2022-10-27
È brava, anzi no. I media progressisti vanno in tilt davanti alla Meloni
I ritratti sono indecifrabili: chi le dà dell’europeista, chi si sforza e le riconosce abilità politica. Fino alla solita ossessione fascista. È una fuoriclasse, no è modesta. Tesi di destra, macché: draghiane. Il discorso della Meloni manda in tilt la stampa progressista. «Capetrene» agli antipodi. Difficile districarsi nella giungla dei commenti al primo discorso di Giorgia Meloni premier, ancora di più trovare una qualsivoglia linea (anche curva, sinusoidale o spezzata) fra i media fedeli alla linea della sinistra sinistrata. Tutto e il contrario di tutto. Si esce dalla lettura dei giornali come un gatto da una lavatrice, neppure due vestali del politicamente corretto come Concita De Gregorio (La Repubblica) e Lucia Annunziata (La Stampa) riescono ad andare d’accordo. Per la prima, la neopremier «è una fuoriclasse» e aggiunge amara «avercene a sinistra di persone di questo calibro da opporre». Per la capatrena senior invece è qualcosa che sta fra Margaret Thatcher ed Evita Peron. Poi, folgorata dal passaggio sulle partite Iva «che costituiscono un asse portante dell’economia italiana», decide che in lei c’è più Ivita. Coerenza lessicale.Per una volta la rassegna stampa è divertente, quell’ora e un quarto di intervento è dissezionata, sminuzzata, frullata, stracotta alla ricerca di un inciampo solido, liquido o almeno gassoso. Poco o niente da addebitare all’Underdog, che in definitiva piace al Corriere della Sera, impegnato a comporre il Pantheon meloniano da adattare al momento, fra San Benedetto (patrono dell’Europa dei popoli), Papa Francesco (per la dignità del lavoro, contro l’assistenzialismo grillino) Giovanni Paolo II (sulla libertà di fare il proprio dovere) e Paolo Borsellino. Nella collezione, Antonio Polito si accorge che manca Silvio Berlusconi, l’inventore del centrodestra di governo. Lieve bacchettata in mancanza d’altro: «Ingenerosa».Il corto circuito raggiunge l’apice su La Repubblica, dove la guerra civile non è mai finita, quindi non può che farla da padrone il Ventennio. Per la serie: date al redattore ciò che vuole. L’esperto di politica Stefano Cappellini si avvita sulla frase «non ho mai provato simpatia per il fascismo». È chiara, inequivocabile. Non per lui, che la definisce «oggettivamente falsa» perché nell’autobiografia Meloni aveva scritto: «Non ho mai avuto il culto del fascismo». È un passaggio ineludibile, presocratico, che riesce a mostrare al lettore come l’interattività digitale sia possibile anche nel giornale di carta: appoggiando l’orecchio al pezzo si sentono nitidamente i borborigmi della gastrite. Quanto alle leggi razziali (definite dalla leader di Fdi «Il punto più basso della storia italiana»), per Repubblica «è un’abiura troppo morbida». E pure banale perché «già l’Msi lo ammise negli anni Sessanta». Verrebbe da domandare perché 60 anni dopo a Largo Fochetti stanno ancora chiedendo patenti, ma già s’approssima Michele Serra. Anche lui come De Gregorio, curiosamente basito e fuori linea; roba da far andare di traverso l’ovetto mattutino a Enrico Letta. «Ha fatto un discorso fieramente di destra (e questo era ovvio) ma di un livello politico più che dignitoso (e questo non era altrettanto ovvio)». Innamorato forse no, ma certamente in bambola. E comunque, da vecchio paraguru imbullonato alla sedia del conformismo chic, spende le successive 30 righe dell’Amaca a giustificare l’ammissione iniziale e a piangere lacrime di coccodrillo. Con un alibi identico a quello di lady Concita: «Lei sarà anche brava, ma gli alleati restano mostruosi». Come direbbe la neopresidente in un flash da Sora Lella: «Nun ce vonno sta’». La lettura avanza ma i nodi interpretativi non si sciolgono. Serra e il suo «discorso fieramente di destra» vengono mandati a stendere dall’eloquio eccitato di Massimo Cacciari su La Stampa: «Macché di destra, mi è sembrato piuttosto un discorso prudente, europeista, quasi draghiano». Segue sentenza: «Ha capito che la strada è segnata». A differenza dei suoi colleghi filosofi da quattro secoli a questa parte, lui non ha dubbi. Li lascia tutti a noi, a questo punto distrutti dall’impazzimento lisergico dei volti che si sovrappongono a quello di Meloni. Per la Annunziata è Evita Peron (signora mia, le partite Iva che vergogna), per Antonio Padellaro sul Fatto è tutta la Thatcher da piccola «perché ha preso di mira i poveri», scambiando i molti fannulloni divanati dal reddito di cittadinanza per i bisognosi in fila alla Caritas. Ma a Maurizio Molinari, direttore de La Repubblica, ricorda un’altra figura da incubo per la gauche Ztl plug-in: «Per l’avversione alle misure restrittive anti-Covid e per quegli “sfavoriti” simili ai “dimenticati” americani, somiglia a Donald Trump». Adesso è tutto chiaro e l’unico ad avere ragione era il professor Bellavista di Luciano De Crescenzo: «Eppure è sempre vero anche il contrario». Ancora il tempo di annotare che, sempre su La Stampa, Mattia Feltri le chiede di essere un po’ fascista con il sindaco di Piombino (Fdi) contrario al rigassificatore e si plana direttamente sull’unica polemica concreta. Quella del «tu» al deputato rossoverde Aboubakar Soumahoro. I media mainstream non cavalcano l’indignazione, non affondano il coltello come farebbe Rula Jebreal. Si nota un fastidio diffuso: speravano che la donna bianca gli desse del voi.
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