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2019-06-07
Dopo il regalo del Pd su Fincantieri i cugini volevano fregarci ancora
Ansa
Con una sola mossa compiuta con il favore delle tenebre, Emmanuel Macron ha fatto filotto. La sua scelta di pretendere un accordo tutto sbilanciato a favore dello Stato francese - persino contro i legittimi interessi di Renault - ha fatto saltare le nozze. Fca si è tirata indietro, mettendo nero su bianco che non c'erano le condizioni politiche per un matrimonio paritetico. Il passo indietro improvviso di John Elkann è per Macron un enorme smacco. In futuro non potrà più presentarsi ai consessi internazionali spacciandosi come il presidente business-friendly. La maschera di finto difensore del mercato è caduta una volta per tutte. Prima di rendere pubblica l'intenzione della famiglia Agnelli di proporre un matrimonio alla casa automobilistica di Parigi, è inutile specificare che la controparte politica era stata sondata da Fca e informata dei pilastri principali dell'accordo. La bozza del memorandum prevedeva da subito una ripartizione paritetica del potere e delle leve manageriali. Da subito, il ministro dell'Economia, Bruno Le Maire, ha incoraggiato il deal. L'ha sostenuto. Ma quando il testo è divenuto di dominio pubblico, Parigi ha sterzato e ha posto una serie di condizioni che prima non ci risulta avesse avanzato. Ha chiesto non tanto posti in cda, ma ha fatto capire di voler subentrare nelle decisioni del board di Renault in modo da rendere il proprio 15% di quote l'unica leva di comando.
Quando il governo francese ha capito che a Torino non c'era intenzione di cedere a richieste troppo sbilanciate, ha tirato in ballo i giapponesi. Le Maire dopo aver dichiarato alla stampa tedesca di essere favorevole alla fusione (serata di mercoledì) ha fatto sapere che senza il parere favorevole di Nissan (che con Renault ha una stretta partnership) l'operazione non poteva andare in porto. Fatto di per sé non previsto nell'accordo tra francesi e giapponesi, ma soprattutto smentito ieri pomeriggio da Nissan, che ha rilasciato una nota per far sapere che «ci stavamo approcciando in modo positivo all'operazione». Doppia sberla. Il risultato è che la Francia ha sbattuto contro il muro e anche se in futuro si tornasse a discutere di matrimonio per il top management di Renault sarà tutto più complicato. Non solo. Coloro tra Pd, competenti e sostenitori di + Europa che per mesi hanno preso l'effigie di Macron e l'hanno sbandierata come simbolo di liberismo ed europeismo ora saranno tenuti a definire Macron un nazionalista. Pure senza attributi. Infatti, nemmeno ha voluto metterci la faccia. Ha mandato avanti Le Maire, che a sua volta passerà alla storia per essersi rimangiato la parola due volte. Fincantieri docet. Al contrario Matteo Salvini, che dalla partita si è tenuto fuori e si è limitato a dirsi favorevole, ha ricevuto un dono inaspettato. A chi lo accuserà di essere uno sporco sovranista amante delle barriere potrà limitarsi a mostrare un santino di Macron. Ne esce male pure la classe dirigente francese, che è sempre riuscita a gestire la propria impronta statalista nascondendola dietro a una patina di finte regole. Quelle stesse norme europee che ieri sono capitolate assieme al tentativo di fusione. Adesso la figuraccia è in mondo visione. Non c'erano grandi dubbi sul fatto che fare gli europeisti con il fondo schiena degli altri fosse fin troppo comodo. Si era già capito ai tempi della trattativa con Fincantieri. Anche in quell'occasione lo Stato francese aveva fatto marcia indietro. Gli accordi di base erano già stati presi, eppure è stato fatto di tutto per evitare che al nostro colosso della cantieristica finisse il controllo di maggioranza di Stx. Tant'è che l'operazione è ancora in un limbo che non promette nulla di buono. Macron se ne è infischiato della reciprocità europea. Solo che due anni fa ha trovato come interlocutore un presidente del Consiglio come Paolo Gentiloni, che ama più il francese dell'italiano.
