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2018-12-12
Parigi se ne frega dei limiti sul deficit. Tanto a Bruxelles bastonano solo noi
ANSA
Finale degli europei Italia-Francia: l'arbitro belga concede un rigore inesistente ai francesi, fa finta di niente sui falli da espulsione dei transalpini e alla fine della partita caccia via il nostro allenatore per proteste. È esattamente quello che sta succedendo a Bruxelles: il terreno di gioco sono i conti pubblici, l'arbitro è la Commissione europea. Parlare di due pesi e due misure è un eufemismo: ora che il presidente francese
Emmanuel Macron, per salvare la pelle (politicamente parlando) ha annunciato una serie di concessioni all'insegna del più puro populismo, con il risultato di far schizzare ben oltre il 3% il rapporto deficit/pil (Les Echos, il giornale economico parigino, stima una percentuale del 3,5% per il 2019) ci si aspetterebbe dai vari Jean Claude Juncker, Pierre Moscovici e Valdis Dombvrovskis un durissimo altolà con conseguente minaccia di aprire una procedura di infrazione. E invece, niente di niente: ieri, su quanto promesso da Macron e le conseguenti ricadute sulla finanza pubblica francese, dalla Commissione europea sono arrivati commenti laconici e imbarazzati, all'insegna del «poi ne parliamo». Un atteggiamento che, paragonato ai fulmini e scagliati verso Roma per una ipotesi di rapporto deficit/pil al 2,4%, rafforza il sospetto che il pugno di ferro utilizzato nei confronti del governo italiano sia solo e soltanto una «lezione» al nostro popolo, che ha votato per le forze politiche che si oppongono a questo regime del terrore finanziario che è diventata l'Unione europea.
Macron, per tentare di placare la piazza in rivolta, ha annunciato imminenti misure economiche, tra le quali un aumento di 100 euro del salario minimo senza oneri aggiuntivi per i datori di lavoro; la defiscalizzazione degli straordinari e dei bonus di fine anno da parte delle imprese; l'abrogazione dell'aumento dei contributi per i pensionati che guadagnano meno di 2.000 euro al mese.
Misure che, come dicevamo, secondo
Les Echos comporteranno mancati introiti per le finanze pubbliche di Parigi per circa 15 miliardi di euro e una impennata del rapporto deficit/pil al 3,5% (ma in realtà la stima è prudenziale: secondo diversi analisti e osservatori, il costo delle misure annunciate da Macron potrebbe portare il rapporto deficit/pil francese a sfiorare il 4%, anche perché la stessa banca di Francia ha ridotto le stime sulla crescita). Il debito pubblico francese è di gran lunga inferiore a quello italiano? Vero: peccato che tra le misure annunciate da Macron ce ne siano alcune, come ad esempio quelle sulle pensioni, che faranno aumentare proprio il debito. Ieri, i giornalisti di tutta Europa hanno chiesto ai burosauri di Bruxelles quali provvedimenti verranno presi nei confronti del governo parigino, anche in relazione al braccio di ferro in corso con l'Italia, e la risposta del portavoce capo della Commissione europea, Margaritis Schinas, è stata disarmante: «Abbiamo un procedimento ben strutturato», ha detto Schinas, «per monitorare e valutare la situazione economica e la politica di bilancio degli Stati membri. La nostra posizione sulla Francia è ben nota e l'opinione sul documento programmatico di bilancio francese è stata pubblicata di recente. L'impatto di bilancio della manovra che emergerà dall'iter parlamentare», ha aggiunto Schinas, «sarà valutato nella prossima primavera, quando pubblicheremo le nostre previsioni economiche».
Avete letto bene: se ne parla in primavera, e del resto è comprensibile, visto che una legnata sul capo di
Macron, sotto forma di procedura di infrazione, prima delle elezioni europee, sarebbe il colpo di grazia per il paladino dell'europeismo antipopulista, ridotto ormai alla caricatura di sé stesso, e messo talmente male da aver chiesto consigli su come affrontare la sommossa dei gilet gialli al suo predecessore Nicolas Sarkozy, invitato all'Eliseo venerdì scorso nell'ambito delle «consultazioni molto ampie» che hanno preceduto il suo discorso alla nazione.
Imbarazzo e silenzio: il solitamente assai ciarliero commissario europeo agli Affari Economici e Finanziari, il francese
Pierre Moscovici, ai giornalisti che gli chiedevano di commentare gli annunci di Macron alla luce della procedura di infrazione minacciata nei confronti dell'Italia ha risposto: «Non risponderò a nulla su questo argomento». Sarà un caso, ma Moscovici poche settimane fa era stato a cena con Macron, che lo aveva «arruolato» nel fronte europeista che si prepara a perdere le prossime elezioni europee. Un filino più loquace il vicepresidente della Commissione, Valdis Dombvrovskis, che ogni giorno spara a palle incatenate contro l'Italia, ma che sulle misure a tutta spesa annunciate dall'Eliseo si limita a dire «seguiremo con attenzione l'impatto degli annunci fatti dal presidente Macron sul deficit e le modalità di finanziamento».
