2025-11-26
Riccardo Szumski: «Chiesi a Schillaci di aprire ambulatori per i danneggiati. Non ha mai risposto»
Il neoeletto consigliere: «Penso in dialetto poi traduco in italiano. Senza di noi l’astensionismo sarebbe stato ancora più ampio».Ha ottenuto due seggi in Regione Veneto presentandosi come leader di un «movimento per cittadini liberi». I suoi, più che slogan, sono stati appelli a ritrovare l’orgoglio perduto: «Non cerchiamo voti: cerchiamo coscienze sveglie». Però di voti Riccardo Szumski ne ha ottenuti davvero tanti, 96.474. Oltre il 5,13% delle preferenze. Classe 1952, nato in Argentina da genitori emigrati (papà ufficiale polacco e mamma insegnante trevigiana), medico di base e per anni sindaco del Comune di Santa Lucia di Piave, dove ha sempre vissuto dal 1955, Szumski è riuscito a spezzare a suo favore un astensionismo pesante pure in Veneto, dove solo il 44,65% degli aventi diritto si è recato alle urne.«Resistere Veneto nasce da una ferita, ma anche da un’urgenza: dire basta», ha chiarito. Quali sono state le parole chiave per farsi eleggere?«Fatti concreti, non slogan. Coerenza nel tempo, come medico e amministratore, credibilità. Mi sono avvicinato alla politica nel 1980, convinto che se non ti impegni è troppo facile criticare. Il risultato ottenuto in queste regionali è ruspante ma vero».Si aspettava tanto consenso?«Mi ero accorto che la gente era arrabbiata ma aveva anche bisogno di tornare ad avere fiducia in un progetto politico e di territorio. Abbiamo fatto argine all’astensionismo, sarebbe stato ancora maggiore. Il 17% in meno di persone alle urne in Veneto è un giudizio su chi ha amministrato la Regione. Dobbiamo cambiare la prospettiva, rendere più partecipe la popolazione, cambiare il modello demografico e sociale, recuperare valori come la famiglia».È stato sicuramente l’impegno a contrastare le misure imposte durante la pandemia, quella «ferita» cui fa riferimento, a farle ottenere tanto consenso. «Non potevo credere che venissero spacciate per scienza tante sciocchezze e che si sia finito per imporre l’obbligo del vaccino per poter lavorare, o ai giovani per fare sport. Un’aberrazione completa».Di lei parlano ancora come del medico no vax. Come curava i suoi assistiti?«Li andavo a visitare, perché il paziente migliora solo a vedere il medico, altrimenti va in panico. In base alla situazione davo anti infiammatori come da sempre ho fatto nelle forme virali, utilizzavo cortisone, eparina, integratori mirati per supportare il sistema immunitario».Non utilizzava tachipirina e vigile attesa?«Sono uno dei tre medici che avevano fatto ricorso contro quel protocollo, ottenendo dal Tar del Lazio l’annullamento della circolare Speranza. Poi il Consiglio di Stato sospese l’esecutività della sentenza dichiarando che non era un’indicazione vincolante. Però mi hanno radiato con questa motivazione».L’Ordine dei medici di Treviso le inflisse nel 2021 la più grave delle sanzioni perché sceglieva in scienza e coscienza la terapia migliore per curare?«Mi fu comunicato che non seguendo le linee guida mettevo in pericolo la vita dei miei pazienti. E che ero colpevole di non avere consigliato sempre la vaccinazione come unico strumento per impedire la diffusione del virus. Due cose false».È stato poi reintegrato?«No. Il prossimo 19 dicembre noi medici radiati durante la pandemia siamo convocati a Roma dalla Cceps, commissione centrale esercenti professioni sanitarie, che esercita il giudizio di secondo grado a seguito di ricorso. Vedremo».Da medico e da politico, che cosa si sente di dire al ministro della Salute, Orazio Schillaci?«Nulla, è la continuazione di Roberto Speranza. Anzi, gli consiglierei di leggere la letteratura mondiale che mette in evidenza quali sono le problematiche collegate a queste vaccinazioni. Due anni fa ho scritto al ministero proponendo di aprire ambulatori sul territorio per aiutare i danneggiati, nemmeno mi ha risposto. D’altra parte, se li realizzassero sarebbe come ammettere che l’obbligo è stato un tentato omicidio».La salute sarà al centro del suo lavoro anche a Palazzo Ferro Fini?«Certo. Sanità pubblica al servizio del cittadino, con un’assistenza sul territorio e una medicina meno burocratica. Il dottore deve fare il medico, non prescrivere visite specialistiche e compilare migliaia di pratiche. Dico sempre che la miglior cosa che si possa fare alla fine di una visita è dare uno “strucòn”, un abbraccio che trasmette vibrazioni e dà energia al sistema immunitario».Altre priorità?«La difesa del territorio, senza sprecarlo, senza fare il fotovoltaico sull’agricoltura. Difesa della montagna, perché gli abitanti ci possano rimanere. Valorizzare identità, storia e cultura veneta, senza anacronistici revisionismi».Vuole che non si perda l’uso del dialetto. Non crede che sia un’esigenza ormai poco condivisa?«La mia prima lingua è il veneto. Ragiono in veneto e poi traduco in italiano. Lotteremo perché non scompaia questo segno di identità dei nostri territori».Il suo appello sui social era di scrivere anche Szumski, non solo Riccardo, altrimenti la scheda elettorale non sarebbe risultata valida. Sarà faticoso portarsi dietro un cognome così impronunciabile. «L’ho visto declinare in tutte le maniere. Figuriamoci, arrivato nel profondo Veneto negli anni Cinquanta con quel cognome. Mi prendevano in giro, qualche occhio nero l’ho fatto e me lo sono portato a casa. Quando giocavo a calcio agli arbitri saltavano i denti per riuscire a chiamarmi. Per fortuna sulle schede l’hanno scritto giusto».Quanto è costata la sua campagna elettorale?«Non ho ancora fatto i conti, penso non più di 70.000 euro». Nessun finanziamento?«Nessuno, perché poi ti chiedono il conto. Tantissimi volontari mi hanno aiutato, la benzina la pagavo di tasca mia girando per tutto il territorio. Se qualcuno voleva iscriversi all’associazione pagava 10 euro. Niente cene o pranzi, il nostro quartiere generale è il mio ambulatorio».La passeggiata-pellegrinaggio tra le calli di Venezia a fine campagna elettorale?«Il 21 era la festa della Madonna della Salute in ricordo della fine della pestilenza. La salute è collegata alla sanità, ci è sembrato un bel modo di stare insieme. Eravamo in più di 400, arrivati da tutto il Veneto. Nessun coro, tutto in silenzio per rispetto alla città più bella del mondo».Ha figli?«Due di 40 anni, nati dal primo matrimonio, una bimba di 7 dal secondo. Arrivata tardi, grazie a Dio che è venuta».Credente?«Sono figlio di un polacco, sono cattolico. Vivo di fonte a una chiesa, appena posso entro a pregare».Che cosa ne pensa del suicidio medicalmente assistito?«La volontà del singolo individuo è diventato il mantra. Non vorrei che dicendo “piuttosto che soffrire” si aprisse poi la porta al suicidio come scelta quando la salute non c’entra nulla. Se è un atto di pietà va valutato con una normativa a livello nazionale».
Il ministro Roccella sul caso dei “bambini del bosco”: togliere tre figli ai genitori è un atto estremo che richiede pericoli reali, non dubbi educativi. La socializzazione conta, ma non più della famiglia. Servono trasparenza, criteri chiari e meno sospetto verso i genitori.
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