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2025-03-23
Berlino ha scassato i conti dell'Ue per 15 anni
Si riarma solo la Germania, ma guai a fiatare, guai a riflettere, guai a problematizzare. È tutto necessario, urgente, inevitabile, «e più non dimandare».
Ieri, il presidente della Repubblica tedesco, Frank-Walter Steinmeier, ha promulgato la legge di riforma costituzionale che elimina il freno al debito per il piano Merz, probabile futuro cancelliere della Cdu: un mega investimento da 1.000 miliardi in Difesa, protezione climatica e infrastrutture. Una svolta storica che ha sollevato anche qualche critica, non foss’altro per la piega che hanno preso gli eventi. Viste le conclusioni del Consiglio europeo e i contenuti del Libro bianco della Difesa dell’Ue, infatti, sembra si siano smaterializzati gli 800 miliardi di debito comune promessi da Ursula von der Leyen in nome della dottrina Draghi. Al loro posto, rimane una esangue garanzia pubblica da 150 miliardi sugli investimenti privati, pretesa dall’Italia, che teme di mettere a repentaglio i propri conti. Paradossalmente, Romano Prodi ha ragione: quelli di «Prontezza 2030» sono «passi ancora troppo prudenti». Per non dire funzionali a quello che l’ex premier definisce il «ragionamento limpido» di Berlino, l’unica capitale davvero pronta a spendere e spandere per riempire gli arsenali. «Nel 2030 avrà un esercito più forte di quello francese», prevede il padre nobile della sinistra. Scusate se è poco: è l’esito opposto a quello auspicato dai fondatori dell’Europa, che negli anni Cinquanta cominciarono a valutare la Difesa comune. All’epoca, lo scopo della collaborazione era blindarsi contro la minaccia sovietica, evitando però che la Germania prendesse iniziative autonome. Alla fine, la Francia fece saltare il banco e la Repubblica federale venne riarmata sotto l’egida della Nato. Adesso, sta avvenendo il contrario: i tedeschi si muovono in solitaria. Da noi, però, farsi cogliere da pruriti è considerato un tic da «sedicenti opinionisti, poco informati o in malafede», che evocano a sproposito il nazismo. La reductio ad Hitlerum è buona solo se la si usa contro Afd.
Così scriveva ieri il Corriere della Sera, nella pagina accanto all’intervista a Prodi. Il quotidiano di via Solferino citava l’ex vicecancelliere verde, Joschka Fischer, secondo cui il dibattito sulle mosse della Germania è «grottesco e assurdo», perché «il militarismo prussiano è stato seppellito» per sempre e il Paese è ormai «una democrazia forte». Nessuno lo mette in dubbio: davvero le firme di punta della stampa d’élite sostengono che i grattacapi sul riarmo tedesco siano figli della paura dei «fantasmi» hitleriani?
La Wermacht e le SS non c’entrano niente; nessuno insinua che il Reich tornerà a cercare «spazio vitale» per la razza ariana a Est. I nodi sono altri.
Primo: il rumore prodotto dalla presidente della Commissione Ue, guarda caso una cristiano-democratica tedesca, insieme al disinvolto rinnegamento del rigore di bilancio, saranno mica un mezzuccio per consentire alla Germania di sistemare i suoi problemi interni? Il divorzio dalle fonti energetiche russe a basso costo e la sconsiderata transizione ecologica hanno messo in ginocchio l’automotive; e Berlino ha bisogno, dopo quella ambientale, che è fallita, di una riconversione bellica dell’industria.
Secondo: fino ad oggi, l’egemonia tedesca sul continente si è basata sul trinomio moneta-regole-commercio. L’euro, deprezzato per la Germania e apprezzato per le altre nazioni, è stato un volano per l’export; i parametri di finanza pubblica sono stati uno strumento di controllo politico; il surplus era l’obiettivo mercantilista di ricostruzione della primazia nazionale su basi pacifiche, dopo il tracollo del 1945. Una Germania di nuovo in armi scompagina questo assetto imperiale e configura l’altra riconversione tedesca: da un’egemonia fondata sull’economia a un’egemonia fondata sull’esercito. Ossia, sulla capacità di influenzare la politica estera europea.
