2024-11-18
Gianclaudio Torlizzi: «La Cina non è la soluzione ai dazi Usa»
Gianclaudio Torlizzi (Imagoeconomica)
L’analista: «È partita la narrazione secondo cui dovremmo appoggiarci a Pechino per compensare gli effetti del Trump bis. Il nuovo corso Usa è invece l’occasione di cambiare il nostro modello sbilanciato sull’export».C’è un nuovo storytelling: per difendersi dalla morsa dei dazi Usa serve più Cina. Cosa sta accadendo? Abbiamo girato la domanda a Gianclaudio Torlizzi, fondatore di T-Commodity e consigliere del ministro della Difesa. «Non vi dubbio sul fatto che l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, accompagnata alla Red Sweep, ossia al controllo del Congresso da parte dei repubblicani, sia un cambio di paradigma. Sul piano economico, l’obiettivo della nuova amministrazione ruota sul favorire il processo di reindustrializzazione, compiendo un’inversione a U della globalizzazione/delocalizzazione spinta degli anni Novanta. In quest’ottica, l’attuazione del piano passa per la riduzione del deficit commerciale degli Usa. Trump intenderà dunque utilizzare l’arma dei dazi come strumento di politica industriale e commerciale. Mercantilismo e deregolamentazione saranno dunque la cifra del prossimo governo americano. La ratio è quella di favorire la produzione a discapito del consumo, abbandonando la concezione della locomotiva a stelle e strisce come il consumatore di ultima istanza dell’economia mondiale al fine appianarne gli squilibri. Ma per farlo occorre che anche Cina ed Europa aggiustino il proprio modello economico, privilegiando maggiormente i consumi interni a discapito dell’export. Ma questo riequilibrio a una parte delle élite europee e a quelle cinesi, che hanno enormemente beneficiato della globalizzazione, non piace». C’è il rischio l’Europa si spacchi tra chi vuole aumentare la tecnologia Made in China e chi cerca di fare accordi bilaterali con gli Usa? «Il rischio è che alla richiesta di riequilibrio della bilancia commerciale, l’Europa risponda in maniera disordinata, consegnandosi a Pechino. Anche da noi da alcuni giorni è partita la narrativa secondo cui l’Italia deve guardare alla Cina per compensare gli effetti negativi dei dazi Usa sull’economia. Sarebbe un errore strategico madornale. Trump rappresenta per l’Europa l’occasione per diventare maggiorenne abbandonando il modello export-led».Qual è il significato della visita di Sergio Mattarella in Cina? «La visita era prevista da tempo e ha un valore più cerimoniale che sostanziale. Più importante è stata la visita del premier Meloni. Ma non è certo uno scandalo. Tutti i leader europei hanno fatta tappa recentemente a Pechino. L’importante è avere ben chiari gli obiettivi strategici e i limiti invalicabili sul piano della sicurezza nazionale. In quest’ottica l’uscita dalla Belt and Road è stato il passaggio chiave di questo governo. Ora però si apre una nuova fase e dobbiamo essere ancora più attenti a non lasciarsi irretire dalle sirene di Pechino. Non dimentichiamo che sul lato della bilancia commerciale è l’Europa che ha in teoria il coltello dalla parte del manico, essendo in una condizione di deficit nei confronti della Cina. I negoziatori europei dovrebbero tenere a mente le parole pronunciate da Laocoonte ai Troiani per convincerli a non introdurre il cavallo di Troia (sotto forma oggi di stabilimenti di auto elettriche cinesi in Europa) all’interno delle mura della città: “Timeo Danaos et dona ferentes”».Come si spiega la presenza di Elkann nella missione di Mattarella? «Il punto è molto semplice: finché le case automobilistiche aderiranno al Net Zero, saranno destinate a soccombere e diventare preda delle concorrenti cinesi. Mi attendo ondate di licenziamenti nel 2025. Il vantaggio delle competitor dell’ex Celeste Impero in termini di costi alla produzione è troppo forte, circa il 30% rispetto a quelle europee. In questo senso la speranza di Stellantis e degli altri produttori europei di puntare al mercato cinese si rivelerà vana. Pechino offrirà un contentino all’inizio in termini di accesso al mercato interno giusto per scardinare la già labile unità europea sui dazi alle auto elettriche, per poi fagocitarle». Come vede il futuro dell’automotive? «Debbo proprio dirlo? Non vedo futuro. Nel momento in cui hanno abbracciato il Net Zero, i ceo delle case automobilistiche europee hanno smesso i panni dei manager industriali per indossare quelli dei lobbisti alla continua ricerca di sussidi dalla Ue. Come dice il mio caro amico Riccardo Ruggeri, rischiamo di ritrovarci con una sola casa automobilistica totalmente finanziata dall’Europa. Il green alla fine piace per questo: perché è un enorme erogatore di soldi pubblici». Come dovrebbe affrontare questa situazione il governo? «Data la crisi strutturale che il comparto dell’auto attraversa, è imperativo che il governo si attivi per mitigare l’impatto della crisi dell’auto sul settore della componentistica incentivando sia le aggregazioni per recuperare quote di mercato detenute dalle concorrenti straniere sia la transizione verso il comparto della