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2023-10-19
Sgozzato da un marocchino, è in fin di vita
«Prendete una rosa!». I due giovani italiani declinano. Il ventinovenne marocchino insiste: «Comprate una rosa!». Poi la lama, il sangue, l’ospedale. Roma, via Michele di Lando, dintorni di piazza Bologna. Non certo un quartiere malfamato, piuttosto borghese e universitario. Zona di movida, tra l’altro. I ragazzi, difatti, sono davanti a un bar.
È l’una di notte. Chiacchierano serenamente. Arriva lui: un clandestino senza fissa dimora. Aveva già minacciato i passeggeri di un autobus. Poi, dopo essere sceso in piazzale delle Provincie, vaga fino a raggiungere quel bar. Felpa bianca con il cappuccio alzato: in mano una rosa gialla, in tasca un coltello. Si avvicina ai ragazzi. Il primo approccio va a vuoto. I due non comprano il fiore. Il marocchino comincia a blaterare, fingendo di chiedere informazioni: «Dov’è la stazione Termini?». È uno di quegli incontri molesti che possono ormai capitare a chiunque, soprattutto nelle grandi città.
I ragazzi capiscono. Tentano inutilmente di liberarsi dal fastidioso avventore. Si allontanano. Ma il fiorista per caso tira fuori la lama e accoltella uno dei due alla gola. Il trentaduenne è in un lago di sangue. «Sto morendo» mormora prima di accasciarsi. L’altro prova a inseguire l’aggressore che, però, s’è già dileguato. Carica allora l’amico ferito sull’auto e lo porta al pronto soccorso dell’Umberto I. Dopo due operazioni, è ricoverato in prognosi riservata. Rischia la vita. Le sue condizioni restano disperate.
La fuga del clandestino dura poco. Viene fermato nei paraggi, dai poliziotti delle volanti. Ha ancora il coltello sporco di sangue. Gli agenti lo disarmano e lo immobilizzano. Adesso è in carcere a Regina Coeli, accusato di tentato omicidio. Al momento si escludono collegamenti con il terrorismo islamico, anche se rimane oscuro il motivo dell’accoltellamento. Se non la delinquenza straniera, quella che sostanzia il dilagante senso di insicurezza, tracimata nella follia criminale.
Il marocchino con la tuta bianca è uno dei tantissimi clandestini denunciati o arrestati in Italia. Solo nel 2022, dettaglia l’ultimo report del Viminale, sono stati 124.771: il 15,4% del totale, italiani e stranieri compresi. I numeri, a differenza delle acute discettazioni buoniste, sono difficili da distorcere. E dunque: gli irregolari nel nostro Paese, secondo stime concordi, sono mezzo milione. E quelli che hanno compiuto reati quasi 125.000. Conclusione: un clandestino su quattro delinque. Più in generale: nonostante siano appena l’1% della popolazione, la loro incidenza sul totale dei reati è del 15,5%, che sale al 21,7% al Nord.
Lo scorso giugno la Direzione centrale della polizia criminale ha presentato un rapporto dal titolo eloquente: «Delittuosità straniera in Italia». Nel 2022, rivela, sono stati segnalati 277.171 stranieri: ovvero il 34,1% dei denunciati e arrestati, che al Nord salgono al 43,9. Una sostanziosa crescita, rispetto al 2021, di quasi due punti percentuali. Tra gli stranieri, a sua volta, il peso criminale degli irregolari è del 45%, che nelle Regioni settentrionali sfiora la metà. Va ancora peggio per alcuni reati: quelli che possono capitare nella vita quotidiana e minano la sicurezza degli abitanti, appunto. Come i furti: il 45,5% degli autori sono stranieri. Il dato si aggrava per le rapine: oltre il 47%, con il 57% di clandestini. Aumentano anche nello spaccio di stupefacenti: 38,8%, con gli irregolari che sfiorano il 64%. E le violenze sessuali: oltre il 43% dei denunciati non è italiano. Il rapporto del Viminale, quindi, conclude: «I dati confermano la sensazione di un’incidenza significativa degli autori stranieri nell’ambito dei presunti autori noti di delitti, con percentuali sempre superiori al 30% a fronte di una popolazione straniera residente pari a circa l’8,5% del totale». E tutti i dati, aggiunge lo studio del Dipartimento di sicurezza, «sono saliti dai 2 ai 4 punti percentuali nel biennio».