Vuol dire che i Leopard marceranno nella steppa? No. Ciononostante, trovarsi sottoposti al giogo degli interessi teutonici, non sarà poi un grande affare per noi. Per carità, niente paragoni col nazismo, niente reductio ad Hitlerum. Però, l’ultima volta che provarono a convincerci che «la Germania è veramente vostra amica», non andò benissimo…
Mentre imponeva il rigore agli altri Berlino ha rotto l’Europa con l’export
Quanto sono rigorosi questi tedeschi. Tantissimo se si tratta di chiedere agli altri di rispettare le regole che gli hanno imposto, decisamente meno se devono applicare lo stesso principio su di loro.
E così è successo, ma questa è storia, che negli anni Berlino abbia fatto da capofila dei falchi del rigore europeo. Guai a chi non rispettava i temutissimi parametri del 3% del rapporto tra deficit e Pil e del 60% tra il debito e il prodotto interno lordo. Se lo sforamento riguardava uno solo dei due paletti e il gap non andava oltre qualche decimale si poteva anche chiudere un occhio, altrimenti partivano sanzioni e rimbrotti che spesso avevano l’obiettivo di essere un esempio per gli altri.
I casi Grecia e Pigs (Portogallo, Italia, Grecia, Spagna) sono esemplificativi e purtroppo hanno segnato, in negativo, la storia dell’Unione Europea. Anche perché negli stessi anni in cui Berlino predicava rigore e rispetto delle regole, c’era un’altra Germania, probabilmente non si parlava con la prima, che non rispettava le norme imposte da Bruxelles.
Dal 2011, la Commissione europea ha approvata la cosiddetta riforma Six Pack: una serie di novità introdotte al Patto di stabilità e crescita. L’obiettivo era quello di porre rimedio a una serie di squilibri economici che si erano venuti a creare negli anni. Il più evidente riguarda il limite entro il quale tenere le partite correnti della bilancia dei pagamenti. Normale che la differenza tra esportazioni e importazioni di beni e di servizi di un Paese non possano essere in pareggio, ma l’Europa chiede agli Stati membri di non superare la forchetta che va dal -4 al +6% del Pil. Motivo? Avendo tutti la stessa moneta, un surplus eccessivo comporta deficit rilevanti di altri Paesi accentuando quindi le disparità economiche tra i membri. Non solo. Perché un surplus eccessivo è spesso legato a un eccesso di risparmio interno e a una carenza di investimenti pubblici per dare vigore alla domanda interna. E visto che grossi surplus commerciali non sono quasi mai legati solo all’area euro, ma hanno una portata internazionale, quasi sempre creano tensioni internazionali.
Ecco, il problema si accentua se a violare ripetutamente e senza dare segni di ravvedimento il parametro del 6% è la locomotiva d’Europa, cioè la Germania. Secondo Eurostat, infatti, solo nel 2011 Berlino era rimasta (per un pelo) nel tetto, arrivando al 5,9%. Ma in seguito il suo deficit commerciale ha continuato incessantemente a crescere. Prima il 6,4% (siamo nel 2012), poi il 6,6% (nel 2013), quindi il 7% nel 2014 e il 7,4% nel 2015 fino alle escalation degli anni successivi, 8,1% nel 2016, 8,4% nel 2017 e 8% appena 12 mesi dopo. È vero che dal 2020 in poi le percentuali di sbilancio si riducono e in un anno, il 2022, viaggiano intorno al 4,4 del Pil, ma non certo perché la Germania ha rivoluzionato al sua politica commerciale. Le motivazioni sono esogene e indipendenti dalla volontà di Berlino. Il Covid da un lato e la guerra in Ucraina dall’altra sono fenomeni che hanno impattato sull’economia mondiale e hanno di certo ridotto i flussi commerciali tedeschi, ma i cancellieri ne avrebbero fatto volentieri a meno.
Per chiarire, la cornice di regole nella quale si muove il Six Pack è meno ferrea e più discrezionale rispetto a quella dei Trattati Ue, insomma non ci sono regole numeriche e soglie automatiche che fanno scattare sanzioni o procedure d’infrazione, ma dal punto di vista dell’equilibrio economico del Vecchio continente, le continue violazioni della Germania (che peraltro se n’è infischiata delle raccomandazioni) sono anche più gravi perché minano gli equilibri interni all’Unione, rafforzano l’euro e indeboliscono la capacità competitiva dei Paesi più deboli. Insomma, l’eccesso di surplus delle partite commerciali è stato per anni uno dei pilastri di un’Europa berlinocentrica che appiattiva l’economia degli altri Stati a tutto vantaggio dei tedeschi, ma, eccetto sparute eccezioni, per i politici di Bruxelles e tedeschi, questo non è mai stato un problema.
