2024-01-08
Eredità Murgia e cyber-femminismo. La famiglia senza figli né parenti
Nel libro postumo si scaglia contro la nostra società e lo Stato: i rapporti tradizionali nascondono sempre forme di controllo.A molti sembreranno parole dolci, parole d’amore, quelle che Michela Murgia ha lasciato sulle pagine del suo ultimo libro, un volume postumo intitolato Dare la vita, che sarà pubblicato da Einaudi fra un paio di giorni e di cui ieri Stampa e Repubblica hanno offerto robuste anteprime. È stato presentato come una sorta di «testamento spirituale» che sintetizza il pensiero della scrittrice sarda sulla famiglia, i figli, i rapporti umani. E non v’è dubbio che vi siano anche passaggi struggenti, in effetti amorevoli. «Ho sempre vissuto la mia maternità, e tutte le altre relazioni familiari queer della mia vita, come strumenti di liberazione e di indipendenza», leggiamo. «A chi amo, a chi scelgo, voglio offrire una sola rassicurazione: quella di non dover mai fingere di non essere chi è». Sono frasi emblematiche, queste, che probabilmente giungono al cuore della concezione murgiana del vivere insieme: amore, scelta e libertà sono indissolubilmente legati, e non v’è dubbio che tale legame abbia anche sfumature positive, costruttive. Eppure c’è qualcosa che non torna, in quelle pagine. C’è come una arroganza, una pretesa di fondo che irradia vibrazioni disturbanti. Murgia non tratta: impone. Stabilisce per decreto che sia più giusto il suo modo di costruire relazioni, mentre svaluta radicalmente, sminuisce e tenta di decostruire tutto ciò che esula dalla sua visione. Non si limita, per dire, a equiparare quelli che lei chiama «figli d’anima» ai figli biologici: ritiene che essi siano in qualche modo superiori, migliori perché appunto scelti. Il rapporto fra i corpi, per lei, non conta nulla: non vale che un bambino abbia passato nove mesi nel ventre di una donna, non vale nulla che non sia pensiero, decisione del singolo. Attacca come un ariete la cosiddetta «famiglia tradizionale», e la agghinda con una corona di pregiudizi che non fa nemmeno lo sforzo di provare a smontare. Chi lo dice, ad esempio, che la maternità e la paternità biologiche non prevedano una scelta – costante, quotidiana - e siano soltanto una forma di atroce condanna? Pretende libertà, Michela, e s’infuria quando le istituzioni - lo Stato - sembrano non concederle di agire come più le aggrada. «Avevo sviluppato una competenza nei rapporti atipici che mi poneva nella strana posizione di poter chiamare famiglia qualcosa che nemmeno le famiglie più all’avanguardia si immaginavano di accettare, ma per lo Stato tutto questo non aveva alcun valore», scrive. Chiaro: lo Stato avrebbe dovuto inchinarsi di fronte alla sua «competenza». La sua esperienza personale avrebbe dovuto assurgere a norma. «Alcune tra le madri biologiche dei miei figli d’anima accettavano con più facilità l’idea di avere un figlio sedotto da una donna più grande piuttosto che immaginare di dover condividere l’unico potere di cui troppe donne credono di disporre: il ruolo sacro di genitrice», prosegue. Certo: se un genitore biologico rivendica il proprio ruolo, egli «prevarica». Quanto alla famiglia, nasconde sempre una «minaccia», un uso improprio del «potere», una forma di «controllo». Tutto ciò che è biologico è falso, perverso. Tanto che, a un certo punto, Murgia pare teorizzare pure la superiorità della maternità surrogata su quella naturale. «La nascita biologica è programmata molto meno della nascita logica, che sia quella tarda ed elettiva di un figlio d’anima o quella neonatale e uterina di una figlia concepita attraverso una gravidanza surrogata. È un venire al mondo quindi, quello che chiamano naturale, tendenzialmente anche meno protetto, desiderato e strutturato», spiega. «La nascita biologica, due terzi delle volte, è un evento che oscilla tra la casualità e la irresponsabilità». Subito dopo aggiunge, con ampio uso di schwa: «Lə figlieə più tutelatə , agli occhi dello Stato, dovrebbe essere semmai quellə più desideratə e pianificatə, quellə fortemente volutə per ə quale si sono organizzate tutte le condizioni migliori affinché possa venire al mondo con la consapevolezza di essere statə preparatə e immaginatə profondamente; addirittura molto pagatə, nel caso della gestazione per altrə, cosa che personalmente, se fosse capitata a me, mi farebbe sentire assai orgogliosa». Nulla di inedito, per la verità. Gran parte delle teorie della Murgia sembrano provenire dagli scritti di Donna Haraway, la madrina del «cyberfemminismo», una studiosa e attivista secondo cui bisogna «fare parentele e non bambini». Se una cosa non ci piace, insomma, vuol dire che è intrinsecamente errata, oppressiva, perché ciò che conta davvero è il desiderio. Ergo dobbiamo liberarci e ricreare l’universo a nostra immagine. Piccolo problema: questi «figli d’anima», ad esempio, una donna e un uomo che li producano materialmente li devono pur avere, e pensare di liquidare questi ultimi con un compenso per il disturbo è piuttosto squallido. Bellissimo anche basare ogni costruzione sul desiderio: ma quando questo finisce, che si fa? Se poi il «figlio logico» non lo si desidera più, chi se ne deve far carico, se non coloro che lo hanno messo al mondo? Per questo lo Stato insiste sui figli biologici: per tutelarli, non per opprimere i genitori. Bellissima l’utopia, per carità, specie per chi può permettersela. Ma sostituire l’ideologia alla natura è un vezzo antico, e ogni volta ha provocato enormi disastri. Con tutto il rispetto, non si capisce perché stavolta dovrebbe essere diverso.