Numeri del Viminale alla mano, l’emergenza diventa allarme. Ieri, il marocchino con la tuta bianca. Da mesi, però, le cronache sono piene di scelleratezze criminali. Rovereto, agosto 2023: un nigeriano uccide la sessantunenne Iris Setti, dopo aver tentato di violentarla. È un quarantenne senza fissa dimora, con una lista di precedenti interminabile: danneggiamenti, lesioni, spaccio. Roma, un mese dopo: un marocchino senza permesso di soggiorno e con precedenti per rapina, accoltella a morte l’infermiera Rossella Nappini, colpevole di voler chiudere la loro relazione. Negli stessi giorni, a Foggia: un altro marocchino, espulso ma ancora in Italia, assassina la tabaccaia Francesca Marasco. Milano, due settimane più tardi: un tunisino senza permesso di soggiorno ammazza sui Navigli Yuri Urizio, un cameriere comasco. Strangolato per sette minuti. Senza nessun motivo. Come il ragazzo adesso in fin di vita nella capitale. Quasi sgozzato per aver rifiutato una rosa.
Tunisini rubano una moto a Firenze. Nella fuga uccidono un automobilista
Vendeva libri usati ai mercatini. Quei libri dalle pagine molto vissute, ingiallite, strappate, a volte unte. Ma la sua vita si è interrotta a metà strada quando, sul suo percorso, ha incrociato la folle corsa di una banda di tunisini a bordo di una moto rubata.
Lorenzo Brogioni, 43 anni, stava rientrando a casa lunedì notte. Era a bordo della sua Fiat Panda quando, a Firenze, è stato travolto da una moto che procedeva contromano a velocità folle. A bordo del motoveicolo c’erano addirittura tre persone. L’impatto tra i mezzi è stato così forte e così tremendo che la Panda su cui viaggiava Lorenzo è finita sul marciapiede opposto, ribaltandosi. Lorenzo Brogioni è rimasto imprigionato tra le lamiere. Nel giro di pochio momenti sono arrivati i sanitari del 118, la polizia municipale fiorentina e i vigili del fuoco. Ma ormai per Lorenzo, l’uomo che amava i libri dalle mille vite, non c’era più niente da fare.
I vigili del fuoco, per estrarre il corpo dell’uomo dall’abitacolo, hanno dovuto utilizzare i cuscini di sollevamento. E, una volta raggiunto il corpo, hanno potuto solo costatarne il decesso. Lorenzo è stato adagiato sull’asfalto, coperto da una trapunta termica. I ladri, invece, sono stati trasportati all’ospedale Careggi: uno in codice rosso, il secondo complice, invece, in codice giallo. Sono entrambi tunisini. Uno è minorenne. E non sono in pericolo di vita. La terza persona che si trovava a bordo della moto, invece, si è allontanata facendo perdere le proprie tracce ed è al momento ricercata dalla polizia municipale. Dalle prime ricostruzioni, non sarebbe stato il minorenne a guidare la moto nella sua folle corsa terminata contro la Panda. Gli abitanti della zona si sono svegliati di soprassalto a causa del tremendo boato provocato dall’impatto e un residente ha girato un video che riprende i momenti dei soccorsi.
Il legittimo proprietario della moto, una Bmw, avvertito nella notte dalla polizia municipale, ha raccontato di aver parcheggiato il mezzo in via degli Alfani, poco prima delle 22, e ha assicurato che era in possesso di entrambi i mazzi di chiavi del mezzo. Ma i ladri sarebbero riusciti a farlo partire lo stesso, probabilmente staccando e ricollegando i fili sotto il cruscotto.
Il sindaco di Firenze, Dario Nardella, intende costituirsi parte civile nel futuro processo: «Siamo sgomenti per l’accaduto, esprimiamo vicinanza alla famiglia della vittima per questa grave perdita», ha detto Nardella. «In giunta abbiamo parlato anche di questo tragico incidente e deciso che, in attesa di ulteriori elementi e di chiarire l’esatta ricostruzione, il Comune si costituirà parte civile in un eventuale processo contro i responsabili dell’incidente mortale. Questa è una ferita enorme per tutta la città».
«Il dolore arriva a vampate ed è incredibile», ha detto al Corriere Fiorentino, Letizia Brogioni, la sorella di Lorenzo. «La sua è una morte ingiusta». Già ingiusta. Perché avvenuta per mano di una banda di ladri tunisini a bordo di una moto rubata, mentre percorrevano una strada ad alta velocità e per giunta contromano.