L'altro ieri notte invece Fca ha reagito in modo diverso. Ha sbattuto la porta in faccia a Parigi e Macron è riuscito in una impresa non facilissima. Ha trasformato John Elkann, che porta sulle sue spalle la difficile eredità di casa Agnelli, in un manager addirittura simpatico, quasi un italiano agli occhi degli italiani. Lui, che fino a qualche tempo fa è sempre stato un passo indietro rispetto a Sergio Marchionne e al fratello Lapo, ha assestato un colpo da maestro. Anche solo d'immagine. Certo, Elkann difende i suoi interessi, ma con quel comunicato così frontale contro il governo francese si è guadagnato pure la patente di difensore del mercato. Chi l'avrebbe mai detto? Eppure non è il solo «successo» che l'arroganza dei francesi è riuscita a ottenere. Macron ha bucato le gomme all'Europa. Ora Bruxelles avrà il suo bel da fare a spacciare le bufale sull'europeismo a tutti i costi.
Commerzbank ci riprova. Ora vuole sposarsi con gli olandesi di Ing
Si rafforza la pista olandese per Commerzbank, il colosso bancario tedesco che ha cercato inutilmente di sposarsi con Deutsche Bank. Il governo tedesco, primo azionista con il 15,5% del capitale, ha avviato sondaggi con quello olandese per verificare la possibilità di un matrimonio che dovrebbe consolidare il rilancio di Commerzbank e creare un «campione» europeo.
L'opzione è stata discussa a Berlino nel mese di maggio dal ministro delle finanze olandese, Wopke Hoekstra, e dal vice ministro delle finanze tedesco, Joerg Kukies, secondo indiscrezioni raccolte dall'agenzia Bloomberg. Lo scambio di vedute, ancora in uno stadio preliminare, avrebbe coinvolto, tra le altre cose, la sede della nuova banca, che il governo tedesco vorrebbe basare a Francoforte. «Il matrimonio», recita l'agenzia, «se ci saranno le condizioni, non dovrebbe comunque celebrarsi nel 2019 in quanto la Germania attende prima dei progressi nella regolazione e nell'integrazione bancaria europea».
L'interesse di Ing non è un mistero. Lo stesso amministratore delegato di Commerzbank, Martin Zielke, nel corso dell'assemblea dello scorso 22 maggio, aveva detto di aver incontrato il suo omologo di Ing, Ralph Hamers, due volte nel 2018 anche se non ne è nata una trattativa. Il gruppo del Conto Arancio, lo scorso 25 marzo, aveva scelto di tenere il suo investor day a Francoforte aprendo alla possibilità, secondo il mensile tedesco Manager Magazin, a spostare in Germania la sede e a tagliare meno posti di lavoro di quanti ne sarebbero saltati in caso di fusione tra Deutsche Bank e Commerzbank.
L'opzione Ing segue il fallimento della fusione con Deutsche Bank, sponsorizzata dal ministro delle finanze, Olaf Scholz. Che ora sembra aver virato verso una fusione cross-border: «Abbiamo bisogno di grandi banche europee che operino in Germania», aveva detto lo scorso 30 aprile. I titoli, dopo una buona reazione in Borsa, hanno chiuso in calo, in linea con il settore. Commerzbank ha perso l'1,4% e Ing l'1%. I dettagli di cronaca ci riportano a una sproporzione di fondo. La commissaria Ue alla Concorrenza, Margrethe Vestager, non ha mai alzato i toni contro le scelte del governo tedesco che alla faccia delle norme Ue sul sistema bancario ha sempre voluto pigiare il piede sull'acceleratore del salvataggio di Stato. O almeno del tentativo di coordinare a livello politico ciò che dovrebbe essere di competenza di aziende private. Esattamente in scia rispetto ha quanto la Francia dimostra di poter fare indisturbata. D'altronde Berlino è riuscita a ottenere persino di sfilare alla vigilanza Ue tutto il sistema delle banche dei Lander. Sportelli molto intrecciati alla politica locale. Noi invece abbiamo avuto Matteo Renzi che ha fatto la sua devastante riforma delle Popolari.
Gianluca Baldini
Torino a caccia di elettrico guarda a coreani e cinesi
Sfumato, almeno per ora, il matrimonio con Renault, per Fca l'ipotesi di nuove alleanze resta viva. Anzi, di più: per molti osservatori il futuro del gruppo italo-statunitense non può prescindere da un accordo industriale con un'altra realtà del settore automobilistico, che possa garantire a Fca la possibilità di sviluppare i nuovi modelli sui quali puntava lo scomparso ad Sergio Marchionne e di rilanciarsi sul fronte delle auto ibdride ed elettriche.
