2024-07-08
Giorgetto Giugiaro: «Ormai della mia Panda è rimasto soltanto il nome»
Il maestro del design: «L’Italia dell’auto è morta, eppure un tempo i tedeschi avevano per la Fiat un’ammirazione che mi inorgogliva. Adesso dipingo tele a soggetto sacro».Il suo nome è sinonimo di design. Di automobili che hanno fatto viaggiare milioni di Italiani (dalla Golf alla Uno passando per l’intramontabile Panda). Di una creatività tutta italiana che oggi, forse, non c’è più. Lui è Giorgetto Giugiaro, prossimo a compiere 86 anni tra meno di un mese. Ha fondato e guidato per anni la Italdesign, ceduta completamente a Volkswagen nel 2015. Oggi non ha voglia di fermarsi e guida Gfg style, società di consulenza stilistica per automobili costituita insieme al figlio Fabrizio; Giugiaro architettura, che si occupa di progettazione architettonica, urbanistica e di interior, boat e product design; e Gfg Rail, dedicata alla progettazione nell’ambito dell’industria del materiale rotabile. Insomma, il design è ancora la vita di Giugiaro. Ma nell’intervista che ha concesso alla Verità si parte da un altro Giugiaro: l’artista.Il suo nome è indiscutibilmente legato al mondo del design e a quello dell’auto. Pochi giorni fa, però, ha inaugurato il suo Battesimo di Gesù nella chiesa di San Giovanni, nel Borgo Maggiore della città natale di Garessio. Una passione, quella per l’arte figurativa, che l’accompagna fin da ragazzo. Ce la può raccontare?«Per me è un divertimento. Sono nato in quel contesto, in quel paesino, dove c’erano più chiese che palazzi. Ho vissuto a Garessio fino a 14 anni, c’era una piazzetta con la chiesa, accanto c’erano la casa dei miei genitori e quella dei miei nonni. Un angolo magico. Mio nonno e mio padre erano dei pittori decoratori e ho sempre visto mio nonno che disegnava. Ho vissuto la magia dell’odore del colore, mentre le mie zie insegnanti mi correvano dietro, invece, per tenermi sui libri. Mio papà mi ha insegnato che il disegno poteva non essere solamente a due dimensioni, ma c’era anche quello a tre dimensioni. E mi ha costretto, quando frequentavo le medie, a seguire un corso serale per disegni di meccanica. Io dopo le medie ero destinato ad andare a Torino al liceo artistico, fino a 17 anni non sapevo neanche che cosa era un’automobile. Il mio futuro lo immaginavo “creativo” e non certamente “tecnico”. Ma così è stato. Nel percorrere, poi, la mia attività in giro per il mondo, mi tenevo in allenamento facendo dei ritratti. Quando incontravo dei presidenti o dei direttori generali, io ci facevo un ritratto che poi, a Natale, utilizzavo come regalo durante lo scambio dei doni con la persona ritratta». Una passione, quindi, che non si è mai sopita.«No. A Garessio ogni cinque anni rappresentano la Passione di Cristo ma nella chiesa dove ho inaugurato la mia tela, che non è quella parrocchiale, non c’era nulla che ricordava questa rappresentazione. Allora ho iniziato con un primo quadro che rappresenta la deposizione del Cristo. Dopo ho realizzato gli Angeli, ne ho interpretato anche io uno quando ero piccolo, e l’Ultima cena. Ora, il Battesimo. Non voglio inserirmi nel mondo dell’arte, so benissimo che è qualcosa di magico, ma ho voluto “rappresentare una rappresentazione”. Dipingo e illustro gli avvenimenti che accadono nel borgo in cui sono nato. E da un po’ di anni, pensa te, i curiosi vengono a vedere i miei quadri. Non è possibile!». Lei ha disegnato la prima Fiat Panda. Tra pochi giorni sarà presentato ufficialmente il nuovo modello. Immagino che l’abbia visto, cosa ne pensa?«Ognuno ha le sue visioni e il giusto desiderio creativo di lasciare la sua impronta e non sempre chi gestisce, invece, ha la competenza per rispettare lo spirito di quella che era la Panda. Il nome rimane ma la logica della Panda, che è la macchina più importante che ho fatto, non c’è più. De Benedetti mi diede poche informazioni: “Abbiamo bisogno di una vettura alla francese, semplice, con il motore che arriva dalla Polonia”, mi disse. Ero partito con una logica di funzionalità, di costi e di pesi contenuti ma anche di grande spazio. Questa ricerca non è stata semplice: è più facile disegnare una Ferrari, si ha tutto a disposizione, non ci sono limiti. Quando uscì la Panda, molti amici mi dissero: “Piuttosto che comprarla, prendo una macchina di quarta o quinta mano, Alfa o Bmw, faccio più bella figura”. La Fiat di allora era una roba pazzesca, eppure adesso non c’è più. Quando sono andato alla Volkswagen per prendere l’incarico di fare la Golf, i tedeschi avevano un’ammirazione per la Fiat, parlo del 1970, che mi inorgogliva. Dovevamo fare concorrenza alla 128 e la Golf era più piccola: in Volkswagen mi dissero che “non riusciremo mai a fare un prodotto come la Fiat con quel peso, quel costo, quella abitabilità e quella trazione anteriore”. Ripeto, era il 1970. Ora abbiamo venduto tutto alla Peugeot, sono loro che decidono». La macchina non è soltanto un oggetto per muoversi, ma significa anche posti di lavoro.