Anche perché Lorenzo amava la vita. La filosofia. I libri. Molti lo ricordano col suo furgone pieno zeppo di volumi. «Faceva questo lavoro con molta passione, credeva nei valori della cultura. Chi, come noi, si occupa di vendere libri, fa davvero un lavoro molto diverso. Il nostro non è un mestiere, ma una passione: noi pensiamo che la cultura possa cambiare le persone e migliorarle», ha raccontato Pietro - anche lui venditore ambulante di libri - sempre alla stampa locale. Anche Lorenzo, che sfogliava libri dalla mattina alla sera, credeva che la cultura potesse cambiare le persone. Ogni giorno si svegliava e scriveva un nuovo capitolo della sua vita. Una banda di delinquenti ha scritto la parola fine.
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A Roma un trentaduenne è gravissimo dopo essere stato ferito alla gola. Lo straniero, che aveva già minacciato i passeggeri di un bus, ha cercato di vendere delle rose all’uomo e poi ha estratto il coltello. Quando è stato arrestato, aveva ancora l’arma insanguinata.Firenze: tre tunisini in fuga dopo il furto di una moto piombano su un automobilista, uccidendolo.Lo speciale contiene due articoli.«Prendete una rosa!». I due giovani italiani declinano. Il ventinovenne marocchino insiste: «Comprate una rosa!». Poi la lama, il sangue, l’ospedale. Roma, via Michele di Lando, dintorni di piazza Bologna. Non certo un quartiere malfamato, piuttosto borghese e universitario. Zona di movida, tra l’altro. I ragazzi, difatti, sono davanti a un bar.È l’una di notte. Chiacchierano serenamente. Arriva lui: un clandestino senza fissa dimora. Aveva già minacciato i passeggeri di un autobus. Poi, dopo essere sceso in piazzale delle Provincie, vaga fino a raggiungere quel bar. Felpa bianca con il cappuccio alzato: in mano una rosa gialla, in tasca un coltello. Si avvicina ai ragazzi. Il primo approccio va a vuoto. I due non comprano il fiore. Il marocchino comincia a blaterare, fingendo di chiedere informazioni: «Dov’è la stazione Termini?». È uno di quegli incontri molesti che possono ormai capitare a chiunque, soprattutto nelle grandi città.I ragazzi capiscono. Tentano inutilmente di liberarsi dal fastidioso avventore. Si allontanano. Ma il fiorista per caso tira fuori la lama e accoltella uno dei due alla gola. Il trentaduenne è in un lago di sangue. «Sto morendo» mormora prima di accasciarsi. L’altro prova a inseguire l’aggressore che, però, s’è già dileguato. Carica allora l’amico ferito sull’auto e lo porta al pronto soccorso dell’Umberto I. Dopo due operazioni, è ricoverato in prognosi riservata. Rischia la vita. Le sue condizioni restano disperate.La fuga del clandestino dura poco. Viene fermato nei paraggi, dai poliziotti delle volanti. Ha ancora il coltello sporco di sangue. Gli agenti lo disarmano e lo immobilizzano. Adesso è in carcere a Regina Coeli, accusato di tentato omicidio. Al momento si escludono collegamenti con il terrorismo islamico, anche se rimane oscuro il motivo dell’accoltellamento. Se non la delinquenza straniera, quella che sostanzia il dilagante senso di insicurezza, tracimata nella follia criminale.Il marocchino con la tuta bianca è uno dei tantissimi clandestini denunciati o arrestati in Italia. Solo nel 2022, dettaglia l’ultimo report del Viminale, sono stati 124.771: il 15,4% del totale, italiani e stranieri compresi. I numeri, a differenza delle acute discettazioni buoniste, sono difficili da distorcere. E dunque: gli irregolari nel nostro Paese, secondo stime concordi, sono mezzo milione. E quelli che hanno compiuto reati quasi 125.000. Conclusione: un clandestino su quattro delinque. Più in generale: nonostante siano appena l’1% della popolazione, la loro incidenza sul totale dei reati è del 15,5%, che sale al 21,7% al Nord.Lo scorso giugno la Direzione centrale della polizia criminale ha presentato un rapporto dal titolo eloquente: «Delittuosità straniera in Italia». Nel 2022, rivela, sono stati segnalati 277.171 stranieri: ovvero il 34,1% dei denunciati e arrestati, che al Nord salgono al 43,9. Una sostanziosa crescita, rispetto al 2021, di quasi due punti percentuali. Tra gli stranieri, a sua volta, il peso criminale degli irregolari è del 45%, che nelle Regioni settentrionali sfiora la metà. Va ancora peggio per alcuni reati: quelli che possono capitare nella vita quotidiana e minano la sicurezza degli abitanti, appunto. Come i furti: il 45,5% degli autori sono stranieri. Il dato si aggrava per le rapine: oltre il 47%, con il 57% di clandestini. Aumentano anche nello spaccio di stupefacenti: 38,8%, con gli irregolari che sfiorano il 64%. E le violenze sessuali: oltre il 43% dei denunciati non è italiano. Il rapporto del Viminale, quindi, conclude: «I dati confermano la sensazione di un’incidenza significativa degli autori stranieri nell’ambito dei presunti autori noti di delitti, con percentuali sempre superiori al 30% a fronte di una popolazione straniera residente pari a circa l’8,5% del totale». E tutti i dati, aggiunge lo studio del Dipartimento di sicurezza, «sono saliti dai 2 ai 4 punti percentuali nel biennio».Numeri del Viminale alla mano, l’emergenza diventa allarme. Ieri, il marocchino con la tuta bianca. Da mesi, però, le cronache sono piene di scelleratezze criminali. Rovereto, agosto 2023: un nigeriano uccide la sessantunenne Iris Setti, dopo aver tentato di violentarla. È un quarantenne senza fissa dimora, con una lista di precedenti interminabile: danneggiamenti, lesioni, spaccio. Roma, un mese dopo: un marocchino senza permesso di soggiorno e con precedenti per rapina, accoltella a morte l’infermiera Rossella Nappini, colpevole di voler chiudere la loro relazione. Negli stessi giorni, a Foggia: un altro marocchino, espulso ma ancora in Italia, assassina la tabaccaia Francesca Marasco. Milano, due settimane più tardi: un tunisino senza permesso di soggiorno ammazza sui Navigli Yuri Urizio, un cameriere comasco. Strangolato per sette minuti. Senza nessun motivo. Come il ragazzo adesso in fin di vita nella capitale. 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A bordo del motoveicolo c’erano addirittura tre persone. L’impatto tra i mezzi è stato così forte e così tremendo che la Panda su cui viaggiava Lorenzo è finita sul marciapiede opposto, ribaltandosi. Lorenzo Brogioni è rimasto imprigionato tra le lamiere. Nel giro di pochio momenti sono arrivati i sanitari del 118, la polizia municipale fiorentina e i vigili del fuoco. Ma ormai per Lorenzo, l’uomo che amava i libri dalle mille vite, non c’era più niente da fare. I vigili del fuoco, per estrarre il corpo dell’uomo dall’abitacolo, hanno dovuto utilizzare i cuscini di sollevamento. E, una volta raggiunto il corpo, hanno potuto solo costatarne il decesso. Lorenzo è stato adagiato sull’asfalto, coperto da una trapunta termica. I ladri, invece, sono stati trasportati all’ospedale Careggi: uno in codice rosso, il secondo complice, invece, in codice giallo. Sono entrambi tunisini. Uno è minorenne. E non sono in pericolo di vita. La terza persona che si trovava a bordo della moto, invece, si è allontanata facendo perdere le proprie tracce ed è al momento ricercata dalla polizia municipale. Dalle prime ricostruzioni, non sarebbe stato il minorenne a guidare la moto nella sua folle corsa terminata contro la Panda. Gli abitanti della zona si sono svegliati di soprassalto a causa del tremendo boato provocato dall’impatto e un residente ha girato un video che riprende i momenti dei soccorsi. Il legittimo proprietario della moto, una Bmw, avvertito nella notte dalla polizia municipale, ha raccontato di aver parcheggiato il mezzo in via degli Alfani, poco prima delle 22, e ha assicurato che era in possesso di entrambi i mazzi di chiavi del mezzo. Ma i ladri sarebbero riusciti a farlo partire lo stesso, probabilmente staccando e ricollegando i fili sotto il cruscotto. Il sindaco di Firenze, Dario Nardella, intende costituirsi parte civile nel futuro processo: «Siamo sgomenti per l’accaduto, esprimiamo vicinanza alla famiglia della vittima per questa grave perdita», ha detto Nardella. «In giunta abbiamo parlato anche di questo tragico incidente e deciso che, in attesa di ulteriori elementi e di chiarire l’esatta ricostruzione, il Comune si costituirà parte civile in un eventuale processo contro i responsabili dell’incidente mortale. Questa è una ferita enorme per tutta la città». «Il dolore arriva a vampate ed è incredibile», ha detto al Corriere Fiorentino, Letizia Brogioni, la sorella di Lorenzo. «La sua è una morte ingiusta». Già ingiusta. Perché avvenuta per mano di una banda di ladri tunisini a bordo di una moto rubata, mentre percorrevano una strada ad alta velocità e per giunta contromano. Anche perché Lorenzo amava la vita. La filosofia. I libri. Molti lo ricordano col suo furgone pieno zeppo di volumi. «Faceva questo lavoro con molta passione, credeva nei valori della cultura. Chi, come noi, si occupa di vendere libri, fa davvero un lavoro molto diverso. Il nostro non è un mestiere, ma una passione: noi pensiamo che la cultura possa cambiare le persone e migliorarle», ha raccontato Pietro - anche lui venditore ambulante di libri - sempre alla stampa locale. Anche Lorenzo, che sfogliava libri dalla mattina alla sera, credeva che la cultura potesse cambiare le persone. Ogni giorno si svegliava e scriveva un nuovo capitolo della sua vita. Una banda di delinquenti ha scritto la parola fine.
