2019-12-16
Stephen Smith: «Fermate gli aiuti all’Africa. Il continente si salvi da solo»
L'ex analista Onu: «Il business della beneficenza incoraggia le partenze. L'Europa incentivi le nascite: importare manodopera non renderà sostenibili welfare e pensioni».Fuga in Europa, in copertina, la notte buia del continente africano e quella illuminata dell'Eldorado europeo. Stephen Smith, già analista per le Nazioni Unite e l'International crisis group, a lungo l'africanista di Libération e Le Monde e adesso professore alla Duke University, nel suo libro strattona i «nuovi sacerdoti» del politicamente corretto. E con lui discutiamo di quell'immigrazione che i media raccontano come un non problema o una fatalità, sulla quale la politica non ha alcun controllo.Professore, quale impatto avranno demografia e immigrazione sul vecchissimo continente?«La popolazione dell'Unione europea - 514 milioni - invecchia rapidamente, soprattutto in Germania, Italia, Spagna, Austria e Grecia. Se l'immigrazione dovesse cessare da un giorno all'altro, la popolazione europea nel 2080, sarà come quella del 1950 - 407 milioni. Quanto sarà un problema per la sicurezza sociale europea e, in particolare, per i regimi pensionistici non possiamo saperlo perché non siamo a conoscenza della produttività che l'automazione, la robotica e l'intelligenza artificiale comporteranno. Ma l'alternativa è semplice: o l'Europa incentiva con successo la natalità e sfrutta l'allungamento delle vite per l'età pensionabile, o dovrà importare la popolazione in età lavorativa ormai insufficiente. Ogni soluzione ha un costo. Oggi il continente è sopraffatto dalle conseguenze delle sue scelte sull'immigrazione di massa». Un Paese che rappresenta un caso limite?«La Svezia: il 19% della sua popolazione è nato all'estero e oltre il 30% dei nuovi nati ha un'immigrata come madre».Ha senso per l'Europa scommettere sull'immigrazione dall'Africa, il «giovane continente»?«No, se l'obiettivo è economico. L'assunzione di africani generalmente poco qualificati e delle loro famiglie più numerose non migliorerà la percentuale di adulti che lavorano i cui contributi finanziano il benessere dei giovani e dei pensionati». Cosa fare?«Gli europei devono state attenti a ciò che desiderano. La popolazione africana raddoppierà raggiungendo i 2,5 miliardi entro il 2050. A quel punto, per ogni anziano europeo ci saranno cinque africani, di cui tre avranno meno di 20 anni. In breve, il vecchio continente può certamente aprire le sue porte ma è improbabile che sia in grado di frenare l'afflusso».Sempre più spesso sentiamo dai leader europei: «Non possiamo accogliere tutti». Gli africani continuano a vedere, però, l'Europa come un Eldorado.«Oggi gli africani sono ben connessi, non solo con smartphone e tv satellitare, ma anche grazie a concittadini che vivono in Europa. Sanno bene che l'Europa non è il paradiso dei migranti. Tuttavia, il Pil pro capite europeo è 20 volte più alto rispetto all'Africa subsahariana. Non c'è da stupirsi che quasi tutti tra i giovani africani vogliano cogliere l'occasione, non solo per i soldi, ma anche per sfuggire alle loro società patriarcali».Quanti lasciano casa?«Ad ora, sette migranti su dieci lasciano il loro Paese natio per uno africano più prospero, e solo tre tentano la fortuna all'estero».Ma chi è che parte effettivamente per l'Europa? Lei sostiene che non sono i più poveri dei poveri...«Non dovrebbe essere una sorpresa: solo per arrivare in Europa, un migrante subsahariano ha bisogno di circa 3.000 dollari statunitensi come capitale iniziale. I poveri in Africa non hanno i mezzi per migrare. Quelli che vengono in Europa fanno parte della classe media emergente. Attualmente sono circa 150 milioni e circa il 40% di loro desidera migrare. La Banca mondiale prevede che entro il 2050 il numero sarà quadruplicato».In Fuga in Europa lei spiega come, paradossalmente, le politiche di «cosviluppo» che mirano ad aiutare i più poveri e consentire loro di rimanere nel loro Paese, aumentano la pressione migratoria. Perché?«Se l'aiuto allo sviluppo funzionerà, e sappiamo tutti che si tratta di un enorme “se", allora solleverà gli africani dalla povertà estrema. In altre parole, permetterà loro di unirsi alla classe media emergente: la categoria di persone inclini a emigrare. Nell'Africa subsahariana il giorno che il Paese sarà prospero è ancora molto lontano e, nel frattempo, gli aiuti allo sviluppo sovvenzionano l'immigrazione. I politici europei dovrebbero smettere di dire ai loro elettori che gli aiuti allo sviluppo “stabilizzano l'immigrazione". La verità è che andrà peggio prima di migliorare».Lei sostiene da un lato che la crisi del 2015 ha messo a nudo la debolezza dell'Europa, incapace di controllare i propri confini, e dall'altro che la vera «corsa all'Europa» non è ancora iniziata. È ancora di questa opinione?