2024-07-22
«I giudici sportivi usano l’antidoping come arma politica»
L’allenatore di Alex Schwazer, Sandro Donati: «Non era la prima volta che colpivano miei atleti con finte accuse. Chi vuole trasparenza è boicottato».Alex Schwazer ha detto addio all’atletica, con una gara dopo 8 anni di squalifica. Lei, Sandro Donati, lo allenò per il suo ritorno dopo l’ammissione del doping e prima del secondo presunto caso di positività. Ha vissuto al suo fianco gli anni travagliati di ricorsi in tribunale. Che cosa ha provato a vederlo marciare per l’ultima volta?«Alex ha scelto di condividere quest’ultima gara con le persone che gli sono state vicine in questo terribile periodo. È stata la festa di un ex ragazzo ormai uomo al quale sono stati rapinati anni di attività atletica di alto livello. Nella sua sostanzialità di uomo di montagna ha voluto che i figli lo vedessero gareggiare. Ci tenevo a vivere con lui questo evento. Il messaggio è stato chiaro: pur dopo anni di persecuzione, Alex Schwazer è vivo, non lo hanno ucciso».Lo ha scritto nel libro I signori del doping (Rizzoli): questa sua storia è «dolorosa e allucinante». «E per me è iniziata ben prima della vicenda di Schwazer. Lottare contro il doping mi ha tagliato fuori fin dal 1987. Non voglio però che sia il racconto di una via crucis. Pure io sono vivo, e continuo ad allenare atleti, perché è questo il mio mestiere e la mia passione».Hanno gettato parecchio fango sulla sua credibilità. «Allenare atleti è da sempre ciò che più di tutto mi piace fare. Con la massima trasparenza. Ma la mia storia, la nostra storia, dice con evidenza che non si deve e non si può lasciare solo chi lotta contro l’ingiustizia. Ed è il racconto di una cupola di potere e di corruzione che nessuno vuole combattere».Il giudice che ha assolto Schwazer per non aver commesso il fatto ha scritto nella sentenza che i suoi campioni di urina - «con alto grado di credibilità razionale» - sono stati alterati per farli risultare positivi e per ottenere la squalifica e il discredito dell’atleta come pure dell’allenatore. Ovvero lei.«La sentenza del gip di Bolzano, Walter Pelino, è stata la dimostrazione di quel che dico da anni. Purtroppo va riconosciuto che la giustizia ordinaria garantisce maggior terzietà e un confronto paritario tra le parti». La giustizia sportiva, invece?«Limita in ogni modo le tue possibilità e decapita l’approfondimento dietro la vanteria della sua celerità. Fin dal 2015, quando ho cominciato ad allenare Schwazer, mi è stato chiaro che ci sarebbe stato un terremoto. Io che venivo considerato da decenni ormai un simbolo della lotta contro il doping, che abbandonavo a sorpresa il mio ruolo per “sporcarmi” le mani con un dopato che tra l’altro fui io stesso a segnalare quando ebbi il dubbio, nel luglio 2012, che qualcosa non andava».Alex era un talento. «Fin dall’inizio del nostro rapporto i miei oppositori storici, alleati con coloro che temevano la potenza atletica di Alex, hanno aizzato l’opinione pubblica contro di noi, definendo la nostra collaborazione come un’operazione di marketing. Sì, un marketing per cui Alex in 15 mesi a Roma si è pagato albergo, cibo, controlli antidoping ufficiali e decine di controlli a sorpresa gestiti da un ematologo e da un chimico di due ospedali pubblici di Roma. Quarantadue controlli in 15 mesi».Lei ha sempre risposto alle accuse documentando tutto, con testimonianze di allenatori, atleti, esperti.«È sempre stata una mia esigenza di trasparenza e, nel contempo, l’unico modo difendermi. Ma non auguro a nessuno di combattere contro le istituzioni deviate. Non c’è cosa peggiore. Anche le inchieste penali in alcuni casi si arenano, o durano anni e cadono in prescrizione. Come nel 2003: il Tribunale di Ferrara aveva ritenuto Conconi e due suoi collaboratori colpevoli di reati legati al doping, ma la prescrizione fece sì che non ci fossero conseguenze».All’epoca era dipendente del Coni.«Lo sono stato dal 1974 al 2006, sì. La mia avversione al doping mi aveva già causato guai e isolamento, ma negli anni Novanta fui nominato da Arrigo Gattai dirigente responsabile del Dipartimento di ricerca e sperimentazione».In quel ruolo, il suo primo esposto alla Procura. E pochi anni dopo una sua atleta - Anna Maria di Terlizzi - risultò positiva ai controlli.«Mi vergognerò per il resto della mia vita di non averle creduto fin da subito. Era una vendetta contro di me: la sua squalifica fu annullata. Tutto grazie a un giovane tecnico del laboratorio antidoping di Roma che - terrorizzato, ma onesto fino in fondo - mi avvisò che intorno a quelle provette stava avvenendo qualcosa di molto strano».Risultò poi una falsa positività orchestrata contro di lei.