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Prima di essere lapidati da musicofili inflessibili o da fanatici ammiratori di Beethoven (lo siamo anche noi) lasciamo allo stesso Ludwig Vchean l’ultima parola sull’argomento: «Solo i puri di cuore», affermò il genio tedesco, «possono cucinare una buona zuppa». Capito? Il sommo compositore a tavola amava i piatti semplici e disprezzava quelli troppo complicati. Adorava la zuppa, soprattutto quella di pane e uova: era il suo piatto preferito insieme ai maccheroni con il formaggio. Era sordo, ma le papille gustative gli funzionavano alla grande.
Una vera e propria zuppa di verdure musicale la serve al pubblico un gruppo austriaco formato da musicisti, designer, scenografi, autori. Si chiama The Vegetable Orchestra, che usa le verdure come strumenti musicali: una carota intagliata in una certa maniera diventa un flauto, la zucca uno strumento di percussione, le melanzane diventano dopo un sapiente lavoro di intaglio delle nacchere, le zucchine strumenti a fiato e così via. Con questi strumenti suonano pezzi di jazz o di dub, un genere musicale che deriva dal reggae giamaicano, e altra musica. Finito il concerto, dopo gli applausi del pubblico stupito da tanta musica «verde», i musicisti si trasformano in cuochi, gettano gli strumenti in pentoloni e preparano una bella zuppa per il pubblico dopo aver lavato gli strumenti, soprattutto quelli a fiato.
La zuppa vanta una storia vecchia come l’homo sapiens. Fu uno dei primi piatti elaborati dai nostri cavernicoli progenitori centinaia di migliaia di anni fa. Gli studiosi del periodo paleolitico ci documentano che la scoperta dell’acqua calda e il suo impiego per cuocere verdure e altri cibi avvenne nell’età della pietra antica, in incavi di roccia pieni d’acqua nella quale gli uomini primitivi tuffavano pietre roventi per farla bollire. Fu così che nacquero i primi minestroni. La parola «zuppa» arriverà molti millenni dopo, ma sempre in tempi molto antichi rispetto a noi, mutuata dal termine germanico suppa che definiva la fetta di pane inzuppata. Il pane era nell’antichità il cucchiaio dei poveri, le dita della mano la forchetta. La «posateria» delle classi più umili era tutta lì. Una sorta di brodaglia nera molto spartana chiamata melas zomos, nera zuppa, fatta con sangue di porco, budella e vino era la zuppa dei duri soldati di Sparta. A loro, che non cercavano mollezze, piaceva così, brutta da vedere ma semplice e nutriente, adatta a sostenere il fisico durante le campagne militari. Spostandoci in altre parti dell’antica penisola ellenica troviamo una cucina meno rigorosa, ma sempre con un menu nel quale zuppe e piatti brodosi a base di verdure, cereali, erbe spontanee e legumi vari, abbondavano.
Cotture e metodi a parte, quelle preparazioni sono le bis-bis-bisnonne delle zuppe che mangiamo noi oggi fatte, come allora, con cereali tipo orzo e farro, o con legumi, ceci, lenticchie, fave. Borlotti e cannellini erano al di là dell’Atlantico che aspettavano di essere scoperti. Il Phaseolus vulgaris arriverà dopo i viaggi di Colombo e degli altri viaggiatori su caravelle dirette verso il Nuovo mondo. Dalla Grecia a Roma le zuppe sostanzialmente non cambiano: erano piatti che facevano parte della dieta quotidiana dei Romani. Fonti di proteine e nutrienti, erano il comfort food delle classi plebee e dei contadini. Tra le altre zuppe, i legionari amavano quella fatta con pane, aglio, olio e aceto. Furono loro a introdurla in Spagna dove si evolverà fino a diventare il moderno gazpacho, zuppa fredda che si arricchì dal Cinquecento in poi con il pomodoro e i peperoni venuti dall’America.
