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2018-12-12
Parigi se ne frega dei limiti sul deficit. Tanto a Bruxelles bastonano solo noi
ANSA
Finale degli europei Italia-Francia: l'arbitro belga concede un rigore inesistente ai francesi, fa finta di niente sui falli da espulsione dei transalpini e alla fine della partita caccia via il nostro allenatore per proteste. È esattamente quello che sta succedendo a Bruxelles: il terreno di gioco sono i conti pubblici, l'arbitro è la Commissione europea. Parlare di due pesi e due misure è un eufemismo: ora che il presidente francese
Emmanuel Macron, per salvare la pelle (politicamente parlando) ha annunciato una serie di concessioni all'insegna del più puro populismo, con il risultato di far schizzare ben oltre il 3% il rapporto deficit/pil (Les Echos, il giornale economico parigino, stima una percentuale del 3,5% per il 2019) ci si aspetterebbe dai vari Jean Claude Juncker, Pierre Moscovici e Valdis Dombvrovskis un durissimo altolà con conseguente minaccia di aprire una procedura di infrazione. E invece, niente di niente: ieri, su quanto promesso da Macron e le conseguenti ricadute sulla finanza pubblica francese, dalla Commissione europea sono arrivati commenti laconici e imbarazzati, all'insegna del «poi ne parliamo». Un atteggiamento che, paragonato ai fulmini e scagliati verso Roma per una ipotesi di rapporto deficit/pil al 2,4%, rafforza il sospetto che il pugno di ferro utilizzato nei confronti del governo italiano sia solo e soltanto una «lezione» al nostro popolo, che ha votato per le forze politiche che si oppongono a questo regime del terrore finanziario che è diventata l'Unione europea.
Macron, per tentare di placare la piazza in rivolta, ha annunciato imminenti misure economiche, tra le quali un aumento di 100 euro del salario minimo senza oneri aggiuntivi per i datori di lavoro; la defiscalizzazione degli straordinari e dei bonus di fine anno da parte delle imprese; l'abrogazione dell'aumento dei contributi per i pensionati che guadagnano meno di 2.000 euro al mese.
Misure che, come dicevamo, secondo
Les Echos comporteranno mancati introiti per le finanze pubbliche di Parigi per circa 15 miliardi di euro e una impennata del rapporto deficit/pil al 3,5% (ma in realtà la stima è prudenziale: secondo diversi analisti e osservatori, il costo delle misure annunciate da Macron potrebbe portare il rapporto deficit/pil francese a sfiorare il 4%, anche perché la stessa banca di Francia ha ridotto le stime sulla crescita). Il debito pubblico francese è di gran lunga inferiore a quello italiano? Vero: peccato che tra le misure annunciate da Macron ce ne siano alcune, come ad esempio quelle sulle pensioni, che faranno aumentare proprio il debito. Ieri, i giornalisti di tutta Europa hanno chiesto ai burosauri di Bruxelles quali provvedimenti verranno presi nei confronti del governo parigino, anche in relazione al braccio di ferro in corso con l'Italia, e la risposta del portavoce capo della Commissione europea, Margaritis Schinas, è stata disarmante: «Abbiamo un procedimento ben strutturato», ha detto Schinas, «per monitorare e valutare la situazione economica e la politica di bilancio degli Stati membri. La nostra posizione sulla Francia è ben nota e l'opinione sul documento programmatico di bilancio francese è stata pubblicata di recente. L'impatto di bilancio della manovra che emergerà dall'iter parlamentare», ha aggiunto Schinas, «sarà valutato nella prossima primavera, quando pubblicheremo le nostre previsioni economiche».
Avete letto bene: se ne parla in primavera, e del resto è comprensibile, visto che una legnata sul capo di
Macron, sotto forma di procedura di infrazione, prima delle elezioni europee, sarebbe il colpo di grazia per il paladino dell'europeismo antipopulista, ridotto ormai alla caricatura di sé stesso, e messo talmente male da aver chiesto consigli su come affrontare la sommossa dei gilet gialli al suo predecessore Nicolas Sarkozy, invitato all'Eliseo venerdì scorso nell'ambito delle «consultazioni molto ampie» che hanno preceduto il suo discorso alla nazione.