Le solite «fonti comunitarie», ovviamente anonime, hanno spiegato che «per l'Italia abbiamo un documento programmatico di bilancio; che cosa abbiamo dalla Francia? Solo un discorso del presidente
Macron. Non possiamo prendere posizione in base a un discorso». Sembra passato un secolo, da quando i soloni di Bruxelles bacchettavano i ministri italiani per le loro dichiarazioni pubbliche.
Carlo Tarallo
Deutsche Bank salvata dallo Stato? Se lo fa Berlino l'Ue non apre bocca
Le voci si sono rincorse per mesi, ma adesso sembra quasi fatta. Pare infatti che le due banche più importanti della Germania, Deutsche Bank e Commerzbank, stiano per unirsi in matrimonio.
Secondo le indiscrezioni, dietro alla fusione ci sarebbe la «manina» dello stesso ministro delle Finanze tedesco, Olaf Scholz. La presenza del rappresentante dell'esecutivo guidato da Angela Merkel nella trattativa non deve stupire, dal momento che tra le soluzioni messe sul tavolo in queste ultime settimane ci sarebbe quella che prevede l'ingresso del governo federale in qualità di maggiore azionista di Deutsche Bank per un periodo propedeutico alla fusione che dovrebbe durare circa cinque anni. L'operazione, a quel punto, si configurerebbe come una vera e propria nazionalizzazione per l'istituto guidato da Christian Sewing.
Certo, si tratterebbe di uno scenario molto distante dalla linea di pensiero che ha animato la politica europea in ambito bancario degli ultimi anni. Pensiamo al bail in, la normativa di risoluzione degli istituti in difficoltà approvata nel 2014, introdotta proprio al fine di evitare i salvataggi di stato. Ma nel recente periodo abbiamo assistito al continuo moltiplicarsi di regole in ambito creditizio. Tutte novità che hanno reso difficile, se non quasi impossibile, la vita degli istituti di credito, in particolare quelli italiani. Una su tutte, l'ossessione morbosa della Vigilanza e del suo capo, Daniele Nouy, per i crediti deteriorati. Buon senso avrebbe voluto che proprio per quegli impieghi così difficili da riscuotere, il regolatore concedesse un arco temporale più ampio. E invece no. Messe con le spalle al muro, le nostre banche si sono trovate a doversi liberare in fretta e furia dei crediti non performanti (164 miliardi di euro nell'ultimo biennio), spesso svendendoli per pochi spiccioli e in larga parte a favore di investitori esteri. A poco e nulla sono valse le proteste di Banca d'Italia, che in più di un occasione ha sottolineato la mancata correlazione tra una maggiore quantità di Npl e mancata erogazione del credito. Il pranzo, ormai, era già servito.
Ci sono aspetti, tuttavia, sui quali la scure dell'autorità di Vigilanza si è abbattuta con una forza molto minore. Basti pensare, ad esempio, alla montagna di quasi 7.000 miliardi di euro di titoli «tossici» in pancia agli istituti francesi e tedeschi.
Una bomba pronta a esplodere, dal momento che una svalutazione pari ad appena il 5% di questi titoli produrrebbe impatti in termini di ricapitalizzazione sul capitale delle banche di questi Paesi pari a molti miliardi di euro. E che dire dei derivati, strumenti finanziari ad alto rischio, per la quale la stessa Deutsche Bank è esposta per un valore nominale di 48.000 miliardi di euro (circa venti volte il nostro debito pubblico e quasi trenta volte il nostro prodotto interno lordo)? Non ci stupiremmo, dunque, se al momento dello scambio degli anelli tra Commerzbank e Deutsche, ancora una volta il regolatore scegliesse la via del silenzio.
Nonostante il ministro Scholz abbia più volte ripetuto che la Germania ha bisogno di banche forti in grado di sostenere l'economia basata sull'export, difficile non scorgere nell'operazione in corso l'ultima spiaggia per due gruppi in estrema difficoltà ormai da diverso tempo. Quello che promette di nascere dalla fusione di questi due colossi rischia, infatti, di assomigliare a un kraken, uno di quei giganteschi mostri mitologici che popolano le storie di fantasia ambientate nell'oceano. Con un fatturato di 35 miliardi di euro e una forza lavoro di quasi 150.000 dipendenti, il nuovo soggetto sconterebbe sin da subito l'incapacità strutturale di Deutsche di produrre utili. Solo nel 2017, l'istituto di Francoforte ha chiuso con 500 milioni di perdite e il titolo è passato dai 16 euro di inizio anno ai 7 euro toccati in questi giorni. Secondo le ultime rilevazioni, Deutsche è la banca più rischiosa in Europa, con una probabilità di default a cinque anni pari al 17%, tre volte quella di Societe Generale e Bnp, e maggiore anche rispetto a Unicredit. Il timore che l'istituto diventi la «nuova Lehman» spinge il governo federale a mettere in campo ogni soluzione possibile per salvare la baracca, che in caso di fallimento rischia di provocare una crisi finanziaria paragonabile a quella causata un decennio fa dallo scoppio della bolla immobiliare statunitense.