Una zuppa leggendaria è la soupe à la pavoise, la zuppa pavese, che ha trovato posto nei libri di storia gastronomica dove si racconta di Francesco I di Valois, re di Francia sconfitto e fatto prigioniero dagli spagnoli di Carlo V nella battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525. L’accasciato François du grand nez, come lo chiamavano i suoi sudditi per via del nasone che gli troneggiava sopra la bocca, fu portato dai nemici vincitori in un cascinale di campagna dove trovò ristoro e consolazione nella povera zuppa preparatogli dalla contadina del casolare che mise in una rozza scodella due croste di pane raffermo sopra le quali scocciò un uovo versando poi sul tutto il brodo bollente di erbe spontanee che gorgogliava quotidianamente nella marmitta sul camino. Francesco I, con il morale a terra per la sconfitta («Tutto è perduto fuorché l’onore»), apprezzò talmente quella zuppa villana che quando ritornò sul trono convocò i cuochi di corte insegnando loro la ricetta della zuppa pavese che fu perfezionata dagli chef i quali aggiunsero altri ingredienti ricchi elevandola da contadina che era ad aristocratica.
C’è da dire che la zuppa in Francia troverà il successo che merita grazie a una figura più leggendaria che reale, tale Monsieur Boulanger marchand de bouillon, mercante di brodo. Siamo a Parigi 25 anni prima della presa della Bastiglia e dello scoppio della rivoluzione. Il mitico Boulanger vende zuppe restaurateurs, restauratrici, che sistemano lo stomaco dei clienti cagionevoli rimettendoli in salute in un ambiente tutto sommato comodo con i tavoli accoglienti. Nasce da queste zuppe il restaurant, il ristorante che prende il nome dal ristoro, il conforto, che regalano le zuppe. Dando ragione in questo all’antico e saggio proverbio italiano regalatoci dalla civiltà contadina fin dal Medioevo: «Sette cose fa la zuppa: cava la fame e la sete tutta, empie il ventre, netta il dente, fa dormire, fa smaltire e la guancia fa arrossire».
Il più alto riconoscimento a questo piatto umile ma tanto utile alla sopravvivenza della povera umanità, lo firmano, tra gli altri, alcuni grandi artisti moderni: Paul Cézanne con la sua Natura morta con zuppiera (1884), Pablo Picasso che affronta il tema della povertà ne La zuppa, opera del periodo blu che mostra una vecchia paurosamente magra che porge una scodella di zuppa a una bambina, ma soprattutto Andy Warhol. Il re della Pop art che confessò di aver mangiato a pranzo per vent’anni i barattoloni di zuppa Campbell’s rivoluzionò i concetti di natura morta e di bellezza immortalando le stesse lattine zuppesche in una serie di opere seriali la più importante delle quali è la Campbell’s Soup Cans che presenta tutta la produzione di zuppe della Cambell’s: al pomodoro, agli asparagi, alla carne, al pollo, ai fagioli neri, e così via per 200 volte. Paradossalmente a dare importanza alla zuppa nell’arte sono stati anche le attiviste per il clima che il 28 gennaio dello scorso anno lanciarono la zuppa contro la Gioconda di Leonardo, ben protetta dal vetro antiguai, invocando un’agricoltura mondiale sana.
È profondamente ingiusto nei confronti della zuppa il detto «Se non è zuppa è pan bagnato». Come sopra detto la zuppa è salvifica, ristoratrice, ristoro e medicina attraverso i secoli dell’umanità misera. E poi la famiglia zuppesca è molto varia. Oltre alla zuppa-madre ci sono la minestra, il minestrone, la crema, la vellutata, il passato. Non sono sinonimi, ogni piatto ha la sua caratteristica che riguarda gli ingredienti e le tecniche di preparazione per le quali rimandiamo ai libri di cucina.
Concludiamo con la mistica zen. Un allievo chiede al maestro: «Cosa devo fare per raggiungere l’Illuminazione?». Gli risponde il maestro: «Hai mangiato la zuppa?» «Sì». «Allora lava la scodella».
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Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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