La fine della Francia come nazione occidentale giudaico-cristiana è prossima. D'altronde il cattolicesimo si è quasi estinto e il Paese dei lumi è ormai per antonomasia la fabbrica dell'islamismo. Invece d'integrazione, assimilazione ed europeizzazione, la maggioranza dei musulmani in Francia persegue il multiculturalismo, la separazione e la divisione. Abbiamo provato a fare una fotografia ravvicinata delle cose chiacchierando con Yves Mamou, saggista di origini tunisine, già giornalista di Le Monde, autore de Il grande abbandono: le élite francesi e l'islamismo.
Pochi mesi fa l'attacco alla prefettura di Parigi che ha rivelato quello che è in verità un vecchio problema di infiltrazione. È vero che tra il 2012 e il 2016 sono stati scoperti 17 casi di poliziotti radicalizzati?
«Il numero oscilla tra i 17 e i 27 agenti di polizia sospettati di radicalizzazione. E non è escluso che ce ne siano di più. Ma non importa quanti sono, il problema è l'impotenza. Espellere tutti i musulmani da polizia ed esercito non sarebbe democratico: siamo la Francia, non la Cina. Eppure resta qualcosa di preoccupante e il governo ha paura di porre il problema pubblicamente».
È vera la storia secondo cui alcuni agenti di polizia si sono rifiutati di proteggere le sinagoghe e di osservare un minuto di silenzio per commemorare le vittime degli attentati terroristici?
«È successo a marzo 2016».
Come si è scoperto?
«Una nota confidenziale della polizia trapelò. E scoprimmo che la radio di un'auto della polizia trasmetteva sermoni islamici durante i pattugliamenti, e poi del rifiuto di proteggere una sinagoga e ancora di una poliziotta musulmana che parlava di “sporca uniforme francese". È tutto vero quanto inquietante. E abbiamo appena appreso - dicembre 2019 - che una trentina di soldati francesi si sono uniti, dal 2012, alla jihad in Siria e in Iraq».
Che cosa pensa della dichiarazione di Abdallah Zekri - «se l'è cercata» - in merito alla sedicenne Mila, minacciata di morte per aver insultato l'islam?
«Abdallah Zekri è membro del Consiglio francese per il culto musulmano, un organo che rappresenta i musulmani davanti al governo. Questo signore avrebbe dovuto calmare le acque, invece ha replicato con “se l'è cercata". Poi il ministro della Giustizia, Nicole Belloubet, si è schierata dalla parte di Abdallah Zekri e ha dichiarato che “insultare una religione è violare la libertà di coscienza". Così il caso Mila dimostra che il governo collabora con i principali organi dell'islam in Francia».
In che senso?
«Di recente, su una radio nazionale, un artista ha cantato che “Jesus is a fag" (Jesù è una checca). Non gli è successo niente. Mentre i musulmani qui si sentono sia giudici sia giuria. E offesi dagli insulti condannano e minacciano di morte. Lo hanno fatto con Mila, proprio come a Charlie Hebdo, quando si rifiutarono pure di osservare il minuto di silenzio in memoria delle vittime».
È questo che intendeva raccontare con il suo libro Il grande abbandono: élite francesi e islamismo?
«Ho scritto questo libro perché non capivo più come funzionava il mio Paese. Dopo l'attacco a Charlie Hebdo nel gennaio 2015, ho pensato che il governo avrebbe agito contro l'islamismo. Ho immaginato che avrebbe vietato la Fratellanza musulmana, chiuso le moschee salafite, espulso imam che predicavano odio, che avrebbe rintracciato i jihadisti...».
E invece?
«Non ha fatto niente di tutto ciò. È rimasto tutto uguale, le moschee come i predicatori d'odio. E l'estrema sinistra ha continuato a manifestare accanto ai predicatori, a islamisti e palestinesi».
Cos'altro ha scoperto?
