- A distanza di sette anni dall'intervento della Nato guidato dalla Francia di Nicolas Sarkozy, Eni fa fatica a mantenere la sua produzione di petrolio. La gestione sul territorio da parte dei nostri agenti Aise è difficile.
- Con Gheddafi il colosso petrolifero italiano avrebbe potuto governare per altri cinquant'anni.
- Nel frattempo continuano gli sbarchi e gli accordi con la Libia appaiono sempre più un colabrodo, come dimostrano le ultime indagini sulle Ong.
A distanza di sette anni dall'intervento della Nato guidato dalla Francia di Nicolas Sarkozy, Eni fa fatica a mantenere la sua produzione di petrolio. La gestione sul territorio da parte dei nostri agenti Aise è difficile.Con Gheddafi il colosso petrolifero italiano avrebbe potuto governare per altri cinquant'anni. Nel frattempo continuano gli sbarchi e gli accordi con la Libia appaiono sempre più un colabrodo, come dimostrano le ultime indagini sulle Ong.Lo speciale contiene tre articoli«La caduta di Gheddafi nel 2011 in Libia è stata per l'Italia la sconfitta più pesante dopo la seconda guerra mondiale». Alberto Negri, storico cronista di guerra, tra i pochi inviati rimasti a conoscere l'evoluzione degli ultimi quarant'anni di storia nei Paesi nordafricani, ricorda a La Verità il tracollo del nostro Paese dopo l'intervento bellico deciso dall'allora presidente francese Nicolas Sarkozy. «Gli accordi tra l'Italia e la Libia nell'agosto del 2010 avrebbero permesso a Eni di avere un dominio incontrastato per più di cinquant'anni su quei territori: i francesi l'hanno capito e hanno iniziato a muoversi di conseguenza». Secondo Negri, «l'Italia in questi anni ha resistito, anche grazie al gasdotto Green Stream che è un cordone che non potrà mai essere spezzato". Ma allo stesso tempo "i francesi di Total si sono dati da fare e qualche risultato lo hanno ottenuto». La presenza in Libia dell'Italia è storica e si è consolidata con la scalata al potere di Tripoli da parte di Muammar Gheddafi nel 1969. E' in quell'anno che il nostro colosso petrolifero ha iniziato a espandere le proprie attività sul territorio, «un mare sotterraneo di idrocarburo», diventando presto un punto di riferimento del settore petrolifero di tutto il nord Africa. L'attività è condotta nell'offshore mediterraneo di fronte a Tripoli e nel deserto libico per una superficie complessiva sviluppata e non sviluppata di 26.635 chilometri quadrati (13.294 chilometri quadrati in quota Eni).Dopo l'ultima guerra il cane a sei zampe ha tenuto testa alle milizie e alle tribù locali, ma le storiche rivali come la francese Total e la spagnola Repsol hanno iniziato ad approfittare della situazione. In particolare la prima - dopo che fu proprio il governo francese con il presidente Sarkozy decise di bombardare nel 2011 - ad aver allargato il suo raggio d'azione. La spartizione del territorio è stata chiara. La Francia ha preso saldamente in mano il Sahel del Fezzan dove si trova il giacimento Elephant, gestito anche da Eni. «Lo disse chiaramente l'ex ministro degli Esteri Franco Frattini», continua Negri, «i primi obiettivi della Nato erano di bombardare i terminali di Eni. L'Italia non si oppose all'intervento di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti ma si unì ai bombardamenti perché i nostri alleati minacciavano di colpire i nostri terminali» . Non solo. «Come mi disse un giorno il generale Vincenzo Camporini, all'epoca capo di Stato Maggiore della Difesa, sarebbe bastato non concedere le basi per i bombardamenti in modo da allungare la sopravvivenza di Gheddafi». Del resto, sette anni fa Eni era il primo operatore internazionale di idrocarburi con una produzione giornaliera tra liquidi e gassosi (fonte Fact book Eni 2009) di 522.000 barili/olio/equivalenti (Boe). Al netto delle joint venture, la quota giornaliera di competenza Eni era vicina ai 320.000 barili, con il controllo di Wafa, Marzuk, El-Feel, Elephant, Mellitah, Abu-Attifel (quasi a regime) per citarne solo alcuni dei più importanti giacimenti e location strategiche di estrazione. Ora invece si fa fatica. A spiegarlo è