Del resto la Germania, da questo punto di vista, si è fatta da anni la bocca buona. Non è certo dal 2011 che l’economia tedesca può contare su un robusto avanzo commerciale. Almeno dagli anni Ottanta, infatti, le varie cancellerie che si sono succedute hanno potuto contare su esportazioni che superavano e non di poco le importazioni. Ma l’exploit è iniziato con la globalizzazione e il processo di disarticolazione della catena produttiva che un’economia manifatturiera così forte ha avuto gioco facile a mettere in atto. Mi serve un componente di nicchia che mi manca? Lo prendo in Polonia. Ho bisogno di di forniture a basso costo? Posso rivolgermi alla Cina. Il mix di qualità a costi non eccessivi ha fatto sì che il made in Germany diventasse ancor più dominante. E che l’export esplodesse. A discapito ovviamente di buona parte delle economie europee. Così un fattore che per le dalle Commissioni dell’austerity è stato trattato come un dettaglio, per anni ha imbrigliato il mercato europeo, e, seppur in modo minore, lo sta zavorrando anche adesso.
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Il «Corriere» ridicolizza i dubbi sul piano Merz: «Critici disinformati o in malafede». Ma la mossa tedesca è davvero un rischio: riconverte l’industria minando la stabilità Ue.Dal 2011 (eccetto gli anni di guerra e Covid) i cancellieri hanno sforato il 6% della bilancia commerciale indebolendo gli Stati dell’Unione. Alla faccia dell’austerity che ha portato alla rovina di Grecia e Pigs.Lo speciale contiene due articoli.Si riarma solo la Germania, ma guai a fiatare, guai a riflettere, guai a problematizzare. È tutto necessario, urgente, inevitabile, «e più non dimandare». Ieri, il presidente della Repubblica tedesco, Frank-Walter Steinmeier, ha promulgato la legge di riforma costituzionale che elimina il freno al debito per il piano Merz, probabile futuro cancelliere della Cdu: un mega investimento da 1.000 miliardi in Difesa, protezione climatica e infrastrutture. Una svolta storica che ha sollevato anche qualche critica, non foss’altro per la piega che hanno preso gli eventi. Viste le conclusioni del Consiglio europeo e i contenuti del Libro bianco della Difesa dell’Ue, infatti, sembra si siano smaterializzati gli 800 miliardi di debito comune promessi da Ursula von der Leyen in nome della dottrina Draghi. Al loro posto, rimane una esangue garanzia pubblica da 150 miliardi sugli investimenti privati, pretesa dall’Italia, che teme di mettere a repentaglio i propri conti. Paradossalmente, Romano Prodi ha ragione: quelli di «Prontezza 2030» sono «passi ancora troppo prudenti». Per non dire funzionali a quello che l’ex premier definisce il «ragionamento limpido» di Berlino, l’unica capitale davvero pronta a spendere e spandere per riempire gli arsenali. «Nel 2030 avrà un esercito più forte di quello francese», prevede il padre nobile della sinistra. Scusate se è poco: è l’esito opposto a quello auspicato dai fondatori dell’Europa, che negli anni Cinquanta cominciarono a valutare la Difesa comune. All’epoca, lo scopo della collaborazione era blindarsi contro la minaccia sovietica, evitando però che la Germania prendesse iniziative autonome. Alla fine, la Francia fece saltare il banco e la Repubblica federale venne riarmata sotto l’egida della Nato. Adesso, sta avvenendo il contrario: i tedeschi si muovono in solitaria. Da noi, però, farsi cogliere da pruriti è considerato un tic da «sedicenti opinionisti, poco informati o in malafede», che evocano a sproposito il nazismo. La reductio ad Hitlerum è buona solo se la si usa contro Afd.Così scriveva ieri il Corriere della Sera, nella pagina accanto all’intervista a Prodi. Il quotidiano di via Solferino citava l’ex vicecancelliere verde, Joschka Fischer, secondo cui il dibattito sulle mosse della Germania è «grottesco e assurdo», perché «il militarismo prussiano è stato seppellito» per sempre e il Paese è ormai «una democrazia forte». Nessuno lo mette in dubbio: davvero le firme di punta della stampa d’élite sostengono che i grattacapi sul riarmo tedesco siano figli della paura dei «fantasmi» hitleriani?La