«Ho fatto ricerche per due anni, ogni giorno e alla fine, mi sono reso conto che lo Stato, la giustizia, i media, tutte le strutture sono “orientate all'islam". Ho scoperto che c'è una “preferenza islamica" in Francia».
Tra attentati su larga scala e i crimini da coltello, il problema principale in Francia è il crimine di ingenuità nei confronti dell'islam?
«Credo che dobbiamo smetterla di considerare lo Stato come “ingenuo", “non informato"... C'è molta materia grigia nelle amministrazioni».
Allora qual è il problema?
«L'Europa occidentale ha fatto una scelta strategica non per combattere, ma per essere d'accordo con l'islamismo: si tratta di un errore strategico. Un po' come quando negli anni Trenta chi non voleva la guerra si schierò con Adolf Hitler. Abbiamo visto il risultato! Oggi migliaia di politici, giornalisti, alti funzionari pubblici, esperti, magistrati non ne vogliono sapere di una guerra all'islam».
Pagano un prezzo caro, però.
«Sì, e ogni giorno rinunciano a interi tasselli di indipendenza e cultura. Gli italiani velano le statue nude quando arriva il presidente iraniano a Roma e i francesi reintroducono il reato di blasfemia».
Niente ingenuità, solo vigliaccheria?
«Per essere coerenti con l'idea che è possibile andare d'accordo con l'islam, i leader europei mascherano la realtà. Quindi costringono la popolazione non musulmana e le vittime degli islamisti ad accettare l'idea che i jihadisti del coltello non siano “veri" musulmani, l'islam è pace e amore. Siamo nella fase che si mente per evitare di ammettere di star sbagliando tutto. Questa non è “ingenuità", è cinismo, associato a una forma di stupidità».
L'islam è un problema politico?
«L'islam è come l'Unione sovietica: un sistema politico e sociale inadeguato, senza fiato e che, per sopravvivere, divenne violento. Se vogliamo continuare a essere liberi nell'arte, nell'espressione, nel governo e nella cultura dobbiamo combattere la violenza islamica».
In Francia le donne velate sono ormai la normalità. Secondo lei il velo è semplicemente un simbolo religioso come alcuni ritengono, o il simbolo dell'identità e della differenza rispetto alle donne occidentali?
«Nelle società occidentali il velo è uno strumento per segnare il territorio. Gli islamisti vogliono che l'islam sia visibile ovunque. Il velo è l'uniforme di un esercito occupante. In Francia, nei distretti interamente controllati dai salafiti, il velo è il simbolo di una controsocietà. E un territorio in cui tutte le donne sono velate è un territorio preso dal nemico. Una zona dove né la polizia, né i vigili del fuoco, né il postino, né alcun non musulmano sono più accettati».
La letteratura circa il velo tende a osteggiare molto questa visione.
«La verità è che il velo funziona anche come un avvertimento. Ogni donna velata esistendo informa le altre donne che un giorno dovranno sottomettersi anche loro».
Come è stata percepita in Francia l'ufficializzazione dei 150 territori il cui controllo è stato perso dalla Repubblica?
«Tutti in Francia sanno che esistono “colonie" islamiche, cioè aree senza legge interamente controllate da salafiti e trafficanti di droga. Già nel 2016, Patrick Kanner, ministro della Città del governo Valls, aveva affermato che in Francia c'erano “100 Molenbeek". Cento o 150 poco importa, lo Stato non sta facendo nulla per riprendere il controllo di questi territori».
Secondo lei il numero è veritiero?
«Credo che sia considerevolmente sottovalutato. Michel Aubouin, ex prefetto, autore del libro 40 anni nelle città, afferma che ci sono circa 400 quartieri interamente sotto il controllo islamico in Francia. Ciò significa che, oggi, dai 4 ai 5 milioni di persone vivono completamente al di fuori delle leggi della Repubblica».
L'islamizzazione porterà alla guerra civile?
«Non lo so! La Francia è un Paese sorprendente. Accadranno cose inaspettate».
Quale ruolo svolge l'immigrazione nell'islamizzazione della Francia?
