
«Dobbiamo rafforzare le nostre frontiere esterne. Dobbiamo ridurre l’afflusso di migranti in Europa». Sono parole del premier danese, la socialdemocratica Mette Frederiksen, ma potrebbe averle pronunciate Giorgia Meloni. Della quale, peraltro, la leader della sinistra scandinava studia il modello Albania, in quanto «soluzione innovativa» al problema degli ingressi illegali di stranieri nell’Ue. Copenaghen guiderà il semestre europeo, fino alla fine del 2025, e il primo ministro, ieri, dinanzi alla plenaria di Strasburgo, ha messo in chiaro quale sarà la priorità della sua presidenza: «Dobbiamo aiutare a stabilizzare i Paesi vicini e rendere il processo di rimpatrio più facile e, naturalmente, anche più efficiente».
Frederiksen potrebbe chiacchierare con i nostri giudici. Quelli dei tribunali ordinari, prima, e delle Corti d’Appello, poi, che hanno bocciato i trattenimenti dei clandestini a Gjadër; quelli della Cassazione, il cui ufficio del Massimario e del ruolo ha espresso dubbi di costituzionalità sul protocollo con Tirana; e quelli della Consulta, che rischiano di lasciare il sistema dei Cpr esposto a una valanga di ricorsi, in nome di un garantismo verso le libertà personali dei migranti che, però, latitava dei dpcm di Giuseppe Conte, che misero gli italiani in lockdown. In fondo le toghe hanno sempre proclamato il dogma del primato del diritto dell’Ue; possono forse rinnegare il loro credo proprio ora che il vento, a Bruxelles, sta cambiando?
La premier danese ha fatto ammissioni importanti: «La migrazione è una sfida per l’Europa, che incide sulla vita delle persone e sulla coesione delle nostre società». E a proposito della ventilata stretta, ha aggiunto: «Ciò che è stato mainstream tra le nostre popolazioni per molti anni è ora finalmente mainstream anche per molti di noi politici. Forse non nel Parlamento, ma per fortuna, e ne sono davvero felice, nel Consiglio europeo». Una capofila del Partito socialista europeo riconosce così che la politica è stata troppo a lungo sorda al grido di esasperazione degli elettori. E che la democrazia funziona meglio a livello dei singoli Stati - quelli riuniti nel Consiglio, dove si prendono davvero le decisioni - che non a livello delle istituzioni comunitarie, come l’Eurocamera. Anche se la presidente del legislativo Ue, Roberta Metsola, ha assicurato che l’assemblea «si sta impegnando a far progredire rapidamente la normativa sui rimpatri, il che contribuirà a garantire che le decisioni in materia siano applicate in modo armonizzato e che i nostri sistemi di asilo rimangano credibili e sostenibili». «Lei non sa da quanto tempo noi conservatori aspettavamo queste parole da una leader socialista», ha risposto alla Frederiksen Nicola Procaccini, capogruppo di Ecr, presente al dibattito e comunque critico sulla pervicacia della danese nel promuovere l’agenda green.
Le prossime mosse dell’Europa, in effetti, saranno determinanti per neutralizzare l’opposizione della magistratura italiana al giro di vite perseguito dalla Meloni.
In ballo non ci sono solamente le procedure comuni sui rimpatri, inclusa la possibilità di riportare gli irregolari negli Stati di transito, ma pure la questione della lista unica dei Paesi sicuri, che tanto scompiglio ha recato, quando i giudici liberavano bengalesi ed egiziani trasportati al di là dell’Adriatico, con il pretesto che le loro nazioni d’origine fossero pericolose per la loro incolumità e che gli elenchi stilati dal nostro esecutivo, ora con decreto interministeriale e ora con decreto legge, provenissero da fonti subordinate rispetto al Moloch di Bruxlles. Pende ancora un procedimento presso la Corte di giustizia Ue, chiamata a stabilire se le «eccezioni» territoriali, a suo parere escluse dalla normativa comunitaria in vigore, possano o non possano essere ammesse nel caso di specifiche categorie di persone. Per intenderci: si può rimandare un migrante a Dacca, dove l’integrità dei gay non è propriamente garantita, se si accerta che egli non corre il rischio di essere perseguitato per motivi legati al suo orientamento sessuale? Il regolamento che entrerà in vigore a giugno 2026 taglia la testa al toro e ammette esplicitamente la possibilità di tali eccezioni. Anticiparne in qualche modo l’effettività potrebbe portare finalmente a regime la struttura balcanica, alla quale Meloni aveva destinato un investimento politico cruciale. Ammesso che il governo italiano, intanto, risolva il problema della legge sui Cpr, sollecitata dalla Corte costituzionale, precisando i «modi» delle restrizioni imposte alle persone trattenute in attesa dell’espulsione.
Il mutamento negli orientamenti di Bruxelles sarà la cartina di tornasole per stanare i magistrati: molleranno il colpo? Avendo invocato ogni volta la primazia dell’ordinamento comunitario rispetto a quello nazionale - sulla quale, beninteso, sarebbe stato invece lecito aprire una discussione - prenderanno atto che, sull’immigrazione, la volontà politica, persino quella espressa dalle sinistre, si è evoluta? Oppure, all’improvviso, il diritto dell’Ue cesserà di essere un totem? E, da sotto la veste nera, affiorerà la toga rossa?






