2025-11-11
Il Pd chiede di punire chi sostiene l'economia del Paese
Elly Schlein (Ansa)
In sintesi, il 43 per cento degli italiani non paga l’imposta, mentre chi guadagna più di 60.000 euro lordi l’anno paga per due. Di fronte a questi numeri qualsiasi persona di buon senso capirebbe che è necessario alleggerire la pressione fiscale sul ceto medio, evitando di tartassarlo. Qualsiasi, ma non i vertici della sinistra. Pd, Avs e Cgil dunque si agitano compatti contro gli sgravi previsti dal la finanziaria, sostenendo che il taglio dell’Irpef è un regalo ai più ricchi. Premesso che per i redditi alti, cioè quello 0,2 per cento che in Italia dichiara più di 200.000 euro lordi l’anno, non ci sarà alcun vantaggio, gli altri, quelli che non sono in bolletta e guadagnano più di 2.000 euro netti al mese, pare davvero difficile considerarli ricchi. Certo, non so no ridotti alla canna del gas, ma nelle città (e quasi sempre le persone con maggiori entrate vivono nei capoluoghi) si fa fatica ad arrivare a fine mese con uno stipendio che per metà e forse più se ne va per l’affitto. Negli ultimi anni le finanziarie del governo Meloni hanno favorito le fasce di reddito basse e medie. Ora è la volta di chi guadagna un po’di più, ma non molto di più, e che ha visto in questi anni il proprio potere d’acquisto eroso dall’inflazione. Ma a sinistra non se la prendono solo con i redditi oltre i 50.000 euro. Vogliono anche colpire il patrimonio e così rispolverano una tassa che punisca le grandi ricchezze e le proprietà immobiliari. Premesso che le due cose non vanno di pari passo: si può anche possedere un appartamento del valore di un paio di milioni ma, avendolo ereditato dai geni tori, non avere i soldi per ristrutturarlo e dunque nemmeno per pagare ogni anno una tassa.
Dunque, possedere un alloggio in centro, dove si vive, non sempre è indice di patrimonio da ricchi. E poi chi ha una seconda casa paga già u n’imposta sul valore immobiliare detenuto ed è l’I mu, che nel 2024 ha consentito allo Stato di incassare l’astronomica cifra di 17 miliardi di euro, il livello più alto raggiunto negli ultimi cinque anni. Milionari e miliardari, quelli veri e non immaginati dai compagni, certo non hanno il problema di pagare una tassa sui palazzi che possiedono, ma non hanno neppure alcuna difficoltà a ingaggiare i migliori fiscali sti per sottrarsi alle pretese del fisco e, nel caso in cui neppure i professionisti sia no in grado di metterli al riparo dall’Agenzia delle entrate, possono sempre traslocare, spostando i propri soldi altrove. Come è noto, la finanza non ha confini e l’apertura dei mercati consente di portare le proprie attività dove è più conveniente. Quando proprio il Pd, all’e poca guidato da Matteo Renzi, decise di introdurre una flat tax per i Paperoni stranieri, migliaia di nababbi presero la residenza da noi. E se domani l’imposta venisse abolita probabilmente andrebbero altrove, seguiti quasi certamente dai ricconi italiani. Del resto, la Svizzera è vicina e, come insegna Carlo De Benedetti, è sempre pronta ad accogliere chi emigra con le tasche piene di soldi. Inoltre uno studio ha recentemente documentato che l’introduzione negli Usa di una patrimoniale per ogni dollaro incassato farebbe calare il Pil di 1 euro e 20 centesimi, con una perdita secca del 20 per cento. Risultato, la nuova lotta di classe di Elly Schlein e compagni rischia di colpire solo il ceto medio, cancellando gli sgravi fiscali e inasprendo le imposte patrimoniali. Quando Mario Monti, con al fianco la professoressa dalla lacrima facile, fece i compiti a casa per conto di Sarkozy e Merkel , l’Italia entrò in de pressione, ma oggi una patrimoniale potrebbe essere il colpo di grazia.