«Senza l'immigrazione musulmana non ci sarebbe l'islamizzazione della Francia. A partire dagli anni Settanta, le élite francesi incoraggiarono l'immigrazione musulmana per ridurre i costi del lavoro. Dagli anni Novanta, queste stesse élite incoraggiarono l'immigrazione musulmana per accelerare l'integrazione della Francia nell'Unione europea. L'islam è stato il martello che ha costretto i francesi a rinunciare alle loro specificità politiche, culturali e religiose».
A che punto è l'islamizzazione?
«L'islam libero e autorizzato ovunque, senza vincoli, in Francia e in Europa, è la prova che gli ostacoli culturali e religiosi sono stati rimossi».
L'uomo europeo non esiste più?
«L'Unione europea è fondamentalmente come il comunismo, ha il progetto dell'uomo nuovo, l'uomo europeo senza qualità. Il musulmano è l'uomo europeo senza qualità, il perfetto europeo».
Secondo lei l'antirazzismo serve a combattere il razzismo?
«L'antirazzismo non riguarda la lotta al razzismo. Ma a rimuovere qualsiasi ostacolo che impedisce l'espansione dell'islam».
Perché i media non dicono tutta la verità?
«Perché hanno paura di essere chiamati razzisti e islamofobi. Ti faccio un esempio: quando il mio libro è stato pubblicato, un giornalista della rivista Le Point mi ha intervistato, per poi ritirare il pezzo perché mi hanno giudicato come un “terribile razzista". Se la stampa italiana assomiglia a quella francese i tuoi colleghi ti guarderanno pensando: “Questa Lorenza Formicola sarà diventata un'islamofoba razzista un po' di estrema destra!"».
La dissidente iraniana esule negli States: «Il capo della Qods viene dipinto come una specie di zio gentile,ma ha sempre approvato gli omicidi politici del regime. Ha sconfitto l'Isis? No, la vittoria è merito degli Usa».
Masih Alinejad, dissidente iraniana, è protagonista della campagna My stealthy freedom: the right for individual iranian women to choose whether they want hijab (Il diritto individuale delle donne iraniane di scegliere se volere l'hijab, ndr). Ha lasciato il suo Paese nel 2009. Costretta a fuggire per le sue inchieste sulle brutalità del regime, oggi vive da esule volontaria negli Stati Uniti. Non ha mai smesso di far sentire la sua voce contro i difensori del velo, in primis nel mondo della politica. «Il velo non è questione da poco», commentò ad esempio quando Federica Mogherini si presentò velata in Iran. Quel Paese in cui non può più tornare e del quale le chiediamo all'indomani dell'uccisione di Qassem Soleimani.
Chi era davvero il generale, per una come lei che dall'Iran è scappata?
«Nelle fotografie ampiamente diffuse dopo l'uccisione di Soleimani, il comandante della Forza Qods della Rivoluzione della Repubblica islamica, con i suoi capelli bianchi come la neve, la barba elegante e le arcuate sopracciglia sale e pepe, lo vediamo come un gentile zio. Niente può essere più lontano dalla verità».
Perché?
«Soleimani non ha mai avuto alcuna reazione in questi anni contro gli omicidi di quanti hanno osato ostacolare la Repubblica islamica. Ha avuto sicuramente un ruolo nell'assassinio del primo ministro libanese, Rafik Harriri».
Quando nasce la buona reputazione che il generale conquistò in certi ambienti?
«Erano gli anni Ottanta. E Soleimani si guadagnava la buona fama durante la guerra degli otto anni con l'Iraq. Attraverso le Guardie rivoluzionarie divenne, nel 1998, capo della Forza Qods, la legione straniera della Repubblica islamica, scatenando guerre per procura nei Paesi vicini. Era il capo militare più temuto e ammirato della regione. Ma nonostante gli sforzi per ammorbidire la sua immagine, era anche temuto all'interno dell'Iran».
In che senso?
