2025-01-24
Per combattere lo spettro della «disinformatia russa» l’Europa rinnega sé stessa
Dallo scoppio del conflitto a Kiev, l’Ue purga le piattaforme che veicolano voci ritenute «funzionali» al Cremlino. Un cortocircuito per chi si erge a «culla del libero pensiero».È risaputo che durante i lunghi anni della Guerra fredda l’Urss faceva largamente ricorso (tanto da aver creato un apposito ufficio) a quella che già allora si chiamava la «disinformazione», allo scopo di condizionare e orientare in proprio favore l’opinione pubblica nei Paesi aderenti alla Nato e influire, in tal modo, anche sull’esito delle elezioni politiche, perché avessero successo partiti che all’appartenenza alla Nato erano contrari. A tale attività si cercava di far fronte mediante un’informazione di segno opposto, volta a confutare quelle che si ritenevano falsità, esagerazioni o deformazioni, comunque, della verità dei fatti. Non era neppure pensabile, però, che per combattere la disinformazione, vera o presunta, di provenienza sovietica si potessero sopprimere o sottoporre a censura organi di stampa o altri mezzi di diffusione del pensiero che di essa si supponesse fossero stati strumento. Ben diverso è, invece, l’approccio adottato, da quando è in corso la guerra russo-ucraina, nei confronti della pretesa nuova «disinformazione» che si assume proveniente, anche stavolta, dalle segrete stanze del Cremlino. Si dà infatti ormai quasi per scontato che sia non solo consentito ma addirittura doveroso ridurre al silenzio - utilizzando anche, in particolare, gli strumenti di controllo e di intervento offerti dal famigerato Dsa (Digital service act), emanato guarda caso pochi mesi dopo l’inizio della guerra - le voci che, specialmente mediante le piattaforme informatiche, rappresentino fatti o esprimano valutazioni ritenuti funzionali agli obiettivi perseguiti dalla propaganda russa. Illuminante, in proposito, appare la decisione assunta nel maggio del 2024 dal Comitato dei rappresentanti permanenti dei 27 Paesi aderenti all’Unione europea di bloccare le emissioni di quattro organi d’informazione russi (Voice of Europe, Ria Novosti, Izvestia e Russia Gazeta) con una motivazione che, nei suoi passaggi essenziali, per come riportati da Rai News, era la seguente: «La Federazione Russa è impegnata in una campagna internazionale e sistematica di manipolazione dei media e dell’informazione, di interferenza e di grave distorsione dei fatti per giustificare e sostenere la sua aggressione su larga scala contro l’Ucraina e per rafforzare la sua strategia di destabilizzazione dei Paesi vicini, dell’Ue e dei suoi Stati membri». E ancora: «In particolare, le attività di propaganda, manipolazione delle informazioni e interferenza hanno ripetutamente e costantemente preso di mira lo Stato ucraino e le sue autorità, i cittadini ucraini, nonché i partiti politici europei, soprattutto durante i periodi elettorali, oltre a colpire la società civile, i richiedenti asilo, le minoranze etniche russe, le minoranze di genere e il funzionamento delle istituzioni democratiche nell’Ue e nei suoi Stati membri». Analoga la motivazione addotta dall’italiana Agcom il 13 giugno 2024 per imporre alle piattaforme informatiche la rimozione del documentario Donbass ieri, oggi e domani, prodotto da Russia Today, sull’assunto che esso proponeva «una ricostruzione di quanto accaduto in Donbass negli ultimi 10 anni senza alcuna disamina o riproposizione di posizione diverse, descrivendo la popolazione ucraina come composta da feroci nazisti che vogliono sterminare il loro stesso popolo con la complicità di Nato, Usa e Unione europea, indicati come i veri mandanti delle stragi e autori del colpo di Stato del 2014». Dovrebbe a chiunque apparire evidente che, in ordinamenti giuridici come quelli degli Stati aderenti all’Unione europea, in cui si attribuisce valore primario alla libertà di manifestazione del pensiero e di critica politica, motivazioni del genere anzidetto potrebbero trarre la loro legittimazione soltanto dall’esistenza di un formale stato di guerra con un Paese straniero, tale per cui ogni forma palese o occulta di propaganda a favore del medesimo ben potrebbe essere vietata, a tutela del supremo interesse dello Stato. Ma né l’Unione europea né alcuno dei Paesi che ne fanno parte risultano essere, al momento, in stato di guerra contro la Russia. Non si vede, quindi, a quale titolo possa ritenersi illecito che quest’ultima promuova o effettui, direttamente o indirettamente, avvalendosi dei normali e leciti strumenti di manifestazione del pensiero, attività di propaganda finalizzata a volgere a proprio favore l’opinione pubblica dei Paesi europei in vista della possibilità che, nel rispetto delle regole democratiche, ne derivi un mutamento della politica attualmente seguita dai loro governi nei confronti della Russia. Non esiste, infatti, alcuna norma che imponga a uno Stato extracomunitario vincoli o divieti diversi da quelli che gravano su chiunque, nell’ambito dell’Unione europea, svolga una qualsiasi attività di propaganda politica e dai quali, peraltro, non può in alcun modo desumersi che la propaganda politica assuma caratteri di illiceità per il solo fatto che contenga false, incomplete o tendenziose rappresentazioni della realtà. Di qui l’assoluta inconsistenza giuridica dell’assunto secondo il quale l’asserita attività di propaganda posta in essere dalla Russia (ma il discorso varrebbe, a parità di condizioni, per qualsiasi altro Paese straniero) dovrebbe, di per sé, essere considerata come una «indebita interferenza» nei processi elettorali dei Paesi dell’Unione europea, tanto da poter dar luogo all’invalidazione dei risultati che si ritenga ne siano stati frutto. E ciò vale anche a fronte del precedente, di apparente segno contrario, costituito dall’annullamento da parte della Corte costituzionale romena della procedura elettorale per la presidenza della Repubblica che aveva visto l’inaspettato successo del candidato filorusso Calin Georgescu. Dal testo di tale decisione (reperibile sul sito internet della rivista Limes) emerge infatti che essa, nell’essenziale, si basa formalmente non sul generico assunto di vere o presunte «interferenze» da parte della Russia ma sull’asseritamente accertata violazione di specifiche previsioni della legislazione elettorale riguardanti la dichiarazione delle fonti di finanziamento dei candidati e la riconoscibilità, come messaggi di propaganda, di quelli veicolati dalle piattaforme informatiche. Inutile dire che si tratta, con ogni evidenza, di un’ipocrisia, volta a mascherare il fatto che l’obiettivo era quello di «far fuori» comunque, per ragioni puramente politiche, un candidato inviso all’«establishment» dominante a Bruxelles. Ma l’ipocrisia, come affermava François de La Rochefoucauld, è un omaggio che il vizio rende alla virtù. E finché il vizio avverte la necessità di un tale omaggio può dirsi che non tutto è perduto e vale, quindi, ancora la pena di combattere perché la libertà di pensiero e di parola non sia ulteriormente conculcata proprio laddove essa è, sulla carta, maggiormente garantita.Pietro Dubolino, Presidente di sezione emerito della Corte di Cassazione
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)