Wermacht e le SS non c’entrano niente; nessuno insinua che il Reich tornerà a cercare «spazio vitale» per la razza ariana a Est. I nodi sono altri.Primo: il rumore prodotto dalla presidente della Commissione Ue, guarda caso una cristiano-democratica tedesca, insieme al disinvolto rinnegamento del rigore di bilancio, saranno mica un mezzuccio per consentire alla Germania di sistemare i suoi problemi interni? Il divorzio dalle fonti energetiche russe a basso costo e la sconsiderata transizione ecologica hanno messo in ginocchio l’automotive; e Berlino ha bisogno, dopo quella ambientale, che è fallita, di una riconversione bellica dell’industria.Secondo: fino ad oggi, l’egemonia tedesca sul continente si è basata sul trinomio moneta-regole-commercio. L’euro, deprezzato per la Germania e apprezzato per le altre nazioni, è stato un volano per l’export; i parametri di finanza pubblica sono stati uno strumento di controllo politico; il surplus era l’obiettivo mercantilista di ricostruzione della primazia nazionale su basi pacifiche, dopo il tracollo del 1945. Una Germania di nuovo in armi scompagina questo assetto imperiale e configura l’altra riconversione tedesca: da un’egemonia fondata sull’economia a un’egemonia fondata sull’esercito. Ossia, sulla capacità di influenzare la politica estera europea.Vuol dire che i Leopard marceranno nella steppa? No. Ciononostante, trovarsi sottoposti al giogo degli interessi teutonici, non sarà poi un grande affare per noi. Per carità, niente paragoni col nazismo, niente reductio ad Hitlerum. Però, l’ultima volta che provarono a convincerci che «la Germania è veramente vostra amica», non andò benissimo…<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/europa-germania-conti-2671383844.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="mentre-imponeva-il-rigore-agli-altri-berlino-ha-rotto-leuropa-con-lexport" data-post-id="2671383844" data-published-at="1742676494" data-use-pagination="False"> Mentre imponeva il rigore agli altri Berlino ha rotto l’Europa con l’export Quanto sono rigorosi questi tedeschi. Tantissimo se si tratta di chiedere agli altri di rispettare le regole che gli hanno imposto, decisamente meno se devono applicare lo stesso principio su di loro. E così è successo, ma questa è storia, che negli anni Berlino abbia fatto da capofila dei falchi del rigore europeo. Guai a chi non rispettava i temutissimi parametri del 3% del rapporto tra deficit e Pil e del 60% tra il debito e il prodotto interno lordo. Se lo sforamento riguardava uno solo dei due paletti e il gap non andava oltre qualche decimale si poteva anche chiudere un occhio, altrimenti partivano sanzioni e rimbrotti che spesso avevano l’obiettivo di essere un esempio per gli altri. I casi Grecia e Pigs (Portogallo, Italia, Grecia, Spagna) sono esemplificativi e purtroppo hanno segnato, in negativo, la storia dell’Unione Europea. Anche perché negli stessi anni in cui Berlino predicava rigore e rispetto delle regole, c’era un’altra Germania, probabilmente non si parlava con la prima, che non rispettava le norme imposte da Bruxelles. Dal 2011, la Commissione europea ha approvata la cosiddetta riforma Six Pack: una serie di novità introdotte al Patto di stabilità e crescita. L’obiettivo era quello di porre rimedio a una serie di squilibri economici che si erano venuti a creare negli anni. Il più evidente riguarda il limite entro il quale tenere le partite correnti della bilancia dei pagamenti. Normale che la differenza tra esportazioni e importazioni di beni e di servizi di un Paese non possano essere in pareggio, ma l’Europa chiede agli Stati membri di non superare la forchetta che va dal -4 al +6% del Pil. Motivo? Avendo tutti la stessa moneta, un surplus eccessivo comporta deficit rilevanti di altri Paesi accentuando quindi le disparità economiche tra i membri. Non solo. Perché un surplus eccessivo è spesso legato a un eccesso di risparmio interno e a una carenza di investimenti pubblici per dare vigore alla domanda interna. E visto che grossi surplus commerciali non sono quasi mai legati solo all’area euro, ma hanno una portata