Imbarazzo e silenzio: il solitamente assai ciarliero commissario europeo agli Affari Economici e Finanziari, il francese
Pierre Moscovici, ai giornalisti che gli chiedevano di commentare gli annunci di Macron alla luce della procedura di infrazione minacciata nei confronti dell'Italia ha risposto: «Non risponderò a nulla su questo argomento». Sarà un caso, ma Moscovici poche settimane fa era stato a cena con Macron, che lo aveva «arruolato» nel fronte europeista che si prepara a perdere le prossime elezioni europee. Un filino più loquace il vicepresidente della Commissione, Valdis Dombvrovskis, che ogni giorno spara a palle incatenate contro l'Italia, ma che sulle misure a tutta spesa annunciate dall'Eliseo si limita a dire «seguiremo con attenzione l'impatto degli annunci fatti dal presidente Macron sul deficit e le modalità di finanziamento».
Le solite «fonti comunitarie», ovviamente anonime, hanno spiegato che «per l'Italia abbiamo un documento programmatico di bilancio; che cosa abbiamo dalla Francia? Solo un discorso del presidente
Macron. Non possiamo prendere posizione in base a un discorso». Sembra passato un secolo, da quando i soloni di Bruxelles bacchettavano i ministri italiani per le loro dichiarazioni pubbliche.
Carlo Tarallo
Deutsche Bank salvata dallo Stato? Se lo fa Berlino l'Ue non apre bocca
Le voci si sono rincorse per mesi, ma adesso sembra quasi fatta. Pare infatti che le due banche più importanti della Germania, Deutsche Bank e Commerzbank, stiano per unirsi in matrimonio.
Secondo le indiscrezioni, dietro alla fusione ci sarebbe la «manina» dello stesso ministro delle Finanze tedesco, Olaf Scholz. La presenza del rappresentante dell'esecutivo guidato da Angela Merkel nella trattativa non deve stupire, dal momento che tra le soluzioni messe sul tavolo in queste ultime settimane ci sarebbe quella che prevede l'ingresso del governo federale in qualità di maggiore azionista di Deutsche Bank per un periodo propedeutico alla fusione che dovrebbe durare circa cinque anni. L'operazione, a quel punto, si configurerebbe come una vera e propria nazionalizzazione per l'istituto guidato da Christian Sewing.
Certo, si tratterebbe di uno scenario molto distante dalla linea di pensiero che ha animato la politica europea in ambito bancario degli ultimi anni. Pensiamo al bail in, la normativa di risoluzione degli istituti in difficoltà approvata nel 2014, introdotta proprio al fine di evitare i salvataggi di stato. Ma nel recente periodo abbiamo assistito al continuo moltiplicarsi di regole in ambito creditizio. Tutte novità che hanno reso difficile, se non quasi impossibile, la vita degli istituti di credito, in particolare quelli italiani. Una su tutte, l'ossessione morbosa della Vigilanza e del suo capo, Daniele Nouy, per i crediti deteriorati. Buon senso avrebbe voluto che proprio per quegli impieghi così difficili da riscuotere, il regolatore concedesse un arco temporale più ampio. E invece no. Messe con le spalle al muro, le nostre banche si sono trovate a doversi liberare in fretta e furia dei crediti non performanti (164 miliardi di euro nell'ultimo biennio), spesso svendendoli per pochi spiccioli e in larga parte a favore di investitori esteri. A poco e nulla sono valse le proteste di Banca d'Italia, che in più di un occasione ha sottolineato la mancata correlazione tra una maggiore quantità di Npl e mancata erogazione del credito. Il pranzo, ormai, era già servito.
Ci sono aspetti, tuttavia, sui quali la scure dell'autorità di Vigilanza si è abbattuta con una forza molto minore. Basti pensare, ad esempio, alla montagna di quasi 7.000 miliardi di euro di titoli «tossici» in pancia agli istituti francesi e tedeschi.
Una bomba pronta a esplodere, dal momento che una svalutazione pari ad appena il 5% di questi titoli produrrebbe impatti in termini di ricapitalizzazione sul capitale delle banche di questi Paesi pari a molti miliardi di euro. E che dire dei derivati, strumenti finanziari ad alto rischio, per la quale la stessa Deutsche Bank è esposta per un valore nominale di 48.000 miliardi di euro (circa venti volte il nostro debito pubblico e quasi trenta volte il nostro prodotto interno lordo)? Non ci stupiremmo, dunque, se al momento dello scambio degli anelli tra Commerzbank e Deutsche, ancora una volta il regolatore scegliesse la via del silenzio.