«Assolutamente. Eppure occorre ricordare che quella del 2015 fu una crisi di rifugiati, legata ai conflitti in Siria, Iraq e Afghanistan. Mentre oggi parliamo di quell'immigrazione strutturale dall'Africa che riguarda i prossimi 30 anni. Ovviamente, molti immigrati (circa 300.000 africani) hanno approfittato delle “porte aperte" del 2015 per intrufolarsi. Ma la “corsa africana all'Europa" ancora deve iniziare. L'Ue si è impegnata in una corsa contro il tempo».Cioè?«Sia con i Paesi mediterranei che con gli Stati del Sahel vengono negoziati accordi bilaterali e vengono firmate “convenzioni sull'immigrazione" per bloccare qualsiasi massiccio afflusso di immigrati. Donald Trump sogna un “muro" al confine tra Usa e Messico, mentre l'Europa ne costruisce uno invisibile: un moderno limes in stile Roma in difesa di un nuovo impero. E lo fa con gli accordi “euro in cambio di politiche per immigrati". Ma di tanto in tanto le “porte" si apriranno per testare la macchina europea del cash».Ma l'Africa ha ancora bisogno di molteplici forme di aiuto, da quelli allo sviluppo, all'assistenza per il «potenziamento delle istituzioni»?«Personalmente, non credo che l'Africa debba ricevere assistenza diversa dagli aiuti di emergenza o da quelli umanitari per brevi periodi. Ma sappiamo tutti che molti governi chiedono aiuto e i Paesi ricchi, così come le fondazioni private e numerose Ong, sono ansiosi di erogarli: ieri in cambio di fedeltà geopolitica, oggi, per l'impegno a impedire l'immigrazione».A che cosa porterà a lungo andare?«Questa collusione tra élite al governo ha poco a che fare con un sincero desiderio di alleviare la difficile situazione degli africani. Da un lato, c'è un “business di beneficenza" e, dall'altro, una vera sindrome di dipendenza. L'Africa è di gran lunga il continente più assistito. Non credo siano incapaci di risolvere i loro problemi, ma non s'impegneranno fino a quando ci sarà la mano amica di un “salvatore" autonominato il quale, più che un santo, è parte interessata».Nel suo libro ipotizza tre possibili scenari per il futuro delle relazioni Europa-Africa: la «fortezza Europa» ostile, l'«Eurafrica» e un possibile ritorno ai protettorati in stile coloniale. Qual è quello più probabile?«Mi aspetto un mix di tutto ciò, qualcosa che io chiamo “scenario bric-a-brac". Fino a quando l'Africa subsahariana non avrà completato la sua transizione demografica come il resto del mondo, probabilmente tra tre generazioni da oggi, nessuna singola strategia può fornire un'alternativa».Una possibile soluzione?«Alla luce del gran numero di aspiranti immigrati, l'Europa dovrà anche far entrare gli africani temporaneamente. Diversi governi europei stanno già prendendo in considerazione forme di “migrazione circolatoria"».In che senso?«Politiche che consentirebbero agli africani - senza le loro famiglie - di venire e lavorare legalmente in Europa per un periodo di tempo limitato - tre o quattro anni - prima di tornare nel loro Paese d'origine come professionisti che hanno acquisito tutte le capacità e conoscenze. Al ritorno, consentirà a un connazionale di partire al posto suo per l'Europa».C'è chi guarda a lei come un provocatore. Uno che alimenta il populismo di destra.«Sono un africanista interessato alla “giovane Africa", e non soffio sotto il fuoco del dibattito sull'immigrazione in Europa. Il mio libro lo attesta, come qualsiasi lettore può facilmente verificare, e così anche i premi che ho ricevuto, tra cui un Grand prix dell'Accademia di Francia. Ma, alla fine, le verità scomode tendono a irritare, e non si può aiutare se l'una o l'altra parte, in un dibattito polarizzato, preferisce incolpare il messaggero invece di mettere in discussione il proprio punto di vista. Non sollevo lo spettro di un'africanizzazione dell'Europa, se non altro perché è già un dato di fatto». Dove in particolare?«Ad esempio, in Francia, una delle più importanti metropoli coloniali, nel 1950 vi furono circa 15.000 subsahariani; oggi, gli abitanti di prima e seconda generazione del Paese dal Sud del Sahara sono circa due milioni. La domanda per ogni Paese europeo, e per il continente nel suo insieme, è con quale velocità questo processo dovrebbe proseguire ulteriormente?».