«Nel 1999, fu uno dei comandanti delle Guardie rivoluzionarie che scrisse al presidente Mohammad Khatami per esortarlo a reprimere gli studenti universitari».
E allora quando ha avuto il riconoscimento della comunità internazionale?
«La fama internazionale, il momento in cui ha iniziato a essere visto di buon occhio, è stato a nel 2013. Un lungo articolo del New Yorker lo consacrò come il “comandante ombra". La sua immagine era trasformata, e il regime iniziò a usarlo come parte integrante dei suoi sforzi propagandistici, anche per scopi domestici».
Ma Soleimani s'è speso per combattere l'Isis e la sua immagine, probabilmente ha acquisito un certo spessore anche in casa quando promise che avrebbe combattuto il Califfato in soli tre anni...
«Ma le sue tattiche e strategie hanno anche creato tensioni. Un grave contraccolpo c'è stato alla fine dello scorso anno, quando la gente in Libano e Iraq ha protestato contro la Repubblica islamica e Soleimani in particolare».
E allora le fotografie diffuse dai media delle migliaia e migliaia di persone a piangere il suo omicidio?
«Senza dubbio Soleimani ha avuto il sostegno dei fautori della linea dura e dei lealisti del regime. Tuttavia, il regime non aveva alternative. Nella città di Ahvaz, dove un gran numero di persone s'è mostrato in lutto per il generale, il governo ha costretto studenti e funzionari a partecipare».
In che modo?
«I trasporti sono stati resi accessibili a tutti gratuitamente e gli esercizi commerciali hanno avuto ordine di chiudere. Ho ricevuto video dall'Iran che mostrano come le autorità hanno fermato le lezioni e costretto i bambini a scrivere saggi per lodare il generale ucciso. Nelle aule sono state appese fotografie di Soleimani, accanto a quelle di Khomeyni. A quelli delle prime, che ancora non sanno bene scrivere e leggere, è stato chiesto di piangere. Eccola la macchina propaganda dell'Iran»!
E i media?
«I media nella Repubblica islamica sono fortemente controllati. Qualsiasi assemblea pubblica è consentita solo se a favore del regime. I critici vengono incarcerati o fucilati. Pertanto non è difficile usare tutti gli strumenti e le risorse dello Stato per organizzare una processione funebre ben nutrita».
Che ruolo ha giocato il generale Soleimani nella guerra in Siria?
«Alcuni analisti sostengono che lo Stato islamico sia stato una reazione dell'islam sunnita alla pesante mano degli sciiti in Iraq, attraverso la manipolazione del sistema politico da parte di Soleimani. Ha lavorato con le forze statunitensi, in particolare con l'aeronautica, per sconfiggere l'Isis, è vero. Ma non commettiamo errori, senza la potenza aerea degli Stati Uniti, la minaccia del sedicente Stato islamico non sarebbe ancora sradicata o indebolita».
Ma per «Repubblica islamica dell'Iran» cosa s'intende?
«La Repubblica islamica è una dittatura religiosa in cui il leader supremo ha l'ultima parola. Anche se non eletto, il leader supremo può rigettare il presidente e il Parlamento. In Iran non esiste la stampa libera, né elezioni libere: i candidati vengono controllati e la maggior parte viene respinta perché non sufficientemente qualificata dal punto di vista religioso. Sebbene le minoranze religiose siano tollerate, il numero di ebrei iraniani è diminuito da 100.000 prima della rivoluzione del 1979 a circa 9.000 oggi. E nel frattempo gli iraniani Bahai'i vengono perseguitati senza pietà. Le donne sono trattate come persone di seconda classe, non possono ottenere un passaporto o viaggiare all'estero senza il permesso dei loro mariti. Gli uomini hanno il diritto di affidamento in caso di divorzio e ottengono una quota maggiore di eredità. Naturalmente, le donne devono indossare l'hijab: obbligatorio dall'età di 7 anni».
Che cosa è successo durante le «Iran protests»?