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Avete presente Massimo D’Alema quando confessò di voler vedere Silvio Berlusconi chiedere l’elemosina in via del Corso? Non era solo desiderare che fosse ridotto sul lastrico un avversario politico, ma c’era anche l’avversione nei confronti di chi aveva fatto i soldi. Beh, in un trentennio sono cambia ti i protagonisti, ma la sinistra non è cambiata e continua a odiare la ricchezza che non sia la propria. Così adesso, sepolto il Cavaliere, se la prende con il ceto medio, i nuovi ricchi, a cui sogna di togliere gli sgravi decisi dal governo Meloni. Da anni si parla dell’appiattimento reddituale di quella che un tempo era la classe intermedia, ma è bastato che l’esecutivo parlasse di concedere aiuti a chi guadagna 50.000 euro lordi l’anno perché dal Pd alla Cgil alzassero le barricate. E dire che poche settimane fa la pubblicazione di un’analisi delle denunce dei redditi aveva portato a conclusioni a dir poco sor prendenti. Dei 42,6 milioni di dichiaranti, 31 milioni si fanno carico del 23,13 dell’Irpef, mentre gli altri 11,6 milioni pagano il resto, ovvero il 76,87 per cento. In sintesi, il 43 per cento degli italiani non paga l’imposta, mentre chi guadagna più di 60.000 euro lordi l’anno paga per due. Di fronte a questi numeri qualsiasi persona di buon senso capirebbe che è necessario alleggerire la pressione fiscale sul ceto medio, evitando di tartassarlo. Qualsiasi, ma non i vertici della sinistra. Pd, Avs e Cgil dunque si agitano compatti contro gli sgravi previsti dal la finanziaria, sostenendo che il taglio dell’Irpef è un regalo ai più ricchi. Premesso che per i redditi alti, cioè quello 0,2 per cento che in Italia dichiara più di 200.000 euro lordi l’anno, non ci sarà alcun vantaggio, gli altri, quelli che non sono in bolletta e guadagnano più di 2.000 euro netti al mese, pare davvero difficile considerarli ricchi. Certo, non so no ridotti alla canna del gas, ma nelle città (e quasi sempre le persone con maggiori entrate vivono nei capoluoghi) si fa fatica ad arrivare a fine mese con uno stipendio che per metà e forse più se ne va per l’affitto. Negli ultimi anni le finanziarie del governo Meloni hanno favorito le fasce di reddito basse e medie. Ora è la volta di chi guadagna un po’di più, ma non molto di più, e che ha visto in questi anni il proprio potere d’acquisto eroso dall’inflazione. Ma a sinistra non se la prendono solo con i redditi oltre i 50.000 euro. Vogliono anche colpire il patrimonio e così rispolverano una tassa che punisca le grandi ricchezze e le proprietà immobiliari. Premesso che le due cose non vanno di pari passo: si può anche possedere un appartamento del valore di un paio di milioni ma, avendolo ereditato dai geni tori, non avere i soldi per ristrutturarlo e dunque nemmeno per pagare ogni anno una tassa. Dunque, possedere un alloggio in centro, dove si vive, non sempre è indice di patrimonio da ricchi. E poi chi ha una seconda casa paga già u n’imposta sul valore immobiliare detenuto ed è l’I mu, che nel 2024 ha consentito allo Stato di incassare l’astronomica cifra di 17 miliardi di euro, il livello più alto raggiunto negli ultimi cinque anni. Milionari e miliardari, quelli veri e non immaginati dai compagni, certo non hanno il problema di pagare una tassa sui palazzi che possiedono, ma non hanno neppure alcuna difficoltà a ingaggiare i migliori fiscali sti per sottrarsi alle pretese del fisco e, nel caso in cui neppure i professionisti sia no in grado di metterli al riparo dall’Agenzia delle entrate, possono sempre traslocare, spostando i propri soldi altrove. Come è noto, la finanza non ha confini e l’apertura dei mercati consente di portare le proprie attività dove è più conveniente. Quando proprio il Pd, all’e poca guidato da Matteo Renzi, decise di introdurre una flat tax per i Paperoni stranieri, migliaia di nababbi presero la residenza da noi. E se domani l’imposta venisse abolita probabilmente andrebbero altrove, seguiti quasi certamente dai ricconi italiani. Del resto, la Svizzera è vicina e, come insegna Carlo De Benedetti, è sempre pronta ad accogliere chi emigra con le tasche piene di soldi. Inoltre uno studio ha recentemente documentato che l’introduzione negli Usa di una patrimoniale per ogni dollaro incassato farebbe calare il Pil di 1 euro e 20 centesimi, con una perdita secca del 20 per cento. Risultato, la nuova lotta di classe di Elly Schlein e compagni rischia di colpire solo il ceto medio, cancellando gli sgravi fiscali e inasprendo le imposte patrimoniali. Quando Mario Monti, con al fianco la professoressa dalla lacrima facile, fece i compiti a casa per conto di Sarkozy e Merkel , l’Italia entrò in de pressione, ma oggi una patrimoniale potrebbe essere il colpo di grazia.