«È un mezzo che ci serve per muoverci, per divertirci e che dà lavoro, per quanto sia criticabile per ingombri e inquinamento. È utile per muoverci in libertà ed è un’evoluzione tecnologica e di trasporto che va di pari passo a quella umana. Ne abbiamo bisogno».Panda vuol dire Fiat che, fino a pochi anni fa, voleva dire Italia. Oggi il gruppo parla sempre più francese. Come lo vede il settore dell’automotive nel nostro Paese? I modelli prodotti in Italia sono sempre meno…«Ho iniziato la mia attività nel 1955. Posso dire che siamo un Paese di poca disciplina e molta creatività. Abbiamo la forza dell’individualità che deriva anche dal nostro Dna storico, di un’Italia che ha avuto tanti Comuni. Noi carrozzieri, e parlo di Pininfarina, Ghia, Bertoni, abbiamo dimostrato che di questo mezzo si poteva fare, con la bravura dei nostri artigiani, qualcosa di più piacevole di un oggetto legato solamente alla funzionalità. Però, mentre tutti gli altri si sono industrializzati per produrre in serie, noi carrozzieri facevamo piccoli numeri a livello produttivo e non abbiamo retto finanziariamente. Mentre si perdeva questa forza creativa, la tecnologia ha permesso ai grandi brand di crearsi il proprio centro stile e la qualità che aveva l’Italia, in questa fase, si è persa. Perché l’opportunità che ho avuto io, ad esempio, di fare progetti per Fiat, Maserati e Alfa Romeo, è sparita. Nel 2010 ho ceduto la mia azienda (l’Italdesign, ndr) alla Volkswagen e nel 2015, quando ho ceduto anche le ultime azioni, ho capito che un’azienda del genere, se non è in un grande contesto finanziario, fa poca strada. Non ho sofferto nel cedere un’azienda da 1.100 dipendenti, era giusto così. Anche la Fiat ha dovuto cedere e quindi siamo diventati un Paese che è passato da 2 milioni di autovetture prodotte, quando ancora operavo, a 400.000. E la creatività è passata non agli italiani ma ad altri soggetti nel cui Dna non c’è questa tradizione. È l’evoluzione della vita. Non abbiamo più quella aureola che abbiamo avuto per tanti anni. La visione di questo oggetto, l’auto, è cambiata. E anche le regole».Cosa ne pensa della corsa all’elettrificazione delle automobili? È la strada giusta oppure si poteva cercare di allungare la vita ai motori termici? E non si è sbarrata la strada ad altre soluzioni, come tipo i motori a idrogeno?«Da due anni viaggio su Ioniq 5 della Hyundai. È un’elettrica che il presidente della Hyundai mi ha regalato per aver a suo tempo contribuito alla nascita della casa con cinque progetti. Usandola tutti i giorni attorno a Torino, ha un’autonomia di 400 km e non riesco mai a usarli tutti, posso dire che l’elettrificazione del motore, al di là di tutte le valutazioni pro e contro, è un passo importante di un prodotto in cui facilità di guida, silenzio e accelerazione hanno fatto un balzo in avanti incredibile. L’elettrico dà qualcosa di più, come prodotto. Non entro nella logica di come fare a ricaricarle per chi abita in un condominio. Il prodotto elettrico è un passo avanti enorme. La tecnologia è arrivata a soddisfare qualsiasi tipo di capriccio».La Cina sta soppiantando, o quantomeno facendo una concorrenza spietata, ai costruttori storici. Come vede lo scenario chiamiamolo geopolitico nel mondo dell’automotive?«In un Paese come la Cina, dove pochi decidono e tutti eseguono, si riescono a fare le cose rapidamente. Noi siamo morti. La Cina ci sommergerà. Hanno imparato, hanno avuto l’Occidente che ha insegnato loro a fare cose meravigliose. L’America ha sfruttato la Cina per diventare potente e oggi scopriamo che la Cina è diventata altrettanto potente. Noi italiani, da un punto di vista di un prodotto di grande diffusione come l’auto, siamo morti. Possiamo dedicarci alle cose belle, al turismo, al cibo ma non possiamo metterci in competizione con loro. Facciamo del design, dell’arredo di eccellenza e questo va bene. Ma su prodotti di grande produzione, che sottostanno a una logica di riduzione dei costi, siamo finiti. Il progresso è stato rapidissimo per la Cina». Secondo lei fare un’auto è una forma d’arte?«Che cosa è la creatività? Se apro il cofano di vettura e vedo quel capolavoro di elettronica e di meccanica che è un motore, penso: ma questa è arte. Solo che, essendo prodotti in milioni di esemplari, non è considerata una cosa creativa. Solo con occhi disincantati si può vedere l’arte anche in una sospensione. Questo mi dispiace: molte cose che ha fatto l’uomo possono essere considerate arte, ma per definizione è arte ciò che non può essere riprodotto». Cosa c’è nel futuro di Giugiaro? Quali progetti vuole realizzare?«È limitato il mio futuro, arrivano gli acciacchi. Vorrei godere della natura e apprezzare quello che abbiamo dimenticato. Quando cammino nel prato e mi soffermo a vedere fiorellini, mi dico: ma quanto ci siamo dimenticati delle meraviglie della natura».
lUrsula von der Leyen (Ansa)