2023-06-01
Non si faccia l’errore di non ascoltare Djoko
Novak Djokovic (Getty Images)
Quando il tennista dice che il Kosovo è il cuore della Serbia dice il vero, la storia è dalla sua. Chi lo condanna alimenta le tensioni e di fatto incita l’etnia albanese ad alzare i toni delle provocazioni. Con lo scopo mai dimenticato di realizzare la Grande Albania.Il tennista più famoso al mondo è serbo. Novak Djokovic, dai campi del Roland Garros, seguendo a distanza gli scontri tra la popolazione serba residente nella zona Nord del Kosovo e le forze militari della Nato, si è sentito in dovere di mandare un messaggio ai suoi conterranei e pure alla comunità internazionale. Ha detto due cose. La prima: «Il Kosovo è il cuore della Serbia». La seconda: «Stop alla violenza». Una frase di buon senso che invece è stata subito sommersa di critiche e di prese di distanza. Per primo il ministro dello Sport francese, Amelie Oudea-Castera, che ha tuonato: «Quando vogliamo mandare messaggi in difesa dei diritti umani, messaggi che uniscono persone sulla base di valori universali, un atleta è libero di farlo. Ma in questo caso parliamo di un messaggio militante e politico e questo non deve accadere». Satolla di cultura woke, il ministro francese ignora un paio di cose importante. Il babbo di Djokovic è nato in Metokia, il termine serbo per Kosovo, il tennista è nato a Belgrado ma ha passato la sua infanzia lì e quindi quando afferma che quella regione è il cuore della Serbia si limita a ribadire una verità storica. La religione ortodossa serba affonda le proprie origini nella costellazione di monasteri che si sviluppa come una corona dentro il perimetro kosovaro. Deceni, di questi, è il monastero più importante ed è a soli 80 chilometri da Mitrovica dove è nato il padre. Anche di fronte alla richiesta di fermare gli scontri le dichiarazioni del tennista non possono prescindere dall’idea di nazione che i serbi portano nelle vene. La reazione del ministro francese è esattamente quanto di più sbagliato si possa fare perché contribuisce ad alimentare le tensioni e di fatto incita l’etnia albanese in Kosovo a sentirsi autorizzata ad alzare i toni e l’entità delle provocazioni. Nella città di Orahovac, un murale dedicato a Djokovic è stato distrutto. Ma ciò che è più interessante è che chi è intervenuto ha lasciato la firma: Uck. Cioè, esercito di liberazione del Kosovo. I cui ex appartenenti sono diventati in gran parte politici locali, ma hanno mantenuto cassapanche con armi ben oliate. Chi conosce l’area e ne segue le dinamiche da almeno dieci anni, infatti, sa bene ciò che sta avvenendo. Progressivamente i sindaci albanesi hanno deciso di spostare l’asticella della convivenza sempre più vicino alle proprie utilità. Fino ad almeno il 2020, molte provocazioni sono rimaste sotto traccia. L’idea finale era quella di poter realizzare la Grande Albania. Un’idea simile era abbracciata anche dalla componente albanese della Macedonia del Nord. Quando la politica di Edi Rama si è invece spostata verso l’opzione ingresso nell’Ue anche gli equilibri in Kosovo sono ritornati a un livello di tensione più elevato. Si è cercato di imporre ai serbi le targhe delle auto kosovare, poi i documenti d’identità e poi la coercizione a iscriversi alla federazione di calcio locale. Dall’altra parte, quella serba, si è preferito boicottare le elezioni e non cercare altra soluzione. La comunità internazionale dal canto suo ha sottovalutato i dettagli e le sfumature. I Balcani vanno conosciuti, rispettati e non visti da fuori e giudicati. Per questo Djokovic ha diritto di parlare molto più del ministro francese e al tempo stesso chi in questi giorni grida all’intervento russo per mettere benzina sul fuoco continua a ignorare i dettagli e le particolarità di quelle montagne. La presenza dei monaci a presidio dei monasteri sta a indicare la continuità fisica di ciò che è accaduto nel lontano 1389, quando il regno di Bosnia e il principato della Morava hanno combattuto nella Piana dei Merli contro l’esercito ottomano. Religione e politica sono inscindibili. Non basta mandare la Nato per spezzare queste tradizioni. Lungi da noi immaginare una soluzione. Ma il racconto dei buoni contro i cattivi non farà altro che peggiorare la situazioni. È il momento invece di ascoltare di più i serbi per due motivi. Primo, il presidente Aleksander Vučić ha annunciato elezioni anticipate a settembre. Nel Paese è in atto un forte tentativo di scollamento da Mosca. Lo si capisce dalle tensioni interne e da alcune faide tra imprenditori ed oligarchi russi. Il famoso «Russian-serbian humanitarian team» di Nis, una sorta di centro di spionaggio russo vestito da corpo forestale è stato chiuso e messo al bando. Secondo molti analisti era il quartier generale dei servizi russi per tutti i Balcani. Non solo. Vučić sta cercando l’appoggio europeo per avviare una nuova tornata di governo. Un appiglio che l’Ue deve prendere in considerazione. Secondo motivo è quanto accadrà dopo ottobre. Oggi il comando della missione Kfor, sotto bandiera Nato, è affidato all’Italia, nazione che contribuisce alla missione con oltre 700 militari. La mediazione, in poche parole, spetta a noi. A subentrare saranno i militari turchi e allora il panorama cambierà drasticamente. Non solo perché quelle sono le stesse colline attorno alla Piana dei Merli, ma anche perché Recepp Erdogan è desideroso di allungare la propria influenza in quelle regioni. Ieri l’americana Cnn ha trasmesso una intervista esclusiva di Vučić e per la prima volta ha riportato la condanna degli altri Paesi balcanici nei confronti della polizia kosovara. Forse, il segno che è in arrivo un cambiamento.
Nel riquadro Roberto Catalucci. Sullo sfondo il Centro Federale Tennis Brallo
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