Giovanni Malagò (Getty Images)
Adesso si trova in Campania, dopo esser passata tra Lazio, Umbria Toscana, Sardegna, Sicilia e Calabria. Molte regioni verranno ripercorse di nuovo, in lungo e in largo. Il 26 gennaio tornerà invece, dopo 70 anni esatti dalla Cerimonia d’Apertura dei Giochi, a Cortina d’Ampezzo e concluderà il suo tragitto a Milano facendo il suo ingresso allo Stadio di San Siro, la sera di venerdì 6 febbraio 2026. 10.000 tedofori la stanno conducendo tra volti noti e persone comuni. I primi volti noti dello spettacolo e dello sport sono il cantante Achille Lauro, Flavia Pennetta, icona del nostro tennis, vincitrice degli US Open 2015 e di 4 Billie Jean King Cup e Francesco Bagnaia, due volte campione del mondo di MotoGP e una in Moto2. Tantissimi altri ancora e altri ce ne saranno. Anche perché la storia del Viaggio della Fiamma è piena di leggende, come Muhammad Alì ad Atlanta 1996, Cathy Freeman a Sydney 2000 e poi ancora la fondista Stefania Belmondo, ultima tedofora di Torino 2006 vent’anni fa nell’ultima edizione invernale italiana, dopo le frazioni di altri campioni olimpici azzurri come Alberto Tomba, Manuela Di Centa, Silvio Fauner e Deborah Compagnoni (nella foto di copertina). Quattro anni prima, invece, l’intera squadra statunitense di hockey maschile del “Miracolo sul ghiaccio” di Lake Placid 1980 che accese il braciere di Salt Lake City 2002 tra la commozione del pubblico statunitense.
La fiamma olimpica nasce con le prime olimpiadi nell'antica Grecia, dove il fuoco sacro ardeva in onore degli dèi durante i Giochi originali. La tradizione moderna è stata reintrodotta con l'accensione del braciere ai Giochi Olimpici di Amsterdam nel 1928 e la prima staffetta della torcia a Berlino nel 1936. Le torce di #MilanoCortina2026 sono un omaggio al design italiano con uno stile che mette al centro la fiamma. Eleganti. Iconiche. Sostenibili. Si chiamano Essential e portano con sé lo spirito dei Giochi che verranno.
La fiamma paralimpica partirà invece il 24 febbraio 2026 e si concluderà il 6 marzo 2026, giorno della cerimonia di apertura dei Giochi paralimpici all’Arena di Verona. Sfilerà nelle mani di 501 tedofori per 2.000 chilometri in 11 giorni. “La fiamma paralimpica verrà accesa il 24 febbraio a Stoke Mandeville in Inghilterra, storico luogo di nascita dello sport Paralitico - dichiara Maria Laura Iascone, Ceremonies Director di Fondazione Milano Cortina 2026 -. L’arrivo in Italia coinciderà con l’inizio di un viaggio che focalizzerà l’attenzione e l’entusiasmo verso le Paralimpiadi, amplificandone i messaggi di rispetto e inclusività, e generando un volano di entusiasmo, attesa e partecipazione intorno agli atleti paralimpici”. Dopo l'accensione nel Regno Unito, la fiamma paralimpica animerà 5 Flame Festival dal 24 febbraio al 2 marzo a Milano, Torino, Bolzano, Trento e Trieste, con la cerimonia di unione delle Fiamme il 3 marzo a Cortina d’Ampezzo. Dal 4 marzo, la fiamma raggiungerà Venezia e Padova, per fare il suo ingresso il 6 marzo all’Arena di Verona per la cerimonia di apertura dei Giochi paralimpici.