Che a Fca serva un partner è opinione comune tra gli analisti finanziari, che ieri non hanno dato una lettura positiva alla notizia del ritiro dell'offerta di fusione paritetica con Renault. Come ha riferito un broker a Reuters, «domande sulla necessità da parte di Fca di trovare un partner e sulla sua posizione negoziale potrebbero emergere». E se un banker specializzato nel settore ha tagliato corto, spiegando che «ci sono poche alternative per Fca: la mia opinione è che dovrà riaprire la trattativa con Renault», Equita Sim ha provato a ipotizzare qualche nome alternativo. «Se qualcuno è interessato riteniamo che possa manifestarsi in tempi brevi», hanno spiegato gli analisti della società, che comunque ritengono «improbabile che possa proporsi Psa (Peugeot Citroen, ndr) in quanto lo scoglio politico francese si ripresenterebbe. Sullo sfondo restano Hyundai e GM». In particolare la casa coreana presenterebbe un profilo interessante per quanto riguarda le tecnologie relative all'auto elettrica e alla guida autonoma. Da tener presente, come outsider, anche il gruppo Geely, fra i principali produttori privati di auto della Repubblica Popolare Cinese, che nel 2018 ha già messo un piede nel mercato europeo comprando Volvo da Ford.
Tecnologie che un'alleanza come quella con Renault - che già ha in corso una partnership con Nissan e Mitsubishi - avrebbe messo a disposizione del nuovo gruppo, e quindi di Fca. Con la fusione Fca-Renault sarebbe diventato il terzo produttore mondiale di auto, con 8,7 milioni di veicoli all'anno, con la possibilità di superare i 15 milioni considerando anche Nissan e Mitsubishi. Al centro dei piani del gruppo nato dal matrimonio, come aveva spiegato la stessa Fca in una nota, ci sarebbe appunto stata l'elettrificazione, con la nuova società che sarebbe diventata «leader mondiale nelle tecnologie elettriche», anche grazie all'esperienza decennale di Renault ne settore, mentre Fca avrebbe portato in dote la sua expertise nel segmento della guida autonoma, grazie «alle partnership con Waymo, Bmw e Aptiv».
Con l'alleanza, quindi, il gruppo guidato da Mike Manley intendeva recuperare terreno sul fronte della mobilità elettrica, un segmento al quale finora aveva destinato meno sforzi dei concorrenti - come Volkswagen, che ha annunciato investimenti sulle e-car per 30 miliardi di euro al 2023 - e che invece sempre più studi considerano cruciale per il futuro del settore automobilistico.
Come spiega il sito specializzato Qualenergia, infatti, secondo le stime più «aggressive» della International Energy Agency (Iea) nel 2030 le vendite annuali di mezzi elettrici saranno pari a 43 milioni di veicoli, con 250 milioni di mezzi - non solo auto, ma anche furgoni, bus e camion - in circolazione nel mondo. Per quanto riguarda le sole auto, invece, se si sommano quelle ibride-ricaricabili e quelle totalmente elettriche le previsioni parlano di 212 milioni di veicoli in circolazione tra una decina d'anni. Un balzo notevole rispetto alla situazione attuale: a fine 2018, infatti, le auto elettriche in circolazione erano poco più di 5 milioni, con vendite annuali pari a poco più di due milioni e una quota di mercato totale del 2,2%.