Non si può parlare di economia, tuttavia, senza menzionare la politica. Il mutamento degli equilibri europei al quale stiamo assistendo nelle ultime settimane finirà inevitabilmente per incidere anche sulla gestione delle future crisi bancarie. L'apparente naufragio dell'asse Parigi-Berlino, con Emmanuel Macron relegato in un cantuccio, rappresenta una possibilità per l'Italia di far sentire la propria voce anche in vicende di questo tipo. Non a caso lunedì Matteo Salvini ha parlato di un «nuovo asse Roma-Berlino». Un ritorno alle sane relazioni bilaterali, ma anche una mano tesa che potrebbe giovare ad entrambi i paesi.
Antonio Grizzuti
Continua a leggereRiduci
Come minimo, dopo la «retromarche», arriverà al 3,5% del Pil Ma la Commissione glissa: «Valuteremo i conti in primavera»Il governo tedesco starebbe pensando di nazionalizzare il gigante fragile per fonderlo con Commerzbank. Nascerebbe un «mostro» zeppo di derivati e Npl. Ma la Vigilanza europea, così attenta ai nostri istituti, tace. Lo speciale comprende due articoli. Finale degli europei Italia-Francia: l'arbitro belga concede un rigore inesistente ai francesi, fa finta di niente sui falli da espulsione dei transalpini e alla fine della partita caccia via il nostro allenatore per proteste. È esattamente quello che sta succedendo a Bruxelles: il terreno di gioco sono i conti pubblici, l'arbitro è la Commissione europea. Parlare di due pesi e due misure è un eufemismo: ora che il presidente francese Emmanuel Macron, per salvare la pelle (politicamente parlando) ha annunciato una serie di concessioni all'insegna del più puro populismo, con il risultato di far schizzare ben oltre il 3% il rapporto deficit/pil (Les Echos, il giornale economico parigino, stima una percentuale del 3,5% per il 2019) ci si aspetterebbe dai vari Jean Claude Juncker, Pierre Moscovici e Valdis Dombvrovskis un durissimo altolà con conseguente minaccia di aprire una procedura di infrazione. E invece, niente di niente: ieri, su quanto promesso da Macron e le conseguenti ricadute sulla finanza pubblica francese, dalla Commissione europea sono arrivati commenti laconici e imbarazzati, all'insegna del «poi ne parliamo». Un atteggiamento che, paragonato ai fulmini e scagliati verso Roma per una ipotesi di rapporto deficit/pil al 2,4%, rafforza il sospetto che il pugno di ferro utilizzato nei confronti del governo italiano sia solo e soltanto una «lezione» al nostro popolo, che ha votato per le forze politiche che si oppongono a questo regime del terrore finanziario che è diventata l'Unione europea. Macron, per tentare di placare la piazza in rivolta, ha annunciato imminenti misure economiche, tra le quali un aumento di 100 euro del salario minimo senza oneri aggiuntivi per i datori di lavoro; la defiscalizzazione degli straordinari e dei bonus di fine anno da parte delle imprese; l'abrogazione dell'aumento dei contributi per i pensionati che guadagnano meno di 2.000 euro al mese. Misure che, come dicevamo, secondo Les Echos comporteranno mancati introiti per le finanze pubbliche di Parigi per circa 15 miliardi di euro e una impennata del rapporto deficit/pil al 3,5% (ma in realtà la stima è prudenziale: secondo diversi analisti e osservatori, il costo delle misure annunciate da Macron potrebbe portare il rapporto deficit/pil francese a sfiorare il 4%, anche perché la stessa banca di Francia ha ridotto le stime sulla crescita). Il debito pubblico francese è di gran lunga inferiore a quello italiano? Vero: peccato che tra le misure annunciate da Macron ce ne siano alcune, come ad esempio quelle sulle pensioni, che faranno aumentare proprio il debito. Ieri, i giornalisti di tutta Europa hanno chiesto ai burosauri di Bruxelles quali provvedimenti verranno presi nei confronti del governo parigino, anche in relazione al braccio di ferro in corso con l'Italia, e la risposta del portavoce capo della Commissione europea, Margaritis Schinas, è stata disarmante: «Abbiamo un procedimento ben strutturato», ha detto Schinas, «per monitorare e valutare la situazione economica e la politica di bilancio degli Stati membri. La nostra posizione sulla Francia è ben nota e l'opinione sul documento programmatico di bilancio francese è stata pubblicata di