«Lo scorso novembre, migliaia di iraniani sono scesi in piazza in tutto il Paese per protestare contro il regime, nella più grande sfida al governo clericale degli ultimi 40 anni. Secondo Reuters, oltre 1.500 persone sono state uccise dalle forze di sicurezza, tra cui unità della Guardia rivoluzionaria di Soleimani, e almeno 7000 sono state arrestate. Internet è stato chiuso per una settimana. Teheran non ha ancora rilasciato cifre ufficiali, il che suggerisce che il bilancio delle vittime potrebbe essere ancora più alto».
E cosa ha significato per il governo?
«I manifestanti hanno usato parole dure contro Soleimani e le sue “avventure straniere", gridando slogan contro il coinvolgimento dell'Iran in Siria o il suo sostegno a Hezbollah. È stato uno shock per il regime che ritrae Soleimani come il figlio adottivo del leader supremo Ali Khamenei».
«Avventure straniere»?
«Durante la guerra civile siriana, Soleimani inviò unità della Forza Qods a Damasco e Aleppo per sostenere Bashar Al Assad. Man mano che i ribelli guadagnavano terreno, venivano spedite sempre più unità della Forza Qods. Ha anche visitato Beirut per radunare i combattenti di Hezbollah e unirsi ad Assad. Il suo coinvolgimento ha colmato le lacune e ha acquistato spazio per le forze di Assad. Nel 2015 Soleimani è volato a Mosca diverse volte e ha incontrato Vladimir Putin per convincere anche la Russia a entrare in guerra. Con le sue azioni, Soleimani è responsabile della morte di 500.000 siriani e della crisi dei rifugiati siriani».
Quindi non tutti erano così dispiaciuti per la sua uccisione?
«Non si può negare che esista una piccola percentuale di iraniani che guarda con affetto alle Guardie rivoluzionarie. Ma la maggioranza li teme per la loro influenza e il potere che non ha eguali. Hanno le loro unità di intelligence che competono con il ministero dell'Intelligence».
Le Guardie rivoluzionarie hanno colpito anche la sua famiglia?
«Le dico solo che mio fratello è stato arrestato dalle Guardie rivoluzionarie islamiche il 23 settembre per il solo crimine di essere mio fratello. Di fronte ai suoi due figli è stato bendato e messo in manette».
Quando, nel 2014, Boko Haram aveva conquistato un territorio grande come il Belgio, circondando l'area di Maiduguri, la Conferenza episcopale nigeriana offrì la possibilità ai sacerdoti di abbandonare momentaneamente i propri fedeli, ma padre Joseph Fidelis rifiutò. Oggi lo sentiamo per provare a capire meglio la persecuzione cristiana in Nigeria.
Padre Joseph, non passa giorno in Nigeria senza che i cristiani vengano fatti a pezzi, nelle scuole, nelle chiese e nelle loro abitazioni. È un progetto di pulizia etnica dei musulmani?
«Gli attacchi ai cristiani sono frequenti, non esattamente quotidiani. Ma i cristiani, specialmente nella parte settentrionale del Paese, sono emarginati, perseguitati, aggrediti fisicamente. Trattati con disprezzo, privati di alcuni diritti a scuola, nella società, nella quotidianità. Per noi è una sfida costante per la sopravvivenza e le cose stanno peggiorando. Gli attentati nei villaggi di Riyom e di Barkin Ladi, nello stato di Plateau, di Kajuru, nello stato di Kaduna e il massacro di Agatu nello stato di Benue, sono solo alcuni dei massacri più noti che hanno tutte le sembianze di una pulizia etnica».
Che cosa vuol dire vivere in Nigeria oggi?
«Nonostante si tratti di un Paese ricco, pieno di risorse, vivere in Nigeria, negli ultimi anni, è diventato difficile, preoccupante e pericoloso. I nigeriani non si sentono al sicuro, l'economia, specie a Nord Est, è disastrosa, le attività educative sono ostacolate e in generale la vita sociale è ai minimi termini».
Quali sono le zone più pericolose?