Nonostante il ministro Scholz abbia più volte ripetuto che la Germania ha bisogno di banche forti in grado di sostenere l'economia basata sull'export, difficile non scorgere nell'operazione in corso l'ultima spiaggia per due gruppi in estrema difficoltà ormai da diverso tempo. Quello che promette di nascere dalla fusione di questi due colossi rischia, infatti, di assomigliare a un kraken, uno di quei giganteschi mostri mitologici che popolano le storie di fantasia ambientate nell'oceano. Con un fatturato di 35 miliardi di euro e una forza lavoro di quasi 150.000 dipendenti, il nuovo soggetto sconterebbe sin da subito l'incapacità strutturale di Deutsche di produrre utili. Solo nel 2017, l'istituto di Francoforte ha chiuso con 500 milioni di perdite e il titolo è passato dai 16 euro di inizio anno ai 7 euro toccati in questi giorni. Secondo le ultime rilevazioni, Deutsche è la banca più rischiosa in Europa, con una probabilità di default a cinque anni pari al 17%, tre volte quella di Societe Generale e Bnp, e maggiore anche rispetto a Unicredit. Il timore che l'istituto diventi la «nuova Lehman» spinge il governo federale a mettere in campo ogni soluzione possibile per salvare la baracca, che in caso di fallimento rischia di provocare una crisi finanziaria paragonabile a quella causata un decennio fa dallo scoppio della bolla immobiliare statunitense.
Non si può parlare di economia, tuttavia, senza menzionare la politica. Il mutamento degli equilibri europei al quale stiamo assistendo nelle ultime settimane finirà inevitabilmente per incidere anche sulla gestione delle future crisi bancarie. L'apparente naufragio dell'asse Parigi-Berlino, con Emmanuel Macron relegato in un cantuccio, rappresenta una possibilità per l'Italia di far sentire la propria voce anche in vicende di questo tipo. Non a caso lunedì Matteo Salvini ha parlato di un «nuovo asse Roma-Berlino». Un ritorno alle sane relazioni bilaterali, ma anche una mano tesa che potrebbe giovare ad entrambi i paesi.
Antonio Grizzuti
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Riduci
Come minimo, dopo la «retromarche», arriverà al 3,5% del Pil Ma la Commissione glissa: «Valuteremo i conti in primavera»Il governo tedesco starebbe pensando di nazionalizzare il gigante fragile per fonderlo con Commerzbank. Nascerebbe un «mostro» zeppo di derivati e Npl. Ma la Vigilanza europea, così attenta ai nostri istituti, tace. Lo speciale comprende due articoli. Finale degli europei Italia-Francia: l'arbitro belga concede un rigore inesistente ai francesi, fa finta di niente sui falli da espulsione dei transalpini e alla fine della partita caccia via il nostro allenatore per proteste. È esattamente quello che sta succedendo a Bruxelles: il terreno di gioco sono i conti pubblici, l'arbitro è la Commissione europea. Parlare di due pesi e due misure è un eufemismo: ora che il presidente francese Emmanuel Macron, per salvare la pelle (politicamente parlando) ha annunciato una serie di concessioni all'insegna del più puro populismo, con il risultato di far schizzare ben oltre il 3% il rapporto deficit/pil (Les Echos, il giornale economico parigino, stima una percentuale del 3,5% per il 2019) ci si aspetterebbe dai vari Jean Claude Juncker, Pierre Moscovici e Valdis Dombvrovskis un durissimo altolà con conseguente minaccia di aprire una procedura di infrazione. E invece, niente di niente: ieri, su quanto promesso da Macron e le conseguenti ricadute sulla finanza pubblica francese, dalla Commissione europea sono arrivati commenti laconici e imbarazzati, all'insegna del «poi ne parliamo». Un atteggiamento che, paragonato ai fulmini e scagliati verso Roma per una ipotesi di rapporto deficit/pil al 2,4%, rafforza il sospetto che il pugno di ferro utilizzato nei confronti del governo italiano sia solo e soltanto una «lezione» al nostro popolo, che ha votato per le forze politiche che si oppongono a questo regime del terrore finanziario che è diventata l'Unione europea. Macron, per tentare di placare la piazza in rivolta, ha annunciato imminenti misure economiche, tra le quali un aumento di 100 euro del salario minimo senza oneri aggiuntivi per i datori di lavoro; la defiscalizzazione degli straordinari e dei bonus di fine anno da parte delle imprese; l'abrogazione dell'aumento dei contributi per i pensionati che guadagnano meno di 2.000 euro al mese. Misure che, come dicevamo, secondo Les Echos comporteranno mancati introiti per le finanze