stato lo stesso amministratore delegato Claudio Descalzi durante la presentazione del piano industriale. Nel 2021 la produzione dovrebbe scendere a 200.000 barili, anche perché negli ultimi anni non è stato possibile avviare nuovi progetti. Del resto Eni risulta la più colpita dagli attacchi dei ribelli. Non è così per Total. Anzi bisogna ricordare che la compagnia petrolifera francese è stata la prima a rientrare operativa in Iran, mentre Eni è arrivata solo l'anno scorso. A Tripoli e dintorni le cose non vanno peggio. Anzi. Lo dimostra l'ultimo accordo con la società Marathon oil Libya limited, Total detiene ora una partecipazione del 16,33% nelle concessioni di Waha in Libia per 450 milioni di dollari. L'acquisizione darà accesso alle riserve e a risorse per oltre 500 milioni di barili di petrolio. E intanto proprio in questi giorni, come ricordava il Sole 24 Ore, si è fermata invece l'estrazione di gas a Wafa, giacimento operato dall'Eni che rifornisce l'Italia attraverso proprio Green Stream. Neppure un mese fa sito di El-Feel, situato circa 900 chilometri a Sud di Tripoli e gestito dalla Mellitah Oil&Gas BV, società in joint venture fra Noc ed Eni è stato chiuso per ragioni di sicurezza. Lo annunciò la National oil company (Noc), l'autorità petrolifera libica, precisando che la decisione fu necessaria dopo che «membri dell'unità del Fezzan della petroleum facilities guard (Pfg) avevano minacciato i lavoratori, sono entrati negli uffici dell'amministrazione del campo e hanno esploso colpi di arma da fuoco in aria».Michele Marsiglia, presidente di Federpetroli Italia, spesso in Libia per seguire da vicino i nostri giacimenti e il lavoro di tante aziende che operano nella zona, spiega a La Verità. Sono rimasti penalizzati un po' tutti, questa è stata la crisi Libica. Abbiamo avuto un blocco di tutte le operazioni, per anni ci sono stati problemi per autorizzare i desert pass per i lavoratori, infrastrutture che erano state installate da parte delle aziende contrattiste sono state lasciate in disuso e questo ha comportato un elevato aumento dei costi per la sostituzione di materiale che non era più idoneo negli impianti. Per una questione di sicurezza sono stati richiamati i lavoratori di gran parte dell'indotto e, anche questo si traduce in costo e penalità sugli accordi commerciali contrattuali".Da tempo i nostri servizi segreti (Aise) lavorano sul campo per cercare di trovare soluzioni all'impasse, questione che ha creato non pochi problemi anche all'interno del nostro Dipartimeto per la Sicurezza, tra avvicendamenti a capo delle operazioni africane: ora a prendere in mano le situazione è Giuseppe Caputo, vice direttore di Alberto Manenti. Del resto la Libia è per noi troppo importante dal punto di vista economico e strategico. Descalzi, ce l'ha messa tutta per garantire la sicurezza degli stabilimenti e del personale oltre che l'approvvigionamento del 10% del fabbisogno energetico italiano grazie a un accordo stretto proprio con le milizie locali. Marsiglia aggiunge, «La situazione della Total è sotto i riflettori di tutti e non solo in queste ultime settimane. La Libia petrolifera si è sempre chiamata Eni, da decenni. Sono sempre esistiti accordi con altre piccole, medie e grandi compagnie petrolifere internazionali, ma la presenza italiana è risaputa. Ma è evidente che l'Italia in Libia ha infastidito qualcuno e oggi vediamo cosa sta succedendo con la Francia>. Spiega Marsiglia, «dobbiamo pensare che un giacimento è costituito da diversi e numerosi pozzi. Abbiamo pozzi a Ras Lanuf e Sidra con terminali di collegamento. Ancora però non riusciamo ad avere una fotografia della piena e totale operatività in equilibrio. Ovviamente ogni singola Compagnia petrolifera conosce la reale situazione dei propri impianti, anche per informazioni aziendali interne. La nostra conoscenza si basa su informazioni che vengono prodotte da aziende che lavorano in quel determinato campo petrolifero. Al momento ci sono giorni, settimane o anche mesi altalenanti, molte volte dipeso anche da stop forzati per motivi puramente