internazionale, quasi sempre creano tensioni internazionali. Ecco, il problema si accentua se a violare ripetutamente e senza dare segni di ravvedimento il parametro del 6% è la locomotiva d’Europa, cioè la Germania. Secondo Eurostat, infatti, solo nel 2011 Berlino era rimasta (per un pelo) nel tetto, arrivando al 5,9%. Ma in seguito il suo deficit commerciale ha continuato incessantemente a crescere. Prima il 6,4% (siamo nel 2012), poi il 6,6% (nel 2013), quindi il 7% nel 2014 e il 7,4% nel 2015 fino alle escalation degli anni successivi, 8,1% nel 2016, 8,4% nel 2017 e 8% appena 12 mesi dopo. È vero che dal 2020 in poi le percentuali di sbilancio si riducono e in un anno, il 2022, viaggiano intorno al 4,4 del Pil, ma non certo perché la Germania ha rivoluzionato al sua politica commerciale. Le motivazioni sono esogene e indipendenti dalla volontà di Berlino. Il Covid da un lato e la guerra in Ucraina dall’altra sono fenomeni che hanno impattato sull’economia mondiale e hanno di certo ridotto i flussi commerciali tedeschi, ma i cancellieri ne avrebbero fatto volentieri a meno. Per chiarire, la cornice di regole nella quale si muove il Six Pack è meno ferrea e più discrezionale rispetto a quella dei Trattati Ue, insomma non ci sono regole numeriche e soglie automatiche che fanno scattare sanzioni o procedure d’infrazione, ma dal punto di vista dell’equilibrio economico del Vecchio continente, le continue violazioni della Germania (che peraltro se n’è infischiata delle raccomandazioni) sono anche più gravi perché minano gli equilibri interni all’Unione, rafforzano l’euro e indeboliscono la capacità competitiva dei Paesi più deboli. Insomma, l’eccesso di surplus delle partite commerciali è stato per anni uno dei pilastri di un’Europa berlinocentrica che appiattiva l’economia degli altri Stati a tutto vantaggio dei tedeschi, ma, eccetto sparute eccezioni, per i politici di Bruxelles e tedeschi, questo non è mai stato un problema. Del resto la Germania, da questo punto di vista, si è fatta da anni la bocca buona. Non è certo dal 2011 che l’economia tedesca può contare su un robusto avanzo commerciale. Almeno dagli anni Ottanta, infatti, le varie cancellerie che si sono succedute hanno potuto contare su esportazioni che superavano e non di poco le importazioni. Ma l’exploit è iniziato con la globalizzazione e il processo di disarticolazione della catena produttiva che un’economia manifatturiera così forte ha avuto gioco facile a mettere in atto. Mi serve un componente di nicchia che mi manca? Lo prendo in Polonia. Ho bisogno di di forniture a basso costo? Posso rivolgermi alla Cina. Il mix di qualità a costi non eccessivi ha fatto sì che il made in Germany diventasse ancor più dominante. E che l’export esplodesse. A discapito ovviamente di buona parte delle economie europee. Così un fattore che per le dalle Commissioni dell’austerity è stato trattato come un dettaglio, per anni ha imbrigliato il mercato europeo, e, seppur in modo minore, lo sta zavorrando anche adesso.
In Toscana un laboratorio a cielo aperto, dove con Enel il calore nascosto della Terra diventa elettricità, teleriscaldamento e turismo.
L’energia geotermica è una fonte rinnovabile tanto antica quanto moderna, perché nasce dal calore naturale generato all’interno della Terra, sotto forma di vapore ad alta temperatura, convogliato attraverso una rete di vapordotti per alimentare le turbine a vapore che girando, azionano gli alternatori degli impianti di generazione. Si tratta di condotte chiuse che trasportano il vapore naturale dal sottosuolo fino alle turbine, permettendo di trasformare il calore terrestre in elettricità senza dispersioni. Questo calore, prodotto dai movimenti geologici naturali e dal gradiente geotermico determinato dalla profondità, può essere utilizzato per produrre elettricità, riscaldare edifici e alimentare processi industriali. La geotermia diventa così una risorsa strategica nella transizione energetica.
L’energia geotermica non dipende da stagionalità o condizioni climatiche: è continua e programmabile, dando un contributo alla stabilità del sistema elettrico.