«Il Nord Est è costantemente sotto minaccia per le attività terroristiche di Boko Haram e i rapimenti sono in aumento. Nella fascia centrale, ci sono frequenti conflitti intertribali, nel Sud Est vi è l'incombenza dei Fulani che tra rapimenti e ladri armati hanno mutilato gli agricoltori e costretto alla fuga interi villaggi. Tutto ciò rende la vita impossibile. Ma siamo gente piena di speranza, riusciremo a superare tutto questo».
Ritorna spesso il nome Boko Haram anche nella cronaca occidentale. Si può dire chi sono?
«Boko Haram è un gruppo islamico salafita, il cui nome originario è Jamāʿat Ahl al-Sunna li-daʿwa wa l-Jihād, persone impegnate nell'insegnamento del profeta e del jihad. Più in generale si tratta di un movimento religioso fondato da Yusuf Mohammed e che cerca di contrastare il cristianesimo e tutto ciò che riguarda la civiltà occidentale (democrazia, educazione, forme di abbigliamento e cultura): gli occidentali sono infedeli. L'attuale leader, Abubakr Shekau, è orgoglioso di combattere il jihad, la guerra santa contro i cristiani, il mondo occidentale. E, contrario alle istituzioni democratiche - ostacolo alla supremazia divina di Allah - coltiva il desiderio di stabilire un califfato secondo gli insegnamenti e principi di Maometto».
E perché quando si parla di persecuzione ai cristiani nessuno sottolinea mai che si tratta soprattutto di una persecuzione islamica?
«A livello globale c'è il timore di essere etichettati come islamofobi. Così, piuttosto che combattere le forme di intolleranza e discriminazione religiosa, l'Europa e l'America sono cadute preda del cliché di essere viste come islamofobe».
Può solo questo orientare la comunicazione politica?
«Il problema è il politicamente corretto. I leader politici e le grandi organizzazioni globali evitano di denunciare il crimine e condannare il terrorismo, e così facendo stanno diventando indifferenti, mentre fingono di promuovere la globalizzazione. Senza dubbio ogni religione può scadere nell'estremismo, ma l'oppressione delle minoranze e l'esclusione dell'altro è l'attività preferita dei gruppi islamici. Basta guardare all'Isis, Al Qaeda, Boko Haram, Al Shabab. Le principali organizzazioni terroristiche hanno nell'islam la loro origine. Detto ciò, ci saranno anche musulmani moderati, ma credo che se della persecuzione ai cristiani si evita di parlare, è perché si teme di essere mal visti».
In un articolo sullo Spectator di un po' di tempo fa, Douglas Murray domandava: «Chi proteggerà i cristiani nel Nord della Nigeria?» Faccio la stessa domanda a lei.
«Solo Dio può proteggere i cristiani nigeriani. Troppo pochi sono disposti a fare qualcosa per noi. Il che è scoraggiante e vergognoso, persino da parte di quelli che crediamo siano i nostri fratelli cristiani a livello nazionale e internazionale. Esiste qualche nazione, organizzazione o personaggio di spicco che intende proteggerci?».
Qualcuno ha risposto?
«No! Oggi tutti sembrano disposti a sostenere qualsiasi battaglia, ma per i cristiani perseguitati non c'è tempo. Siamo lasciati soli al nostro destino. Ci sentiamo abbandonati, emarginati, esclusi. Ho rivolto il mio appello anche in Italia. E mi è toccata la peggiore delle sensazioni: essere abbandonato da quelli con cui pensi di condividere la stessa fede. Una volta una donna mi ha chiesto: ma dove sono tutti i nostri fratelli e sorelle cristiani?».
Secondo Philip Jenkins, uno dei massimi esperti di cristianesimo, è in Nigeria che verrà deciso l'equilibrio tra islam e cristianesimo in Africa. È d'accordo?