di sicurezza, si decide di abbandonare il campo mettendo in sicurezza gli impianti ma soprattutto le risorse umane». Secondo il numero uno di Federpetroli Italia, «la parte più interna della zona desertica o dove sono allocati alcuni giacimenti purtroppo è spesso visitata da milizie e tribù che esercitano e vogliono far valere una loro Legge. Gli impianti vengono protetti con un gran numero di personale di sicurezza specializzato e di alta conoscenza della zona. Diciamo però che l'Intelligence italiana fa un ottimo lavoro e ci fa dormire sonni più tranquilli. Il rischio è sempre alto. Purtroppo non solo la Libia ma tutto il Medio Oriente e Continente africano è strutturato con il controllo armato di diverse milizie che spesso non riescono ad avere una collocazione politica, questo ci porta a dover intavolare degli accordi locali per proteggere le nostre infrastrutture, senza un riferimento politico ed istituzionale di controllo. La situazione ancora oggi, non è facile». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/gheddafi-libia-total-eni-2554534339.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="beffa-magreb-paghiamo-per-un-mare-colabrodo" data-post-id="2554534339" data-published-at="1762611840" data-use-pagination="False"> Beffa Magreb: paghiamo per un mare colabrodo Se il governo di Tripoli avesse la sua zona d'influenza nel Mediterraneo potrebbe riportare indietro i barconi degli immigrati Ma l'apposita agenzia Onu ancora non l'ha riconosciuta, nonostante le richieste presentate con il nostro appoggio (e i nostri soldi).C'è un particolare interessante nella vicenda della nave dell'Ong spagnola Proactiva open arms sequestrata dalla Procura di Catania. Una questione tecnica, che però potrebbe rivelarsi determinante per la futura gestione dei flussi migratori nel Mediterraneo. A metterla in luce è stato Riccardo Gatti, uno dei tre capi missione dell'organizzazione umanitaria, di cui è anche portavoce per l'Italia. In un'intervista concessa al Manifesto, Gatti ha difeso l'operato della sua Ong. «Ci si contesta il fatto che non abbiamo lasciato che i libici prendessero i migranti», ha dichiarato. «Qui c'è qualcosa di strano. Non è la prima volta che la guardia costiera italiana ci avvisa della presenza dei libici durante un'operazione di soccorso, né è la prima volta che veniamo informati che i libici vorrebbero assumere il coordinamento del salvataggio. È però la prima volta che Roma ci dice che i libici assumono sul serio il coordinamento».Secondo Gatti «questo non è normale, perché noi non abbiamo mai ricevuto un'informazione ufficiale sul fatto che Tripoli possa assumere il coordinamento delle operazioni. Perché questo avvenga un Paese deve avere un Mrcc (il Centro di coordinamento del soccorso marittimo, ndr), una zona Sar (ricerca e salvataggio, ndr) assegnata e dei porti sicuri dove sbarcare i migranti, tutti requisiti che la Libia non ha. Tra l'altro chi decide è l'Imo, l'Organizzazione marittima internazionale, e benché siano state inoltrate delle richieste da parte di Tripoli, non le è mai stata affidata una zona Sar. Se portassimo i migranti in Libia violeremmo tutti i trattati internazionali». La Ong, in sostanza, si sta appigliando a una sorta di cavillo burocratico per giustificare la sua decisione di non lasciare i 218 migranti recuperati in mare alla guardia costiera libica.Vediamo di spiegare. La convenzione internazionale sottoscritta ad Amburgo nel 1979 ha istituito le cosiddette «zone Sar» (acronimo che sta per Search and rescue, cioè ricerca e salvataggio). Ogni Paese del Mediterraneo ha un propria Sar, cioè un'area di mare di cui è responsabile e in cui deve gestire i salvataggi delle imbarcazioni in difficoltà.Anche la Libia ha firmato la convenzione di Amburgo, ma pare non abbia ancora una zona Sar riconosciuta a livello internazionale. Perché ciò avvenga, uno Stato deve indicare la porzione di mare di cui si ritiene responsabile e comunicarlo agli Stati vicini e all'Imo, cioè l'Organizzazione marittima internazionale. Come si legge sul sito ufficiale, l'Imo «è