Chiara Merico
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Riduci
Quando le trattative erano riservate, l'Eliseo non aveva eccepito. Ma una volta svelato l'accordo, ha preteso il controllo del colosso con solo il 15% di azioni. Però gli Agnelli hanno mostrato tigna, mica come Paolo Gentiloni... Commerzbank ci riprova. Ora vuole sposarsi con gli olandesi di Ing. Fallito il matrimonio con Db, l'istituto partecipato dal governo tedesco punta ai vicini. E i problemi di concorrenza? L'Ue dorme. Torino a caccia di elettrico guarda a coreani e cinesi. L'aggiornamento tecnologico «verde» è vitale. Esclusa Peugeot, i partner potenziali restano Hyundai e Geely. Lo speciale comprende tre articoli. Con una sola mossa compiuta con il favore delle tenebre, Emmanuel Macron ha fatto filotto. La sua scelta di pretendere un accordo tutto sbilanciato a favore dello Stato francese - persino contro i legittimi interessi di Renault - ha fatto saltare le nozze. Fca si è tirata indietro, mettendo nero su bianco che non c'erano le condizioni politiche per un matrimonio paritetico. Il passo indietro improvviso di John Elkann è per Macron un enorme smacco. In futuro non potrà più presentarsi ai consessi internazionali spacciandosi come il presidente business-friendly. La maschera di finto difensore del mercato è caduta una volta per tutte. Prima di rendere pubblica l'intenzione della famiglia Agnelli di proporre un matrimonio alla casa automobilistica di Parigi, è inutile specificare che la controparte politica era stata sondata da Fca e informata dei pilastri principali dell'accordo. La bozza del memorandum prevedeva da subito una ripartizione paritetica del potere e delle leve manageriali. Da subito, il ministro dell'Economia, Bruno Le Maire, ha incoraggiato il deal. L'ha sostenuto. Ma quando il testo è divenuto di dominio pubblico, Parigi ha sterzato e ha posto una serie di condizioni che prima non ci risulta avesse avanzato. Ha chiesto non tanto posti in cda, ma ha fatto capire di voler subentrare nelle decisioni del board di Renault in modo da rendere il proprio 15% di quote l'unica leva di comando. Quando il governo francese ha capito che a Torino non c'era intenzione di cedere a richieste troppo sbilanciate, ha tirato in ballo i giapponesi. Le Maire dopo aver dichiarato alla stampa tedesca di essere favorevole alla fusione (serata di mercoledì) ha fatto sapere che senza il parere favorevole di Nissan (che con Renault ha una stretta partnership) l'operazione non poteva andare in porto. Fatto di per sé non previsto nell'accordo tra francesi e giapponesi, ma soprattutto smentito ieri pomeriggio da Nissan, che ha rilasciato una nota per far sapere che «ci stavamo approcciando in modo positivo all'operazione». Doppia sberla. Il risultato è che la Francia ha sbattuto contro il muro e anche se in futuro si tornasse a discutere di matrimonio per il top management di Renault sarà tutto più complicato. Non solo. Coloro tra Pd, competenti e sostenitori di + Europa che per mesi hanno preso l'effigie di Macron e l'hanno sbandierata come simbolo di liberismo ed europeismo ora saranno tenuti a definire Macron un nazionalista. Pure senza attributi. Infatti, nemmeno ha voluto metterci la faccia. Ha mandato avanti Le Maire, che a sua volta passerà alla storia per essersi rimangiato la parola due volte. Fincantieri docet. Al contrario Matteo Salvini, che dalla partita si è tenuto fuori e si è limitato a dirsi favorevole, ha ricevuto un dono inaspettato. A chi lo accuserà di essere uno sporco sovranista amante delle barriere potrà limitarsi a mostrare un santino di Macron. Ne esce male pure la classe dirigente francese, che è sempre riuscita a gestire la propria impronta statalista nascondendola dietro a una patina di finte regole. Quelle stesse norme europee che ieri sono capitolate assieme al tentativo di fusione. Adesso la figuraccia è in mondo visione. Non c'erano grandi dubbi sul fatto che fare gli europeisti con il fondo schiena degli altri fosse fin troppo comodo. Si era già capito ai tempi della trattativa con Fincantieri. Anche in quell'occasione lo Stato francese aveva fatto marcia indietro. Gli accordi di base erano già stati presi, eppure è stato fatto di tutto per evitare che al nostro colosso della cantieristica finisse il controllo di maggioranza di Stx. Tant'è