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Tra Natale ed Epifania il turismo italiano supera i 7 miliardi di euro di giro d’affari. Crescono presenze, viaggi interni ed esperienze artigianali, con città d’arte e montagne in testa alle preferenze.
Le settimane comprese tra il Natale e l’Epifania si confermano uno dei momenti più redditizi dell’anno per il turismo italiano. Secondo le stime di Cna Turismo e Commercio, il giro d’affari generato tra feste, fine anno e Befana supera i 7 miliardi di euro. Un risultato che non fotografa soltanto l’andamento economico del settore, ma racconta anche un’evoluzione nelle scelte e nelle aspettative dei viaggiatori.
Nel periodo festivo sono attesi oltre 5 milioni di turisti che trascorreranno almeno una notte in una struttura ricettiva: circa 3,7 milioni sono italiani, mentre 1,3 milioni arrivano dall’estero. A questi si aggiunge una platea ben più ampia di persone in movimento: oltre 20 milioni di individui si sposteranno per escursioni giornaliere, soggiorni nelle seconde case o visite a parenti e amici.
Per quanto riguarda i flussi internazionali, la componente europea resta prevalente, con arrivi soprattutto da Francia, Germania, Spagna e Regno Unito. Fuori dal continente, si segnalano presenze significative da Stati Uniti, Canada e Cina. Le preferenze delle destinazioni confermano una tendenza ormai consolidata. In cima alle scelte ci sono le città e i borghi d’arte, seguiti dalle località di montagna. Due modi diversi di vivere le vacanze natalizie: da un lato l’attrazione per il patrimonio culturale, i mercatini e le atmosfere urbane illuminate dalle feste; dall’altro la ricerca della neve, degli sport invernali e di un contatto più diretto con l’ambiente naturale.
Alla base di questo successo concorrono diversi fattori. L’Italia continua a esercitare un forte richiamo quando si parla di tradizioni natalizie: dai presepi, in particolare quelli napoletani, ai mercatini dell’arco alpino, passando per i centri storici addobbati e le celebrazioni religiose che trovano a Roma uno dei loro punti centrali. Un insieme di elementi che costruisce un’offerta culturale difficilmente replicabile. Proprio la dimensione religiosa e identitaria del Natale italiano rappresenta un elemento di attrazione per molti visitatori nordamericani e per i turisti provenienti da Paesi di tradizione cattolica, spesso alla ricerca di un’esperienza percepita come più autentica rispetto a celebrazioni considerate eccessivamente commerciali. A questo si aggiunge la varietà climatica del Paese: temperature più miti al Sud e nelle isole per chi vuole evitare il freddo, condizioni ideali sulle Alpi per gli amanti dello sci e della montagna. Un segnale particolarmente rilevante arriva dalla crescita delle cosiddette esperienze, soprattutto quelle legate all’artigianato. Sempre più viaggiatori scelgono di affiancare alla visita dei luoghi la partecipazione diretta ad attività tradizionali: dalla preparazione della pasta fresca alle lavorazioni del vetro di Murano, fino alla ceramica umbra e toscana. È un approccio che indica un cambiamento nel modo di viaggiare, meno orientato alla semplice osservazione e più alla partecipazione.
Questo interesse incrocia diverse tendenze attuali: il bisogno di autenticità in un contesto sempre più standardizzato, la volontà di riportare a casa un’esperienza che vada oltre il souvenir e l’attenzione verso il “saper fare” italiano, riconosciuto come patrimonio immateriale di valore internazionale.
Sul piano economico incidono anche fattori più generali. La ripresa del potere d’acquisto delle classi medie in Europa e negli Stati Uniti, dopo anni di incertezza, ha sostenuto la propensione alla spesa per le vacanze. Il rafforzamento del dollaro favorisce i turisti statunitensi, mentre la fase di stabilizzazione successiva alla pandemia ha contribuito a ricostruire la fiducia nei viaggi. Il periodo natalizio rappresenta inoltre uno degli esempi più riusciti di destagionalizzazione, obiettivo perseguito da tempo dagli operatori del settore. Le strutture ricettive registrano livelli di occupazione elevati in settimane che in passato erano considerate marginali. Anche i collegamenti giocano un ruolo chiave: l’espansione dei voli low cost e il miglioramento dell’offerta ferroviaria rendono più accessibili non solo le grandi città, ma anche destinazioni meno centrali, favorendo una distribuzione più ampia dei flussi.