un'agenzia specializzata delle Nazioni unite [...] volta a promuovere la cooperazione marittima tra i Paesi membri e a garantire la sicurezza della navigazione e la protezione dell'ambiente marino. Ad essa aderiscono attualmente 170 Paesi membri ed ha sede a Londra». L'Italia «contribuisce al funzionamento del'Imo con una quota di oltre il 2% del bilancio dell'organizzazione». Una volta che un Paese ha comunicato all'Imo quale sia la sua Sar, l'organizzazione provvede a inserire i dati in un database, chiamato Gisis. Eppure, due giorni fa, l'ufficio stampa dell'Imo ha spiegato a Famiglia cristiana che «la Libia non ha inviato le sue informazioni».Per questo motivo, sostiene un'altra agenzia dell'Onu, ovvero l'Unhcr, «l'area del mar libico a sud di quella maltese e confinante con le acque territoriali della Libia non è posta sotto la responsabilità di alcuno Stato. È per questa ragione che la prima centrale Mrcc (Maritime rescue coordination centre) contattata dovrà attivarsi per salvare le barche dei migranti e dei rifugiati in pericolo». La prima centrale, ovviamente, è quella italiana con sede a Roma. Insomma, in base alle informazioni fornite dagli organismi internazionali, le navi delle Ong sarebbero legittimate a portare qui da noi i migranti recuperati (anche perché Malta, benché abbia una Sar enorme, pari a 750 volte il suo territorio, non apre le porte).La faccenda, però, è un po' più complessa. In realtà, la Libia, nell'agosto del 2017, ha indicato una sua Srr (Search and rescue region) comprensiva di varie Sar e larga 74 miglia nautiche, e ha provveduto a informare l'Imo. Il 10 dicembre dello stesso anno, tuttavia, il governo tripolino guidato da Fayez Al Sarraj ha ritirato la richiesta presentata all'agenzia delle Nazioni unite. Il motivo di tale decisione non è chiaro. Sembra che la richiesta libica avesse alcuni «problemi tecnici», e che sarebbe comunque stata respinta.La questione, in ogni caso, non si è chiusa lì. Sul sito Openmigration.org, Lorenzo Bagnoli ha scritto che, il 19 dicembre 2017, presso l'Imo «è stata depositata dalla Libia una nuova notifica Srr». Insomma, i libici avrebbero comunicato alle autorità internazionali i dati riguardanti la porzione di mare di cui si ritengono responsabili. Non solo: la guardia costiera di Tripoli potrebbe anche contare su un centro di coordinamento, posizionato «a bordo della nave Tremiti della Marina italiana, ormeggiata nel porto militare».Ma allora perché l'Imo sostiene che la Libia non abbia una zona Sar di sua responsabilità, offrendo una sponda alle Ong? Il nostro Paese sta spendendo energie e denaro per addestrare la guardia costiera libica. Secondo le previsioni, entro il 2020 Tripoli dovrebbe avere un proprio centro di coordinamento. Sapete che significa? Che i libici sarebbero in grado di gestire le operazioni di soccorso e di riportare i barconi carichi di stranieri sul proprio territorio, evitando indebite ingerenze da parte delle Ong. La qual cosa, ovviamente, ci farebbe molto comodo.Forse l'Onu forse preferisce che tutti continuino a sbarcare qui? O forse teme che, riconoscendo maggiore autorità ai libici, l'influenza italiana nel Mediterraneo diventi troppo grande? Il sospetto viene. Ma viene anche da pensare che, nonostante le grandi dichiarazioni, il nostro governo non sia in grado di farsi sentire a livello internazionale, e che gli accordi stretti con Tripoli siano troppo fragili. Comunque sia, qualcosa non torna. E, nell'ipotesi che i flussi migratori ritornino a intensificarsi con l'arrivo della bella stagione, non c'è da stare tranquilli.Francesco Borgonovo <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/gheddafi-libia-total-eni-2554534339.