Oggi la geotermia è riconosciuta globalmente come una delle tecnologie più affidabili e sostenibili: in Cile, Islanda, Nuova Zelanda, Stati Uniti, Filippine e molti altri Paesi questa filiera sta sviluppandosi vigorosamente. Ma è in Italia – e più precisamente in Toscana – che questa storia ha mosso i suoi primi passi.
La presenza dei soffioni boraciferi nel territorio di Larderello (Pisa), da sempre caratterizzato da manifestazioni naturali come vapori, geyser e acque termali, ha fatto intuire il valore energetico di quella forza invisibile. Già nel Medioevo erano attive piccole attività produttive basate sul contenuto minerale dei fluidi geotermici, ma è nel 1818 – grazie all’ingegnere francese François Jacques de Larderel – che avviene il primo utilizzo industriale. Il passaggio decisivo c’è però nel 1904, quando Piero Ginori Conti, sfruttando il vapore naturale, accende a Larderello le prime cinque lampadine: è la prima produzione elettrica geotermica al mondo, anticipando la nascita nel 1913 della prima centrale geotermoelettrica al mondo. Da allora questa tecnologia non ha mai smesso di evolversi, fino a diventare un laboratorio internazionale di ricerca e innovazione.
Attualmente, la Toscana rappresenta il cuore della geotermia nazionale: tra le province di Pisa, Grosseto e Siena Enel gestisce 34 centrali, per un totale di 37 gruppi di produzione che garantiscono una potenza installata di quasi 1.000 MW. Questi impianti generano ogni anno tra i 5,5 e i quasi 6 miliardi di kWh, pari a oltre un terzo del fabbisogno elettrico regionale e al 70% della produzione rinnovabile della Toscana.
Si tratta anche di uno dei più avanzati siti produttivi dal punto di vista tecnologico, che punta non allo sfruttamento ma alla coltivazione di questi giacimenti di energia. Nelle moderne centrali geotermiche, il vapore che ha già azionato le turbine – chiamato tecnicamente «vapore esausto» – non viene disperso nell'atmosfera, ma viene convogliato nelle torri refrigeranti, che con un processo di condensazione ritrasformano il vapore in acqua e lo reimmettono nei serbatoi naturali sotterranei attraverso pozzi di reiniezione.
Accanto alla dimensione produttiva, la geotermia toscana si distingue per la sua capacità di integrarsi nel tessuto sociale ed economico locale. Il calore geotermico residuo – dopo aver alimentato le turbine dell’impianto di generazione - è ceduto gratuitamente o a costi agevolati per alimentare reti di teleriscaldamento che raggiungono oltre 13.000 utenze, scuole, palazzetti, piscine e edifici pubblici, riducendo le emissioni e i consumi di combustibili fossili. Lo stesso calore sostiene attività agricole e artigianali, come serre per la coltivazione di fiori e ortaggi e aziende alimentari, che utilizzano questo calore «di scarto» invece di bruciare gas o gasolio. Persino la produzione di birra artigianale può beneficiare di questa fonte termica sostenibile!
Ma c’è dell’altro, perché questa integrazione tra energia e territorio si riflette anche sul turismo. Le zone geotermiche della cosiddetta «Valle del Diavolo», tra Larderello, Sasso Pisano e Monterotondo Marittimo, attirano ogni anno migliaia di visitatori. Musei, percorsi guidati e la possibilità di osservare da vicino fenomeni naturali e impianti di produzione, rendono il distretto un caso unico al mondo, dove la tecnologia convive con una geografia dominata da vapori e sorgenti naturali che affascinano da secoli viaggiatori e studiosi, creandoun’offerta turistica che vive grazie alla sinergia tra Enel, soggetti istituzionali, imprese, tessuto associativo e consorzi turistici.
Così, oltre un secolo dopo le prime lampadine illuminate dal vapore di Larderello, la geotermia continua ad essere una storia italiana che unisce ingegneria e paesaggio, sostenibilità e comunità. Una storia che prosegue guardando al futuro della transizione energetica, con una risorsa che scorre sotto ai nostri piedi e che il Paese ha imparato per primo a trasformare in energia e opportunità.
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Ecco #DimmiLaVerità del 18 dicembre 2025. Con il nostro Stefano Piazza facciamo il punto sul terrorismo islamico dopo la strage in Australia.