sono arrivati i sanitari del 118, la polizia municipale fiorentina e i vigili del fuoco. Ma ormai per Lorenzo, l’uomo che amava i libri dalle mille vite, non c’era più niente da fare.
I vigili del fuoco, per estrarre il corpo dell’uomo dall’abitacolo, hanno dovuto utilizzare i cuscini di sollevamento. E, una volta raggiunto il corpo, hanno potuto solo costatarne il decesso. Lorenzo è stato adagiato sull’asfalto, coperto da una trapunta termica. I ladri, invece, sono stati trasportati all’ospedale Careggi: uno in codice rosso, il secondo complice, invece, in codice giallo. Sono entrambi tunisini. Uno è minorenne. E non sono in pericolo di vita. La terza persona che si trovava a bordo della moto, invece, si è allontanata facendo perdere le proprie tracce ed è al momento ricercata dalla polizia municipale. Dalle prime ricostruzioni, non sarebbe stato il minorenne a guidare la moto nella sua folle corsa terminata contro la Panda. Gli abitanti della zona si sono svegliati di soprassalto a causa del tremendo boato provocato dall’impatto e un residente ha girato un video che riprende i momenti dei soccorsi.
Il legittimo proprietario della moto, una Bmw, avvertito nella notte dalla polizia municipale, ha raccontato di aver parcheggiato il mezzo in via degli Alfani, poco prima delle 22, e ha assicurato che era in possesso di entrambi i mazzi di chiavi del mezzo. Ma i ladri sarebbero riusciti a farlo partire lo stesso, probabilmente staccando e ricollegando i fili sotto il cruscotto.
Il sindaco di Firenze, Dario Nardella, intende costituirsi parte civile nel futuro processo: «Siamo sgomenti per l’accaduto, esprimiamo vicinanza alla famiglia della vittima per questa grave perdita», ha detto Nardella. «In giunta abbiamo parlato anche di questo tragico incidente e deciso che, in attesa di ulteriori elementi e di chiarire l’esatta ricostruzione, il Comune si costituirà parte civile in un eventuale processo contro i responsabili dell’incidente mortale. Questa è una ferita enorme per tutta la città».
«Il dolore arriva a vampate ed è incredibile», ha detto al Corriere Fiorentino, Letizia Brogioni, la sorella di Lorenzo. «La sua è una morte ingiusta». Già ingiusta. Perché avvenuta per mano di una banda di ladri tunisini a bordo di una moto rubata, mentre percorrevano una strada ad alta velocità e per giunta contromano.
Anche perché Lorenzo amava la vita. La filosofia. I libri. Molti lo ricordano col suo furgone pieno zeppo di volumi. «Faceva questo lavoro con molta passione, credeva nei valori della cultura. Chi, come noi, si occupa di vendere libri, fa davvero un lavoro molto diverso. Il nostro non è un mestiere, ma una passione: noi pensiamo che la cultura possa cambiare le persone e migliorarle», ha raccontato Pietro - anche lui venditore ambulante di libri - sempre alla stampa locale. Anche Lorenzo, che sfogliava libri dalla mattina alla sera, credeva che la cultura potesse cambiare le persone. Ogni giorno si svegliava e scriveva un nuovo capitolo della sua vita. Una banda di delinquenti ha scritto la parola fine.