pubbliche di Parigi per circa 15 miliardi di euro e una impennata del rapporto deficit/pil al 3,5% (ma in realtà la stima è prudenziale: secondo diversi analisti e osservatori, il costo delle misure annunciate da Macron potrebbe portare il rapporto deficit/pil francese a sfiorare il 4%, anche perché la stessa banca di Francia ha ridotto le stime sulla crescita). Il debito pubblico francese è di gran lunga inferiore a quello italiano? Vero: peccato che tra le misure annunciate da Macron ce ne siano alcune, come ad esempio quelle sulle pensioni, che faranno aumentare proprio il debito. Ieri, i giornalisti di tutta Europa hanno chiesto ai burosauri di Bruxelles quali provvedimenti verranno presi nei confronti del governo parigino, anche in relazione al braccio di ferro in corso con l'Italia, e la risposta del portavoce capo della Commissione europea, Margaritis Schinas, è stata disarmante: «Abbiamo un procedimento ben strutturato», ha detto Schinas, «per monitorare e valutare la situazione economica e la politica di bilancio degli Stati membri. La nostra posizione sulla Francia è ben nota e l'opinione sul documento programmatico di bilancio francese è stata pubblicata di recente. L'impatto di bilancio della manovra che emergerà dall'iter parlamentare», ha aggiunto Schinas, «sarà valutato nella prossima primavera, quando pubblicheremo le nostre previsioni economiche». Avete letto bene: se ne parla in primavera, e del resto è comprensibile, visto che una legnata sul capo di Macron, sotto forma di procedura di infrazione, prima delle elezioni europee, sarebbe il colpo di grazia per il paladino dell'europeismo antipopulista, ridotto ormai alla caricatura di sé stesso, e messo talmente male da aver chiesto consigli su come affrontare la sommossa dei gilet gialli al suo predecessore Nicolas Sarkozy, invitato all'Eliseo venerdì scorso nell'ambito delle «consultazioni molto ampie» che hanno preceduto il suo discorso alla nazione. Imbarazzo e silenzio: il solitamente assai ciarliero commissario europeo agli Affari Economici e Finanziari, il francese Pierre Moscovici, ai giornalisti che gli chiedevano di commentare gli annunci di Macron alla luce della procedura di infrazione minacciata nei confronti dell'Italia ha risposto: «Non risponderò a nulla su questo argomento». Sarà un caso, ma Moscovici poche settimane fa era stato a cena con Macron, che lo aveva «arruolato» nel fronte europeista che si prepara a perdere le prossime elezioni europee. Un filino più loquace il vicepresidente della Commissione, Valdis Dombvrovskis, che ogni giorno spara a palle incatenate contro l'Italia, ma che sulle misure a tutta spesa annunciate dall'Eliseo si limita a dire «seguiremo con attenzione l'impatto degli annunci fatti dal presidente Macron sul deficit e le modalità di finanziamento». Le solite «fonti comunitarie», ovviamente anonime, hanno spiegato che «per l'Italia abbiamo un documento programmatico di bilancio; che cosa abbiamo dalla Francia? Solo un discorso del presidente Macron. Non possiamo prendere posizione in base a un discorso». Sembra passato un secolo, da quando i soloni di Bruxelles bacchettavano i ministri italiani per le loro dichiarazioni pubbliche. Carlo Tarallo<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/deutsche-bank-salvata-dallo-stato-se-lo-fa-berlino-lue-non-apre-bocca-parigi-se-ne-frega-dei-limiti-sul-deficit-tanto-a-bruxelles-bastonano-solo-noi-2623115894.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="deutsche-bank-salvata-dallo-stato-se-lo-fa-berlino-l-ue-non-apre-bocca" data-post-id="2623115894" data-published-at="1765483810" data-use-pagination="False"> Deutsche Bank salvata dallo Stato? Se lo fa Berlino l'Ue non apre bocca Le voci si sono rincorse per mesi, ma adesso sembra quasi fatta. Pare infatti che le due banche più importanti della Germania, Deutsche Bank e Commerzbank, stiano per unirsi in matrimonio. Secondo le indiscrezioni, dietro alla fusione ci sarebbe la «manina» dello stesso ministro delle Finanze tedesco, Olaf Scholz. La presenza del rappresentante dell'esecutivo guidato da Angela Merkel nella trattativa non deve stupire, dal momento che tra le soluzioni messe sul tavolo in queste ultime settimane ci sarebbe quella che prevede l'ingresso del governo federale in qualità di maggiore azionista di Deutsche Bank per un periodo propedeutico alla fusione che dovrebbe durare circa cinque anni. L'operazione, a quel punto, si configurerebbe come una vera