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="minniti-i-nostri-servizi-segreti-e-gli-incroci-con-le-presunte-mazzette-in-nigeria" data-post-id="2554534339" data-published-at="1762611840" data-use-pagination="False"> Minniti, i nostri servizi segreti e gli incroci con le presunte mazzette in Nigeria La partita sul rinnovo degli incarichi nei nostri servizi segreti non è ancora chiusa. A distanza di una settimana dal blitz al Copasir per rinnovare gli incarichi delle direzioni di Dis e Aisi, resta alta la tensione sulla proroga del direttore dell'Aise, Alberto Manenti. Se per Alessandro Pansa (Dis) e Mario Parente (Aisi) il rinnovo di un anno appare ormai scontato, continua invece a traballare la poltrona del titolare del nostro spionaggio estero.Dopo che La Verità ha raccontato del tentativo di tacito rinnovo prima delle elezioni - con la regìa del ministro dell'Interno, con delega ai servizi, Marco Minniti - alcuni quotidiani hanno parlato di un insolito e tuttora oscuro accordo tra il segretario della Lega, Matteo Salvini, e quello del Partito democratico, Matteo Renzi, per rimandare la pratica a dopo le elezioni. A questo punto già verso gli inizi di aprile potrebbe essere sempre il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, in carica per gli affari correnti, a firmare il decreto che potrebbe chiudere la vicenda. La partita, però, oltre che aperta, si gioca sul filo di lana, sui tempi della formazione di un nuovo governo. Sia perché di mezzo ci sono le elezioni e una nuova maggioranza parlamentare, sia perché tocca nervi scoperti sulla politica internazionale del nostro Paese, dai rapporti con gli Stati Uniti e la Russia, fino al delicato dossier Libia, su cui si sono molto spesi sia Minniti sia lo stesso Manenti.A quanto pare sul rinnovo del direttore dell'Aise ci sarebbe il parere favorevole di Gianni Letta, ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi dell'ultimo governo Berlusconi. Non a caso c'è chi parla da giorni di «larghe intese» sui servizi, ipotesi che troverebbe apprezzamenti al Quirinale, dove il presidente, Sergio Mattarella, osserva con attenzione la vicenda, particolarmente delicata per la difesa e la sicurezza del nostro Paese. Sarà anche per questo motivo che nei corridoi di Montecitorio si continua a fare proprio il nome di Minniti come possibile «esploratore» per la formazione di un nuovo esecutivo, nel caso non esca un vero vincitore dalle urne: un profilo istituzionale e da «tecnico» (copyright Massimo D'Alema) che trova apprezzamenti sia a destra sia a sinistra.D'altra parte, se l'attuale numero uno del Viminale diventasse primo ministro, la vicenda sarebbe definitivamente chiusa, senza ulteriori polemiche. Va ricordato, infatti, che non sono mancate critiche in questi anni sulla gestione del nostro spionaggio esterno da parte di Manenti. Esiste una corrente interna a Forte Braschi che continua a tifare per la nomina immediata di Enrico Savio, attuale vicedirettore del Dis, già braccio destro ai tempi della polizia dell'attuale presidente di Leonardo, Gianni De Gennaro, quest'ultimo da sempre in ottimi rapporti con Washington.I problemi di questi anni del nostro spionaggio estero non sono un segreto, ma fatti di cronaca. Proprio nei giorni scorsi, ha fatto scalpore la decisione del capitano Ultimo, al secolo colonnello Sergio De Caprio, di non accettare l'incarico di Cavaliere della Repubblica da parte del Quirinale. Si è parlato poco dei motivi che hanno spinto il carabiniere che arrestò il boss mafioso Totò Riina a rifiutare l'onorificenza. Ma in realtà sono ben noti, anche perché l'ultimo incarico del capitano è stato proprio all'Aise, dove ha svolto fino al luglio dello scorso anno, prima di essere restituito all'Arma, il delicato compito di sorvegliare gli affari interni dell'agenzia, cioè vigilare sull'operato degli agenti come le uscite economiche. La questione De Caprio, già in forza al Noe con il maggiore Gianpaolo Scafarto, si è intrecciata con l'inchiesta Consip, madre di tutte le battaglie di questa legislatura, con il coinvolgimento del Giglio magico dell'ex presidente del Consiglio Renzi, da un lato, e una ferita profonda interna alle nostre forze dell'ordine dall'altro.Non solo. C'è chi fa notare in ambienti dell'intelligence italiana che ci sarebbero state criticità interne all'Aise sull'inchiesta per le presunte tangenti Eni in Nigeria (giacimento Opl-265) ma in particolare sulla gestione dell'immigrazione Libia, un