«La Nigeria potrebbe anche non rappresentare il Paese con il maggior numero di cristiani in Africa, ma è sicuramente il Paese più popoloso del continente. Secondo l'ultimo rapporto di Aiuto alla Chiesa che soffre, la Nigeria è tra i cinque Paesi con la peggiore forma di persecuzione. E sì, tutti i dati e gli indici raccontano che questo sarà un campo di battaglia, visto anche il tentativo di aumentare la popolazione musulmana nel Nord».
D'altronde, già nel 1987 i musulmani al grido di «Solo l'islam!» attaccavano chiese e negozi cristiani. L'obiettivo di questi massacri sembra essere quello di cambiare la geografia religiosa e demografica del continente africano. Dopo anni oggi ci stanno riuscendo?
«È evidente il piano sottile per aumentare il dominio islamico sull'Africa. Nuove moschee vengono costruite ogni giorno, guerre e conflitti hanno la colorazione religiosa dell'islam che tenta di prendere il comando. Boko Haram nasce allo scopo di promuovere la vera pratica dell'islam, di implementare la sharia e di espellere gli infedeli (come chiamano i cristiani). Anche i pastori Fulani sono di estrazione islamica. Pertanto sì, ci stanno riuscendo».
Padre, è vero che i cristiani in Nigeria li chiamano «i bianchi»?
«In una certa misura i cristiani sono visti come la continuazione della presenza europea, e il cristianesimo è considerato la religione dell'uomo bianco».
Nel 2018 i cristiani uccisi per la propria fede nel mondo, secondo Open doors, sono stati 4.305. Di questi, 3.731 sono stati uccisi in Nigeria. Perché le gerarchie ecclesiastiche e la comunità internazionale non fanno niente?
«La conferenza episcopale nigeriana si è mossa molto, anche per promuovere manifestazioni pacifiche di condanna per le uccisioni dei due sacerdoti, padre Felix Tyolah e padre Joseph Gor. Sono stati fatti sforzi, ma a livello locale. La comunità internazionale fa molto poco nonostante l'indice globale del terrorismo islamico parli chiaramente».
E perché?
«Sono il primo a chiedermi cosa sta succedendo. Cosa potrebbe spiegare questa scarsa azione delle comunità e degli attori globali? Perché non arriva la condanna di tutto il mondo?».
Come sarà il Natale in Nigeria? Quali pericoli correte voi sacerdoti e i cattolici tutti?
«C'è molta apprensione e ansia. A Maiduguri, le strade stanno diventando impraticabili, solo la scorsa settimana ci sono stati due rapimenti. In Nigeria, in generale, si temono attentati mortali durante le festività natalizie. Le agenzie di sicurezza stanno rafforzando la sicurezza».
Avete avuto delle direttive su come comportarvi?
«Sì. Suggerimenti circa sicurezza e messaggistica sono già stati divulgati. Il normale fervore e l'euforia con cui viene celebrato il Natale non ci saranno qui. Ma in quanto cristiani non ci facciamo intimidire da pressioni e paure. Non smetteremo di celebrare e festeggiare la nascita di Gesù. Certo, con cautela e la speranza che non succeda nulla di grave».
Preferirebbe esercitare il suo ministero altrove?
«Giammai. Quando sono stato via è stato per studiare in Italia. E l'ho fatto per tornare dalla mia gente più preparato. Ora, più che mai, il mio popolo ha bisogno di noi sacerdoti cattolici. Resterò qui, a Maiduguri, nel cuore della crisi. Tra le minacce e i pericoli è proprio qui che possiamo portare Cristo e il suo messaggio!».
Qualcuno le ha chiesto chi gliel'ha fatto fare di tornare?
«Sì, in molti. Eppure non sono alla ricerca di un martirio facile, ma se deve essere, così sia. La mia fede e la mia gente sono un gioiello prezioso: vale la pena difenderli anche a costo della vita».
Come andrà a finire?
«Spero che questa crisi finirà. Ma se così non andrà, vivremo come cristiani e moriremo come tali. Perché come dice San Paolo, “per me infatti il vivere è Cristo, e il morire un guadagno"».