che l'operazione è ancora in un limbo che non promette nulla di buono. Macron se ne è infischiato della reciprocità europea. Solo che due anni fa ha trovato come interlocutore un presidente del Consiglio come Paolo Gentiloni, che ama più il francese dell'italiano. L'altro ieri notte invece Fca ha reagito in modo diverso. Ha sbattuto la porta in faccia a Parigi e Macron è riuscito in una impresa non facilissima. Ha trasformato John Elkann, che porta sulle sue spalle la difficile eredità di casa Agnelli, in un manager addirittura simpatico, quasi un italiano agli occhi degli italiani. Lui, che fino a qualche tempo fa è sempre stato un passo indietro rispetto a Sergio Marchionne e al fratello Lapo, ha assestato un colpo da maestro. Anche solo d'immagine. Certo, Elkann difende i suoi interessi, ma con quel comunicato così frontale contro il governo francese si è guadagnato pure la patente di difensore del mercato. Chi l'avrebbe mai detto? Eppure non è il solo «successo» che l'arroganza dei francesi è riuscita a ottenere. Macron ha bucato le gomme all'Europa. Ora Bruxelles avrà il suo bel da fare a spacciare le bufale sull'europeismo a tutti i costi. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/dopo-il-regalo-del-pd-su-fincantieri-i-cugini-volevano-fregarci-ancora-2638720594.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="commerzbank-ci-riprova-ora-vuole-sposarsi-con-gli-olandesi-di-ing" data-post-id="2638720594" data-published-at="1765431721" data-use-pagination="False"> Commerzbank ci riprova. Ora vuole sposarsi con gli olandesi di Ing Si rafforza la pista olandese per Commerzbank, il colosso bancario tedesco che ha cercato inutilmente di sposarsi con Deutsche Bank. Il governo tedesco, primo azionista con il 15,5% del capitale, ha avviato sondaggi con quello olandese per verificare la possibilità di un matrimonio che dovrebbe consolidare il rilancio di Commerzbank e creare un «campione» europeo. L'opzione è stata discussa a Berlino nel mese di maggio dal ministro delle finanze olandese, Wopke Hoekstra, e dal vice ministro delle finanze tedesco, Joerg Kukies, secondo indiscrezioni raccolte dall'agenzia Bloomberg. Lo scambio di vedute, ancora in uno stadio preliminare, avrebbe coinvolto, tra le altre cose, la sede della nuova banca, che il governo tedesco vorrebbe basare a Francoforte. «Il matrimonio», recita l'agenzia, «se ci saranno le condizioni, non dovrebbe comunque celebrarsi nel 2019 in quanto la Germania attende prima dei progressi nella regolazione e nell'integrazione bancaria europea». L'interesse di Ing non è un mistero. Lo stesso amministratore delegato di Commerzbank, Martin Zielke, nel corso dell'assemblea dello scorso 22 maggio, aveva detto di aver incontrato il suo omologo di Ing, Ralph Hamers, due volte nel 2018 anche se non ne è nata una trattativa. Il gruppo del Conto Arancio, lo scorso 25 marzo, aveva scelto di tenere il suo investor day a Francoforte aprendo alla possibilità, secondo il mensile tedesco Manager Magazin, a spostare in Germania la sede e a tagliare meno posti di lavoro di quanti ne sarebbero saltati in caso di fusione tra Deutsche Bank e Commerzbank. L'opzione Ing segue il fallimento della fusione con Deutsche Bank, sponsorizzata dal ministro delle finanze, Olaf Scholz. Che ora sembra aver virato verso una fusione cross-border: «Abbiamo bisogno di grandi banche europee che operino in Germania», aveva detto lo scorso 30 aprile. I titoli, dopo una buona reazione in Borsa, hanno chiuso in calo, in linea con il settore. Commerzbank ha perso l'1,4% e Ing l'1%. I dettagli di cronaca ci riportano a una sproporzione di fondo. La commissaria Ue alla Concorrenza, Margrethe Vestager, non ha mai alzato i toni contro le scelte del governo tedesco che alla faccia delle norme Ue sul sistema bancario ha sempre voluto pigiare il piede sull'acceleratore del salvataggio di Stato. O almeno del tentativo di coordinare a livello politico ciò che dovrebbe essere di competenza di aziende private. Esattamente in scia rispetto ha quanto la Francia dimostra di poter fare indisturbata. D'altronde Berlino è riuscita a ottenere persino di sfilare alla vigilanza Ue tutto il sistema delle banche dei Lander. Sportelli molto intrecciati alla politica locale. Noi invece abbiamo avuto Matteo Renzi che ha fatto la sua devastante riforma delle Popolari. Gianluca Baldini <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/dopo-il-regalo-del-pd-su-fincantieri-i-cugini-volevano-fregarci-ancora-2638720594.