2019-04-26
Ebrei offesi, bandiere rosse e «Bella ciao»: in piazza c’è l’eterno ritorno dell’identico
Il giorno della Liberazione resuscita sindacalisti, attivisti pro Palestina e centri sociali. Cambiano i protagonisti, ma restano gli slogan antiquati del partigianamente corretto. La storia si riscrive, per fortuna. I giornaloni manipolano il pensiero di Sergio Mattarella, che aveva detto no a riformulazioni «interessate», cioè ai revisionismi ideologici. Ma quell'aggettivo è sparito nei resoconti. Lo speciale comprende due articoli. La storia si può riscrivere? Sicuro. Ma quella del 25 aprile è l'eterno ritorno dell'identico. L'Anpi si riversa sulle strade. S'ode un canto: Bella ciao. Ricompaiono le bandiere rosse. Si risvegliano i centri sociali. Cgil, Cisl e Uil, quasi sparite dalle fabbriche e impotenti di fronte alla cinesizzazione del mercato del lavoro, si rimettono a marciare. Volano stracci tra antifascisti pro Palestina e antifascisti pro Israele. Il capo dello Stato ci fa la paternale sulla democrazia conquistata a prezzo del sangue - la democrazia che, nel frattempo, è stata appaltata agli eurocrati e ai «mercati». Scorrendo le immagini delle manifestazioni, devi badare alla data per non confondere un anno con l'altro: è il 25 aprile del 2019 o quello del 2018, del 2017, del 2004, del 1998? Non è una novità nemmeno lo spauracchio del fascismo che risorge. A sentire gli antifascisti di professione, il fascismo è sempre in agguato, magari tenuto vivo da trenta ultrà della Lazio pronti al golpe nero. Quindici anni fa il Duce in pectore era Silvio Berlusconi. Adesso è Matteo Salvini. Allora i partigiani si battevano contro il lodo Schifani. Adesso, Sergio Mattarella lancia la frecciatina contro i porti chiusi: «Quando i popoli barattano la propria libertà in cambio di promesse di ordine e tutela, gli avvenimenti prendono sempre una piega tragica e distruttiva». L'Italia repubblicana, invece, «pone i suoi fondamenti nel ripudio del razzismo e delle discriminazioni». Sempre uguali anche le schermaglie tra comunità ebraica e filoarabi. A Roma, i primi hanno disertato il corteo, in polemica con lo sventolio di vessilli palestinesi. A Milano, la brigata ebraica ha sfilato, bersagliata da slogan tipo «Via i sionisti dal corteo», o «Israele Stato terrorista». Emblematica una foto scattata a San Babila: i filopalestinesi di fronte ai manifestanti con le bandiere israeliane, separati da un cordone di transenne e poliziotti (che si sono beccati gli insulti dei dimostranti). Contestato pure il deputato pd, Emanuele Fiano. Doveva essere «la festa di tutti», come aveva affermato il premier, Giuseppe Conte, in visita al sacrario delle Fosse Ardeatine. E invece la Liberazione divide gli eredi dei perseguitati e gli eredi degli antisemiti. Che il clima fosse incandescente, d'altra parte, lo si era capito già da quando Salvini aveva deciso di snobbare le celebrazioni dell'Anpi per andare a Corleone a inaugurare un commissariato. Stizzito il suo omologo del M5s, Luigi Di Maio: «È incredibile», ha scritto il vicepremier grillino su Facebook, «per giorni si è discusso di una festa, come se il Paese non avesse altri problemi a cui pensare. La mafia si elimina con il buon esempio, non festeggiando a Corleone». Dalla Sicilia, il ministro dell'Interno, vista l'alta tensione per il caso Siri e il salva Roma, ha preferito non replicare: «Sono in modalità zen», ha tagliato corto. Forse poteva ricordare, visto che si parlava di «liberazione dalla mafia», di quando i liberatori dell'Italia conquistarono la Sicilia grazie all'appoggio dei boss (Calogero Vizzini, Giuseppe Genco Russo, forse addirittura Lucky Luciano). Boss che il «prefetto di ferro» del fascismo, Cesare Mori, aveva messo all'angolo. Ne sarà al corrente il segretario della rediviva Cgil, Maurizio Landini? «Il governo si ricordi della lotta alla mafia tutti i giorni», ha commentato. Lui dovrebbe difendere i lavoratori, ma la settimana scorsa ha consegnato la tessera d'onore della Cgil a Greta Thunberg. I metalmeccanici sentivano davvero il bisogno di un po' d'ecologismo radical chic, quello che farà chiudere le fabbriche e li manderà sul lastrico. Come è successo nel Midwest, dove gli operai hanno votato in massa per il fascista Donald Trump. Festa di tutti, ha detto Conte. Non a caso, per il governatore piemontese, Sergio Chiamparino e il sindaco di Torino, Chiara Appendino, è «una vergogna non commemorare il 25 aprile», come ha fatto Salvini. Traditore del «giuramento da ministro», ha rilanciato il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris. Nondimeno, il suo collega di Milano, Giuseppe Sala, ci tiene a fare dei distinguo: «Festa non di tutti, ma di chi crede nella democrazia e nella libertà», evocate ovviamente anche dal segretario dem, Nicola Zingaretti, presente nel capoluogo lombardo. Insomma, Salvini doveva festeggiare, però la festa non era mica la sua. Più che festa di tutti, in effetti, il 25 aprile è la festa dell'Anpi. Monopolio innaturale che è costato diti medi in su e una raffica