e propria nazionalizzazione per l'istituto guidato da Christian Sewing. Certo, si tratterebbe di uno scenario molto distante dalla linea di pensiero che ha animato la politica europea in ambito bancario degli ultimi anni. Pensiamo al bail in, la normativa di risoluzione degli istituti in difficoltà approvata nel 2014, introdotta proprio al fine di evitare i salvataggi di stato. Ma nel recente periodo abbiamo assistito al continuo moltiplicarsi di regole in ambito creditizio. Tutte novità che hanno reso difficile, se non quasi impossibile, la vita degli istituti di credito, in particolare quelli italiani. Una su tutte, l'ossessione morbosa della Vigilanza e del suo capo, Daniele Nouy, per i crediti deteriorati. Buon senso avrebbe voluto che proprio per quegli impieghi così difficili da riscuotere, il regolatore concedesse un arco temporale più ampio. E invece no. Messe con le spalle al muro, le nostre banche si sono trovate a doversi liberare in fretta e furia dei crediti non performanti (164 miliardi di euro nell'ultimo biennio), spesso svendendoli per pochi spiccioli e in larga parte a favore di investitori esteri. A poco e nulla sono valse le proteste di Banca d'Italia, che in più di un occasione ha sottolineato la mancata correlazione tra una maggiore quantità di Npl e mancata erogazione del credito. Il pranzo, ormai, era già servito. Ci sono aspetti, tuttavia, sui quali la scure dell'autorità di Vigilanza si è abbattuta con una forza molto minore. Basti pensare, ad esempio, alla montagna di quasi 7.000 miliardi di euro di titoli «tossici» in pancia agli istituti francesi e tedeschi. Una bomba pronta a esplodere, dal momento che una svalutazione pari ad appena il 5% di questi titoli produrrebbe impatti in termini di ricapitalizzazione sul capitale delle banche di questi Paesi pari a molti miliardi di euro. E che dire dei derivati, strumenti finanziari ad alto rischio, per la quale la stessa Deutsche Bank è esposta per un valore nominale di 48.000 miliardi di euro (circa venti volte il nostro debito pubblico e quasi trenta volte il nostro prodotto interno lordo)? Non ci stupiremmo, dunque, se al momento dello scambio degli anelli tra Commerzbank e Deutsche, ancora una volta il regolatore scegliesse la via del silenzio. Nonostante il ministro Scholz abbia più volte ripetuto che la Germania ha bisogno di banche forti in grado di sostenere l'economia basata sull'export, difficile non scorgere nell'operazione in corso l'ultima spiaggia per due gruppi in estrema difficoltà ormai da diverso tempo. Quello che promette di nascere dalla fusione di questi due colossi rischia, infatti, di assomigliare a un kraken, uno di quei giganteschi mostri mitologici che popolano le storie di fantasia ambientate nell'oceano. Con un fatturato di 35 miliardi di euro e una forza lavoro di quasi 150.000 dipendenti, il nuovo soggetto sconterebbe sin da subito l'incapacità strutturale di Deutsche di produrre utili. Solo nel 2017, l'istituto di Francoforte ha chiuso con 500 milioni di perdite e il titolo è passato dai 16 euro di inizio anno ai 7 euro toccati in questi giorni. Secondo le ultime rilevazioni, Deutsche è la banca più rischiosa in Europa, con una probabilità di default a cinque anni pari al 17%, tre volte quella di Societe Generale e Bnp, e maggiore anche rispetto a Unicredit. Il timore che l'istituto diventi la «nuova Lehman» spinge il governo federale a mettere in campo ogni soluzione possibile per salvare la baracca, che in caso di fallimento rischia di provocare una crisi finanziaria paragonabile a quella causata un decennio fa dallo scoppio della bolla immobiliare statunitense. Non si può parlare di economia, tuttavia, senza menzionare la politica. Il mutamento degli equilibri europei al quale stiamo assistendo nelle ultime settimane finirà inevitabilmente per incidere anche sulla gestione delle future crisi bancarie. L'apparente naufragio dell'asse Parigi-Berlino, con Emmanuel Macron relegato in un cantuccio, rappresenta una possibilità per l'Italia di far sentire la propria voce anche in vicende di questo tipo. Non a caso lunedì Matteo Salvini ha parlato di un «nuovo asse Roma-Berlino». Un ritorno alle sane relazioni bilaterali, ma anche una mano tesa che potrebbe giovare ad entrambi i paesi. Antonio Grizzuti
Getty Images
Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Riduci
Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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