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="torino-a-caccia-di-elettrico-guarda-a-coreani-e-cinesi" data-post-id="2638720594" data-published-at="1765431721" data-use-pagination="False"> Torino a caccia di elettrico guarda a coreani e cinesi Sfumato, almeno per ora, il matrimonio con Renault, per Fca l'ipotesi di nuove alleanze resta viva. Anzi, di più: per molti osservatori il futuro del gruppo italo-statunitense non può prescindere da un accordo industriale con un'altra realtà del settore automobilistico, che possa garantire a Fca la possibilità di sviluppare i nuovi modelli sui quali puntava lo scomparso ad Sergio Marchionne e di rilanciarsi sul fronte delle auto ibdride ed elettriche. Che a Fca serva un partner è opinione comune tra gli analisti finanziari, che ieri non hanno dato una lettura positiva alla notizia del ritiro dell'offerta di fusione paritetica con Renault. Come ha riferito un broker a Reuters, «domande sulla necessità da parte di Fca di trovare un partner e sulla sua posizione negoziale potrebbero emergere». E se un banker specializzato nel settore ha tagliato corto, spiegando che «ci sono poche alternative per Fca: la mia opinione è che dovrà riaprire la trattativa con Renault», Equita Sim ha provato a ipotizzare qualche nome alternativo. «Se qualcuno è interessato riteniamo che possa manifestarsi in tempi brevi», hanno spiegato gli analisti della società, che comunque ritengono «improbabile che possa proporsi Psa (Peugeot Citroen, ndr) in quanto lo scoglio politico francese si ripresenterebbe. Sullo sfondo restano Hyundai e GM». In particolare la casa coreana presenterebbe un profilo interessante per quanto riguarda le tecnologie relative all'auto elettrica e alla guida autonoma. Da tener presente, come outsider, anche il gruppo Geely, fra i principali produttori privati di auto della Repubblica Popolare Cinese, che nel 2018 ha già messo un piede nel mercato europeo comprando Volvo da Ford. Tecnologie che un'alleanza come quella con Renault - che già ha in corso una partnership con Nissan e Mitsubishi - avrebbe messo a disposizione del nuovo gruppo, e quindi di Fca. Con la fusione Fca-Renault sarebbe diventato il terzo produttore mondiale di auto, con 8,7 milioni di veicoli all'anno, con la possibilità di superare i 15 milioni considerando anche Nissan e Mitsubishi. Al centro dei piani del gruppo nato dal matrimonio, come aveva spiegato la stessa Fca in una nota, ci sarebbe appunto stata l'elettrificazione, con la nuova società che sarebbe diventata «leader mondiale nelle tecnologie elettriche», anche grazie all'esperienza decennale di Renault ne settore, mentre Fca avrebbe portato in dote la sua expertise nel segmento della guida autonoma, grazie «alle partnership con Waymo, Bmw e Aptiv». Con l'alleanza, quindi, il gruppo guidato da Mike Manley intendeva recuperare terreno sul fronte della mobilità elettrica, un segmento al quale finora aveva destinato meno sforzi dei concorrenti - come Volkswagen, che ha annunciato investimenti sulle e-car per 30 miliardi di euro al 2023 - e che invece sempre più studi considerano cruciale per il futuro del settore automobilistico. Come spiega il sito specializzato Qualenergia, infatti, secondo le stime più «aggressive» della International Energy Agency (Iea) nel 2030 le vendite annuali di mezzi elettrici saranno pari a 43 milioni di veicoli, con 250 milioni di mezzi - non solo auto, ma anche furgoni, bus e camion - in circolazione nel mondo. Per quanto riguarda le sole auto, invece, se si sommano quelle ibride-ricaricabili e quelle totalmente elettriche le previsioni parlano di 212 milioni di veicoli in circolazione tra una decina d'anni. Un balzo notevole rispetto alla situazione attuale: a fine 2018, infatti, le auto elettriche in circolazione erano poco più di 5 milioni, con vendite annuali pari a poco più di due milioni e una quota di mercato totale del 2,2%. Chiara Merico
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Riduci
Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Riduci
Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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