Ecco la mappa della resa sulle tariffe. Alla fine all’Ue è andata meno peggio
Un colpo alla Fed e uno all’Ue e Donald Trump celebra il suo primo agosto «dazio e felice». Oggi è il D day inteso proprio come tariffa doganale, ma anche come giorno di Donald, sparata ad alzo zero contro la globalizzazione. «È un grande giorno», ha scritto il presidente americano sul suo social Truth, «ho parlato con i leader di molti Paesi, tutti desiderosi di rendere gli Stati Uniti estremamente felici».
Alla Ue si confermano dazi al 15%, i più bassi dopo il Regno Unito, segno che trattare è servito. Per ora nessuna esenzione per il vino, nessun rimodellamento di tariffa. Si parte dal 15% generalizzato - che assorbe però la tariffa già esistente del 5% - e si va avanti. Non è certo un invito a una cena di gala, ma neppure uno scenario apocalittico per l’Europa e per l’Italia in particolare: in fin dei conti per noi gli Usa sono un mercato che vale l’11% dell’export.
In attesa del gran giorno, Donald Trump ieri ha dispensato altri aumenti a destra e a manca, ma se la piglia soprattutto con Jerome Powell - il presidente della Federal reserve - reo di non aver abbassato i tassi: «È troppo stupido e troppo politico per ricoprire la carica».
La strategia di Trump che si gode comunque un aumento del 3% del Pil è chiara: riequilibrare la bilancia commerciale, incassare miliardi di tariffe, rompere la globalizzazione. Così con il presidente del Messico Claudia Sheinbaum ha concordato «di proseguire per altri 90 giorni l’accordo sui dazi che prevedono che il Messico paghi il 25% sul fentanyl e sulle auto, il 50% su acciaio, alluminio e rame». Il rame - gli Usa sono i maggiori importatori - è l’ultimo bersaglio: 50% per tutti tranne che per il Cile che è il primo fornitore. Altra stangata sul Brasile perché Luiz Inácio Lula da Silva - ha risposto: «Siamo uno Stato sovrano e tratteremo con durezza con Washington» - vuole processare l’ex presidente Jair Bolsonaro e dunque tariffa aggiuntiva del 40% oltre al 10 in essere. Trattamento «speciale» per l’India: tariffe al 25% «per contrastare le loro politiche commerciali fastidiose e i loro acquisti dalla Russia». Nuova Dehli è pronta a trattare. Già concluse quelle col Pakistan per una joint venture sul petrolio. E in serata la portavoce della Casa Bianca Karoline Leavitt ha detto: «So che i leader stranieri stanno telefonando a Trump perché hanno capito che questa scadenza è concreta»: possibili altre intese all’ultimo minuto.
Il fronte più incerto resta l’Europa. Ieri il portavoce della Commissione, Olof Gill, ha laconicamente annunciato: «Ci aspettiamo che gli Usa mantengano la riduzione dei dazi al 15% come concordato. È inoltre chiaro che saranno applicate le esenzioni dal tetto del 15% come delineato dalla presidente Von der Leyen».
Dunque se una proroga pare difficile, uno spiraglio per vini e made in Italy forse c’è. Da qui - piaccia o no - bisogna ripartire. Non è andata benissimo - ma la minaccia era di far scattare oggi dazi tra il 25 e il 30% - però poteva andare molto peggio. Basta dare un’occhiata al listino tariffe. Al 10% stanno solo Gran Bretagna e Taiwan, l’Ue è allineata al Giappone e alla Corea del Sud, il Canada dopo l’annuncio di voler riconoscere la Palestina ha ricevuto comunicazione da Donald Trump che i dazi tornano in alto mare («Sarà più difficile raggiungere l’accordo») e dal 25 attuale sono schizzati al 35%, più di quanto applicato alla Cina. Alla Svizzera imposti dazi al 39%, nonostante Trump avesse proposto un'aliquota del 31% ad aprile. Il governo ha dichiarato che i funzionari continueranno a cercare una soluzione negoziata.
In Italia continuano gli alti lai. Pasquale Lampugnale, vicepresidente di Confindustria piccola industria, dice che col dazio sull’acciaio al 50% e le altre tariffe generalizzate è a rischio il 20% del nostro export in Usa (circa 13 miliardi di fatturato in meno). Sempre da Confindustria il presidente Emanuele Orsini, che stima un impatto sulle imprese per 22,6 miliardi, chiede un nuovo piano industriale e la possibilità di sforare il Patto di stabilità. Per Coldiretti la «stangata sul made in Italia vale un miliardo» e servono compensazioni. È partito lancia in resta Romano Prodi che se la piglia sia con la Von der Leyen, ricordando che lui nel 2004 fece le multe a Microsoft, e con Giorgia Meloni alla quale rimprovera: «La politica non è farsi umiliare dai potenti.» A stretto giro Fdi ricorda al Professore: «Nessuna lezione da chi ha svenduto l’Italia». E anche sulle multe a Bill Gates c’è da discutere: 20 anni nelle interconnessioni sono un’era geologica e Prodi dovrebbe ben ricordarsi che Irlanda, Olanda e Lussemburgo fanno i bilanci grazie ai favori fiscali che concedono alle Big tech americane e che lui ha aperto le porte dell’economia europea senza dazi alla Cina. Resta il fatto che si è passati dal 30 al 15% (assorbendo anche il 5 di Joe Biden) e che la trattativa è ancora aperta. Anche sul fronte dei dazi - come avrebbe detto Rossella O’Hara in Via col Vento - «domani è un altro giorno».