capitolo delicato che tocca da vicino anche gli interessi del case a sei zampe per l'impianto di El-Feel, a 900 chilometri a sud di Tripoli.Il sito, gestito dalla Mellitah Oil&Gas, è fermo dal 23 febbraio scorso per ragioni di sicurezza, ma se ne parlò molto sui quotidiani, italiani e internazionali, tra il 2015 e il 2016, in una delle fase più critiche della crisi libica. Una storia mai del tutto chiarita è quella che riguarda la gestione da parte dell'Aise delle zone di Sabratah proprio in quella fase, in particolare durante i sequestri dei tecnici italiani della Bonatti. Di quella storia è rimasto un servizio di Sky Tg24, difficile da reperire, dove una fonte coperta rivelò come la persona che si occupava della protezione dell'impianto fosse la stessa che gestiva il flusso di migranti in Italia: il suo nome sareeb Ahmad Dabbashi. Nel video viene citato anche Abdullah Dabbashi, complice nei sequestri degli italiani della Bonatti che sarebbe stato in contatto proprio con l'Aise: per liberare due tecnici si parlò di un riscatto di 13 milioni di euro.Alessandro Da Rold
Sigfrido Ranucci (Imagoeconomica)
- La trasmissione lancia nuove accuse: «Agostino Ghiglia avvisò Giorgia Meloni della bocciatura del dl Riaperture». Ma l’attuale premier non ebbe alcun vantaggio. Giovanni Donzelli: «Il cronista spiava l’allora leader dell’opposizione?». La replica: «Sms diffusi dal capo dell’autorità».
- Federica Corsini: «Contro di me il programma ha compiuto un atto di violenza che non riconosce. Per difendersi usa la Rai».
Lo speciale contiene due articoli
La Philarmonie (Getty). Nel riquadro, l'assalto dei pro Pal
A Parigi i pro Pal interrompono con i fumogeni il concerto alla Philarmonie e creano il caos. Boicottato un cantante pop per lo stesso motivo. E l’estrema sinistra applaude.
In Francia l’avanzata dell’antisemitismo non si ferma. Giovedì sera un concerto di musica classica è stato interrotto da militanti pro Pal e, quasi nello stesso momento, un altro concerto, quello di un celebre cantante di origine ebraica, è stato minacciato di boicottaggio. In entrambi i casi, il partito di estrema sinistra La France Insoumise (Lfi) ha svolto un ruolo non indifferente.
Guido Crosetto (Cristian Castelnuovo)
Il ministro della Difesa interviene all’evento organizzato dalla «Verità» dedicato al tema della sicurezza con i vertici del comparto. Roberto Cingolani (Leonardo) e Nunzia Ciardi (Acn): bisogna prevenire le minacce con l’Ia.
Mai, come nel periodo storico nel quale stiamo vivendo, il mondo è stato più insicuro. Attualmente ci sono 61 conflitti armati attivi, il numero più alto dalla Seconda guerra mondiale, che coinvolgono oltre 92 Paesi. Ieri, a Roma, La Verità ha organizzato un evento dal titolo «Sicurezza, Difesa, Infrastrutture intelligenti», che ha analizzato punto per punto i temi caldi della questione con esponenti di spicco quali il ministro della Difesa Guido Crosetto intervistato dal direttore della Verità, Maurizio Belpietro.
Donald trump e Viktor Orbán (Ansa)
Il premier ungherese è stato ricevuto a pranzo dall’inquilino della Casa Bianca. In agenda anche petrolio russo e guerra in Ucraina. Mosca contro l’Ue sui visti.
Ieri Viktor Orbán è stato ricevuto alla Casa Bianca da Donald Trump, che ha definito il premier ungherese «un grande leader». Di più: tessendo le sue lodi, il tycoon ci ha tenuto a sottolineare che «sull’immigrazione l’Europa ha fatto errori enormi, mentre Orbán non li ha fatti». Durante la visita, in particolare, è stato firmato un nuovo accordo di cooperazione nucleare tra Stati Uniti e Ungheria, destinato a rafforzare i legami energetici e tecnologici fra i due Paesi. In proposito, il ministro degli Esteri magiaro, Péter Szijjártó, ha sottolineato che la partnership con Washington non preclude il diritto di Budapest a mantenere rapporti con Mosca sul piano energetico. «Considerata la nostra realtà geografica, mantenere la possibilità di acquistare energia dalla Russia senza sanzioni o restrizioni legali è essenziale per la sicurezza energetica dell’Ungheria», ha dichiarato il ministro.