Difesa che sarà un driver strutturale di crescita del sistema Paese. Ogni euro investito nella Difesa genera circa 2 euro di valore aggiunto per l’economia nazionale; ogni 10 posti di lavoro nelle grandi aziende del settore Difesa, se ne generano altri 30 nelle piccole e medie imprese collegate. Investire nella Difesa, dunque, porta benefici all’economia, a partire dall’occupazione, specie se altamente qualificata. Certo, i volumi sono diversi, ma lo spazio di crescita è enorme se pensiamo alla strada che dobbiamo fare per arrivare al fatidico target del 2% del Pil entro il 2028. Occorre creare nuove filiere anche nell’ottica di diversificazione delle forniture che rimane una criticità per le nostre aziende della Difesa. Solo per fare un esempio, in Europa abbiamo un solo produttore di acciai balistici». Crede in un cambiamento della politica green con la nuova Commissione? «Lo spero ma non sarà semplice. Per la Commissione il green rappresenta lo strumento attraverso il quale applicare l’approccio dirigistico sull’economia. L’ambientalismo non è altro che socialismo sotto nuove spoglie. Certo, in questa nuovo Parlamento il potere del Pppe è diverso e potrebbe avere un impatto. Ma non dobbiamo dimenticare che a livello europeo manca una visione condivisa sul tema. La Spagna rimane fortemente a favore del green in ragione degli enormi sussidi ricevuti. La Germania sta attraverso una profonda crisi esistenziale. La Francia ha enormi problemi sul lato fiscale e rimane ambigua sul tema. Forse l’Italia potrà cercare nell’Europa orientale, in Polonia e Repubblica Ceca, quel consenso necessario per applicare maggiore pressioni sulla Commissione oramai totalmente sganciata dalla realtà delle imprese. Basta vedere quello che sta accadendo con il carbon border adjustment mechanism (Cbam): un impianto normativo folle, concepito nelle stanze ovattate di Bruxelles da chi non ha messo mai piede dentro una fabbrica, che alimenterà solo il processo di deindustrializzazione già in corso nel settore della trasformazione. Molti parlamentari italiani a Bruxelles ancora non hanno ben compreso questo rischio». Quali le conseguenze sul green dalla nuova presidenza Trump? «Non così negativo cime si potrebbe pensare. Gli Stati a trazione repubblicana come il Texas sono quelli che hanno sfruttato al meglio gli inventivi offerti dall’Inflation Reduction Act. Non dimentichiamo poi che uno dei principali azionisti della nuova amministrazione è Elon Musk, proprietario della Tesla. Credo che l’azione di Trump si concentrerà maggiormente nell’incentivare l’attività di estrazione mineraria senza la quale non può esserci decarbonizzazione. E questo per l’Italia rappresenta un’opportunità». In che senso? «L’Italia vanta un surplus commerciale di circa 42 miliardi con gli Usa. Una parte di questo surplus andrà dirottato verso nuovi mercati di sbocco, penso per esempio a quello sudamericano, ma occorrerà aprire velocemente un tavolo di confronto con Washington in cui potremmo essere noi a proporre di riequilibrare la bilancia commerciale bilaterale importando, oltre ad applicazioni per la Difesa e gas, anche materia prima. In questo modo avvieremmo il necessario piano di derisking da Pechino che, va ricordato, detiene il totale controllo a livello mondiale nel comparto della raffinazione dei metalli da cui dipendono le prospettive della Difesa, transizione energetica e digitale. Senza rame non puoi costruire i datacenter». L’Europa ce la farà a recuperare il tempo perso sull’estrazione mineraria?«Il nostro Paese rimane estremamente dipendente dall’estero sia sul fronte energetico che su quello delle materie prime. Le azioni di militarizzazione su gas e metalli e logistica (si pensi al Canale di Suez) intrapresi in questi ultimi anni da Mosca, Pechino e Teheran rappresentano solo un primo assaggio delle enormi difficoltà che dovremo attraversare nel futuro sul lato approvvigionamenti. Le pressioni americane affinché Taiwan Semiconductor non venda più chip avanzati per l’Ia a clienti cinesi aprono a una prossima escalation nello scontro geoeconomico tra le due superpotenze in cui le materie prime saranno sempre più usate come arma dal blocco orientale. Se domani Pechino dovesse bloccare le forniture di litio darebbe la spallata finale all’economia tedesca. Ma sembra che siano in molti anche nel nostro Paese a non aver ancora compresa l’entità del rischio nella speranza di un ritorno al contesto pre pandemico. Occorre inserire le materie prime in un piano di sicurezza nazionale come più volte ribadito dal ministro Guido Crosetto. Come sistema Paese siamo in grave ritardo. Oltre agli americani, gli unici ad aver compreso la gravità della questione sono gli inglesi. Inutile aspettare segnali dall’Europa. Dobbiamo muoverci in maniera autonoma come Paese, non solo rilevando quote di società minerarie ma incentivando la raccolta e il riciclo di metalli e la creazione di impianti di raffinazione».
Il giubileo Lgbt a Roma del settembre 2025 (Ansa)
Mario Venditti. Nel riquadro, da sinistra, Francesco Melosu e Antonio Scoppetta (Ansa)