Accanto ai dati positivi emergono però alcune criticità. La concentrazione dei visitatori rischia di mettere sotto pressione alcune mete, mentre altre restano ai margini. Il turismo di prossimità, rappresentato dai milioni di italiani che si spostano senza pernottare in alberghi o strutture ricettive, costituisce un bacino ancora parzialmente inesplorato. Allo stesso tempo, la crescente domanda di esperienze personalizzate richiede investimenti in formazione e una maggiore integrazione tra operatori locali.
Le festività di fine anno restano comunque un motore fondamentale per l’economia del turismo, in grado di coinvolgere l’intera filiera: ristorazione, artigianato, trasporti e offerta culturale. Un patrimonio che, per continuare a produrre risultati nel tempo, richiede una strategia capace di innovare senza snaturare quell’autenticità che rappresenta il vero punto di forza del sistema italiano.
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I computer che guidano i mezzi non sono più stati in grado di calcolare come muoversi anche perché i sensori di bordo leggono lo stato dei semafori e questi erano spenti. Dunque Waymo in sé non ha alcuna colpa, e soltanto domenica pomeriggio è stato ripristinato il servizio. Dunque questa volta non c’è un problema di sicurezza per gli occupanti e neppure un pericolo per chi si trova a guidare, piuttosto, invece, c’è la dimostrazione che le nuove tecnologie sono terribilmente dipendenti da altre: in questo caso il rilevamento delle luci dei semafori, indispensabili per affrontare gli incroci e le svolte. Qui si rivela la differenza tra l’umano che conduce la meccanica e l’intelligenza artificiale: innanzi a un imprevisto, seppure con tutti i suoi limiti e difetti, un essere umano avrebbe improvvisato e tentato una soluzione, mentre la macchina (fortunatamente) ha obbedito alle leggi di controllo. Il problema non ha coinvolto i robotaxi Tesla, che invece agiscono con sistemi differenti, più simili ai ragionamenti umani, ovvero sono più indipendenti dalle infrastrutture della circolazione. Naturalmente Waymo può trarre da questo evento diverse considerazioni. La prima riguarda l’effettiva dipendenza del sistema di guida dalle infrastrutture esterne; la seconda è la valutazione di come i mezzi automatizzati hanno reagito alla mancanza di informazioni. Infine, come sarà possibile modificare i software di controllo affinché, qualora capiti un nuovo incidente tecnico, le auto possano completare in sicurezza il servizio. Dall’esterno della vicenda è invece possibile valutare anche altro: le tecnologie digitali applicate alle dinamiche automobilistiche non sono ancora sufficientemente autonome. Sia chiaro, lo stesso vale per navi e aeroplani, ma mentre per questi ultimi gli algoritmi dei droni stanno già portando a una ricaduta di tecnologia che viene trasferita ai velivoli pilotati, nel campo automobilistico c’è ancora molto lavoro da fare. Proprio ieri, sempre negli Usa, il pilota di un velivolo King Air da nove posti è stato colpito da un malore. La chiamano “pilot incapacitation” e a bordo non c’era nessun altro che potesse prendere il controllo e atterrare. Ed è qui che la tecnologia ha salvato aeroplano e occupanti: il passeggero che sedeva accanto all’uomo ha premuto il tasto del sistema “Autoland”, l’autopilota ha scelto la pista idonea per lunghezza più vicina alla posizione dell’aereo e alla rotta percorsa, ha avvertito il centro di controllo e anche messo il passeggero nelle condizioni di dichiarare la necessità di un’ambulanza sul posto. L’alternativa sarebbe stato un disastro aereo con diverse vittime. La notizia potrebbe sembrare senza alcuna correlazione con quanto accaduto a San Francisco, ma così non è: il produttore del sistema di navigazione dell’aeroplano è Garmin, ovvero il medesimo che fornisce navigatori al settore automotive. E che prima o poi vedremo fornire uno dei suoi prodotti a qualche costruttore di automobili.
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