di «Vattene a casa» a Virginia Raggi. Dunque, sul proscenio del 25 aprile cambiano gli interpreti, non il copione. C'è sempre il fascismo incombente, che giustifica l'irrinunciabilità dell'Anpi e i fondi pubblici che riceve. C'è sempre il cronista di Repubblica in cerca d'ispirazione dalla destra razzista e che non s'accorge degli ebrei costretti a sfilare scortati per evitare il pogrom dei «buoni» antifascisti. C'è sempre un fiume di retorica su libertà e democrazia, che però questi signori concepiscono a senso unico: siamo liberi di votare come dicono loro, siamo liberi di volere più Europa e siamo liberi di spalancare i confini ai migranti. E chi non si adegua? La soluzione ce l'ha Laura Boldrini, che su Twitter usa un inquientante hashtag, #PiazzaleLoreto, scrivendo di «gruppi fascisti» da sciogliere. Dal commando ultrà laziale alla Lega il passo è breve. Onorevole, ma li vuole sciolti o appesi a testa in giù? Lo smacco storico del partigianamente corretto, comunque, lo testimonia un curioso striscione che si è visto a Milano: «Alzare i salari, non i muri». Peccato che i muri impediscano l'importazione di manodopera a basso costo, che serve a ricattare i salariati italiani. Ai professionisti dell'antifascismo, arrovellati su un eterno 25 aprile, s'attaglia il verso di una nota canzone: «Il mondo va veloce e tu stai indietro». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ebrei-offesi-bandiere-rosse-e-bella-ciao-in-piazza-ce-leterno-ritorno-dellidentico-2635557343.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-storia-si-riscrive-per-fortuna" data-post-id="2635557343" data-published-at="1758064562" data-use-pagination="False"> La storia si riscrive, per fortuna «Mattarella: “Non si riscrive la storia"». «No a riscritture della storia». «Non si riscrive la storia». I titoli di Repubblica, Stampa e Corriere non lasciano spazio a interpretazioni nel restituire le parole di Sergio Mattarella sul senso del 25 aprile. Parole inquietanti: la storia, per definizione, si scrive e si riscrive. Non perché non esista il dato, non per relativismo esasperato, ma perché è un racconto che si nutre di nuovi fatti, interpretazioni, angolature, documenti, scoperte. Un capo di Stato che avallasse una versione storica immutabile su un evento fondante della Repubblica sarebbe un censore irricevibile. Sarebbe, perché Mattarella non ha mai detto quelle parole. Malgrado i resoconti della stragrande maggioranza dei giornali, incontrando gli esponenti delle Associazioni combattentistiche e d'arma, il capo dello Stato l'altro ieri ha detto loro: «La vostra testimonianza è un monito permanente, un argine di verità contro le interessate riscritture della storia». La frase, pur nella sua interezza, ha le sue ambiguità: chi definisce «interessate» le riscritture? E le associazioni sono fatte di storici di professione? Chi ha combattuto, poi, è il miglior arbitro storiografico di una contesa? Resta il fatto che tra il testo di Mattarella e il «Non si riscrive la storia» c'è una bella differenza, ma evidentemente anche il suo pensiero si può «riscrivere», più delle vicende della Resistenza italiana. Senza la pretesa di diventare esegeti di una figura che ha sempre messo particolare cautela e rigore nelle sue modalità espressive, il presidente si è rivolto ad associazioni fondate da protagonisti e testimoni della Liberazione dicendo una cosa: la loro stessa esistenza impedisce «riscritture interessate» della storia, cioè revisionismi ideologici che abbiano la presunzione di censurare alcuni fatti, episodi o connotazioni del racconto resistenziale. Peraltro, lo stesso Mattarella - quando ha citato per esempio il contributo dei cattolici come il partigiano Teresio Olivelli - ha finito per sottolineare indirettamente come l'apporto di diverse sensibilità alla Resistenza sia stato sminuito da molta storiografia. Se non ci fossero state «riscritture» di queste storie, forse non avremmo conosciuto Porzüs, o la vicenda di Alfredo Pizzoni, «banchiere» cattolico della Resistenza. E più in generale, non avremmo valutato correttamente l'apporto degli alleati alla Liberazione. Del resto, il predecessore di Sergio Mattarella, un signore che qualcosa aveva avuto a che vedere con la storiografia comunista, iniziò il suo primo mandato al Colle con un discorso nel quale invitò a una memoria comune del periodo resistenziale «pur senza ignorare zone d'ombra, eccessi e aberrazioni». In pratica un invito a indagare, «riscrivere» e illuminare queste zone d'ombra, questi eccessi, queste aberrazioni. Ancora Giorgio Napolitano, restìo a pronunciare la parola «Pci», spiegò che Porzüs era stata «tra le più pesanti ombre che siano gravate sulla gloriosa epopea della Resistenza». Le parole di Mattarella, in sostanza, non spostano granché nella palude di un dibattito eterno, fermo e politicamente e storicamente deludente sulla Resistenza. Ma, sia nel criticarle sia nel plaudirle, vale la pena citare quelle vere e non quelle inventate. Lunga vita a chi scrive, e riscrive con ragioni, la storia.