«Sì e le faccio presente che il direttore scientifico di quel laboratorio risultò poi iscritto alla loggia massonica della P2 di Licio Gelli. È impossibile raccontarle tutto, le cito solo quel che mi disse il segretario della federazione medico sportiva, da cui dipendeva il laboratorio antidoping, quando si svolse l’udienza per decidere un mio rinvio a giudizio. Avevo dichiarato che il laboratorio era deviato e svolgeva finte analisi antidoping. Mi scuserà per la volgarità, ma me lo sentii dire in faccia: “Oggi io ti rompo il culo”. Produssi prove inoppugnabili e mi implorarono di accettare la remissione della querela».Qual è il peccato originale che rende marcio il sistema?«La politica ha attribuito agli organismi sportivi nazionali e internazionali il compito di regolare il contrasto al doping con gli atleti di alta performance. Che sono però il cuore e la fonte economica - con i diritti televisivi, le sponsorizzazioni e i finanziamenti pubblici - degli organismi sportivi stessi».In conflitto di interessi, quindi?«Innegabile. I tanti scandali emersi hanno rivelato come il sistema sportivo internazionale ha più volte agito per avere l’esclusiva dei controlli e quindi la disponibilità assoluta di un’arma letale con la quale, secondo le convenienze politiche, scoprire o coprire gli atleti dopati. Ci sono le inchieste della magistratura a dimostrarlo. Per fare solo un esempio, lo scandalo che ha rivelato “il doping di Stato” in Germania e l’altro che ha coinvolto quasi mille atleti russi. A capo del sistema, i pezzi grossi dell’atletica mondiale, l’allora presidente senegalese Lamine Diack e il capo dell’antidoping Gabriel Dollè».Stanno per iniziare le Olimpiadi e dopo i casi di Cherono e Frère, anche il Brasile ha avuto il suo episodio di doping accertato: il maratoneta Do Nascimento, in lizza per una medaglia.«Non conosco abbastanza da vicino questi casi, ma so con certezza che occorre fare la massima attenzione: il sistema punta i riflettori su qualche “pesce” pescato ogni tanto, cercando di prospettare al pubblico il fenomeno come qualcosa che riguarda i singoli atleti».Non è così?«A volte sì, ma nella maggior parte dei casi gli atleti sono le vittime ultime del sistema. Rischiano la loro salute, pregiudicano le competizioni. Le autorità sportive gestiscono l’antidoping e le sue regole con toni da padretenerno e con finalità di autotutela. Le garanzie per gli atleti sono pressoché nulle: le sembra normale che i controllori, raccolta l’urina e suddivisa in due flaconi, se li portano via e nelle mani dell’atleta non resta nulla?».Dovrebbe quindi essercene un terzo?«Se depositato in un laboratorio neutro consentirebbe di verificare la corrispondenza tra i campioni. Chi, in un sistema così a rischio di corruzione, può assicurare che gli addetti ai 25 laboratori internazionali della Wada siano tutti onesti? Nell’ordinanza su Schwazer il giudice disse che era più tutelato il latte di un allevatore della Brianza controllato dai Nas rispetto ai campioni degli atleti nei controlli antidoping».Al Tour de France si parla di «rebreathing». Inalare monossido di carbonio porterebbe all’alterazione della soglia aerobica e un aumento delle prestazioni. Le tecniche si sono evolute?«La farmacopea è sempre più sofisticata. Gli entourage di molti atleti di alto livello si buttano su tutto quello che promette un risultato. C’è chi prende antitumorali, per esempio, ed altri farmaci “pesanti” utilizzati per curare gravi patologie. Ma c’è un abuso anche di farmaci più “leggeri” : non è strano che gli asmatici, nello sport, siano di 7-8 volte superiori alla popolazione normale? Un sistema compiacente che concede facili esenzioni».Tutti gli sport sono a rischio?«Lo sono in particolare le specialità in cui conta maggiormente la forza muscolare o la resistenza. Il doping incide meno quando entrano in gioco le capacità coordinative. Ma capirà che pure nella scherma più potenti si è, meglio è».Pensa sia possibile che ci siano anche calciatori dopati?«Le citerò solo il caso di Diego Armando Maradona. L’ex pm Luigi Bobbio ha raccontato come nonostante risultasse sempre positivo ai controlli dell’autorità giudiziaria per la cocaina durante la settimana, alla domenica invece l’esito dei controlli antidoping sportivi era sempre negativo. Il sistema vuole mostrarsi imparziale rispetto al calciatore che guadagna milioni di euro e allo sconosciuto sollevatore di pesi.Ma quando mai?».Lei cosa proporrebbe?«Un sistema più semplice e meno ipocrita: monitoraggi continui sul sangue degli atleti e fermi dell’attività fino a che i valori non tornano positivi potrebbe consentire una più efficace prevenzione del doping. Piuttosto che puntare su sanzioni pesantissime che rovinano la carriera dell’atleta e quindi mettono in atto i sistemi di difesa e corruzione, agiamo con la dissuasione e illuminando zone d’ombra. È un’idea, potrebbero anche essercene di migliori, l’importante è che qualcuno cominci a capire quanto è malato il sistema e a discutere di come cambiarlo davvero».
Jose Mourinho (Getty Images)