2021-08-08
È sport, non il trionfo della «nuova Italia»
Fiumi di entusiastica melassa sull’impresa degli azzurri nell’atletica, spirito di un ritrovato e rigenerato Paese. E si sprofonda nell’enfasi più scema. Una settimana fa eravamo la nazione che non sapeva più vincere, poi la svolta draghianamente ispiratanel traffico delle strade provinciali, mica come all’estero dove hanno piste in ordine e palazzetti efficienti. L’oro olimpico ha questa capacità di generare fiumi di entusiastica melassa tanto che ieri sfogliavamo le pagine dei giornali con apprensione: non è che adesso troveremo qualcuno che festeggia la nostra capacità di buttare soldi in piscine mai compiute e stadi inutilizzati? Oppure qualcuno che già elegge il green pass come primo passo per la preparazione dei prossimi successi olimpici? Sia chiaro abbiamo tutti esultato per le vittorie di Tokyo, davvero esaltanti. Così come avevamo esultato per la vittoria degli Europei di calcio. Ma il tentativo di trasformare le vittorie sportive (più quella dei Maneskin all’Eurovision che non c’entra nulla con lo sport ma viene citata nel mazzo perché fa sempre tanto chic) nel trionfo della «nuova Italia» (ovviamente sottinteso: quella di Mario Draghi e del generale Figliuolo) è insopportabile. È vero che tutti noi ricordiamo l’urlo di Marco Tardelli e il Mundial del 1982 come il passaggio dai cupi anni Settanta ai rutilanti anni Ottanta, ma si tratta più che altro di una deformazione della memoria. Ho l’impressione che le Brigate rosse le avremmo sconfitte lo stesso anche senza il gol di Tardelli. E gli anni Settanta sarebbero finiti ugualmente, anche senza le parate di Dino Zoff. Allo stesso modo l’ansia di vedere negli eventi sportivi (più i Maneskin, noti ginnasti dell’ugola) il segno della nuova stagione nazionale porta inevitabilmente ad affondare nella retorica più scema. Come quando si legge (editoriale del Corriere della Sera) che «siamo diventati per la prima volta campioni di velocità dopo aver passato interi mesi chiusi in casa». Come se a stare reclusi si potesse davvero diventare campioni di velocità. Se fosse così, alle prossime Olimpiadi schieriamo la nazionale degli ergastolani, no? Eppure è così: l’Italia che fino a ieri tutti denigravano diventa il trampolino della grande svolta. Non ci sono piste d’atletica? Meglio: ci si allena per le strade. Mancano le piscine? Perfetto: così impariamo a stare a galla. Le periferie sono fuori controllo? Ottimo: così i ragazzi imparano a correre più veloce per salvare la pelle. Non ci sono i mezzi pubblici? Meraviglioso: è così che si formano i grandi marciatori. Non a caso i due vincitori delle 20 km maschile e femminile vengono dalla Puglia: il loro trionfo, a leggere le cronache in sollucchero dei colleghi, sembra quasi il figlio del fallimento e del disastro dei trasporti locali. Avanti allora, buttiamo un altro po’ di soldi nelle Ferrovie del Sud Est e forse vinciamo anche la 50 km. È la nuova Italia, quella di Draghi, dove anche il peggio diventa bellissimo.Fra l’altro, una settimana fa, esattamente domenica scorsa, prima delle vittorie di Gimbo Tamberi nel salto in alto e di Marcell Jacobs nei cento metri, le pagine dei medesimi giornali che oggi celebrano l’Italia nuova avevano già cominciato il processo all’Italia che non sa più arrivare prima. Ricordate? Solo due atleti sul podio più alto, la delusione della scherma e via con le paginate per chiedersi che cosa ci sta succedendo, perché vinciamo così pochi ori e perdiamo le sfide più importanti. Ma come? Una settimana fa non c’era ancora l’Italia nuova? Dov’erano finiti il Paese della svolta, l’aria nuova, il cambiamento draghianamente ispirato? Niente: finché si parlava di sconfitte erano sconfitte sportive. E basta. Sono le vittorie che si trascinano dietro la retorica del rinascimento nazionale. Di cui, inutile dire, c’è una gran voglia in giro.E per fortuna dei cantori ispirati nel giro di dieci minuti è cambiato tutto. Domenica scorsa. Due imprese singole di due campioni singoli (Tamberi e Jacobs) fanno fare un salto in avanti non solo al medagliere, no, ma anche alla Nazione, alla storia, alla società, al progresso, alla politica, all’organizzazione, alla cultura. A tutto. Arrivano nuove medaglie e arriva la nuova Italia. Pensate un po’: una settimana fa eravamo il Paese che non sapeva più vincere e all’improvviso siamo diventati il Paese che sa vincere anche con le sue palestre sgarrupate. Ah quanto sono belle le palestre sgarrupate. Ma se Jacobs, per dire, si fosse slogato una caviglia nel riscaldamento la storia del Paese sarebbe cambiata? E le palestre sgarrupate sarebbero rimaste quello schifo che sono? Certo: quest’Italia piace. È multicolor, con atleti che hanno la pelle scura, figli di badanti nigeriane, tiratrici con l’arco che vincono la medaglia e fanno outing, marciatori che si sono convertiti all’islam. Quest’Italia ha tutto quello che può piacere ai voluttuosi aedi del «nuovo», cui non par vero di liquidare frettolosamente le nostre radici, la nostra fede e le nostre tradizioni. Ma è proprio necessario caricare questi atleti (che sono e restano soltanto atleti) della responsabilità di cambiare il Paese? Non sarà un modo per deresponsabilizzare quelli che il Paese lo devono cambiare davvero? E non sarà che il Paese non si cambia correndo i 100 metri (per quanto i 100 metri siano importanti) ma facendo norme un po’ meno assurde di quelle che si fanno ora, dal decreto sul green pass alla legge Zan? Bastasse una staffetta 4 x 100 per fare la nuova Italia saremmo tutti contenti si capisce. Ma non è così. E perciò l’eccesso di retorica in questo caso, non è solo ridicolmente fastidioso. Sembra un’arma di distrazione.
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