recente. L'impatto di bilancio della manovra che emergerà dall'iter parlamentare», ha aggiunto Schinas, «sarà valutato nella prossima primavera, quando pubblicheremo le nostre previsioni economiche». Avete letto bene: se ne parla in primavera, e del resto è comprensibile, visto che una legnata sul capo di Macron, sotto forma di procedura di infrazione, prima delle elezioni europee, sarebbe il colpo di grazia per il paladino dell'europeismo antipopulista, ridotto ormai alla caricatura di sé stesso, e messo talmente male da aver chiesto consigli su come affrontare la sommossa dei gilet gialli al suo predecessore Nicolas Sarkozy, invitato all'Eliseo venerdì scorso nell'ambito delle «consultazioni molto ampie» che hanno preceduto il suo discorso alla nazione. Imbarazzo e silenzio: il solitamente assai ciarliero commissario europeo agli Affari Economici e Finanziari, il francese Pierre Moscovici, ai giornalisti che gli chiedevano di commentare gli annunci di Macron alla luce della procedura di infrazione minacciata nei confronti dell'Italia ha risposto: «Non risponderò a nulla su questo argomento». Sarà un caso, ma Moscovici poche settimane fa era stato a cena con Macron, che lo aveva «arruolato» nel fronte europeista che si prepara a perdere le prossime elezioni europee. Un filino più loquace il vicepresidente della Commissione, Valdis Dombvrovskis, che ogni giorno spara a palle incatenate contro l'Italia, ma che sulle misure a tutta spesa annunciate dall'Eliseo si limita a dire «seguiremo con attenzione l'impatto degli annunci fatti dal presidente Macron sul deficit e le modalità di finanziamento». Le solite «fonti comunitarie», ovviamente anonime, hanno spiegato che «per l'Italia abbiamo un documento programmatico di bilancio; che cosa abbiamo dalla Francia? Solo un discorso del presidente Macron. Non possiamo prendere posizione in base a un discorso». Sembra passato un secolo, da quando i soloni di Bruxelles bacchettavano i ministri italiani per le loro dichiarazioni pubbliche. Carlo Tarallo<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/deutsche-bank-salvata-dallo-stato-se-lo-fa-berlino-lue-non-apre-bocca-parigi-se-ne-frega-dei-limiti-sul-deficit-tanto-a-bruxelles-bastonano-solo-noi-2623115894.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="deutsche-bank-salvata-dallo-stato-se-lo-fa-berlino-l-ue-non-apre-bocca" data-post-id="2623115894" data-published-at="1766619235" data-use-pagination="False"> Deutsche Bank salvata dallo Stato? Se lo fa Berlino l'Ue non apre bocca Le voci si sono rincorse per mesi, ma adesso sembra quasi fatta. Pare infatti che le due banche più importanti della Germania, Deutsche Bank e Commerzbank, stiano per unirsi in matrimonio. Secondo le indiscrezioni, dietro alla fusione ci sarebbe la «manina» dello stesso ministro delle Finanze tedesco, Olaf Scholz. La presenza del rappresentante dell'esecutivo guidato da Angela Merkel nella trattativa non deve stupire, dal momento che tra le soluzioni messe sul tavolo in queste ultime settimane ci sarebbe quella che prevede l'ingresso del governo federale in qualità di maggiore azionista di Deutsche Bank per un periodo propedeutico alla fusione che dovrebbe durare circa cinque anni. L'operazione, a quel punto, si configurerebbe come una vera e propria nazionalizzazione per l'istituto guidato da Christian Sewing. Certo, si tratterebbe di uno scenario molto distante dalla linea di pensiero che ha animato la politica europea in ambito bancario degli ultimi anni. Pensiamo al bail in, la normativa di risoluzione degli istituti in difficoltà approvata nel 2014, introdotta proprio al fine di evitare i salvataggi di stato. Ma nel recente periodo abbiamo assistito al continuo moltiplicarsi di regole in ambito creditizio. Tutte novità che hanno reso difficile, se non quasi impossibile, la vita degli istituti di credito, in particolare quelli italiani. Una su tutte, l'ossessione morbosa della Vigilanza e del suo capo, Daniele Nouy, per i crediti deteriorati. Buon senso avrebbe voluto che proprio per quegli impieghi così difficili da riscuotere, il regolatore concedesse un arco temporale più ampio. E invece no. Messe con le spalle al muro, le nostre banche si sono trovate a doversi liberare in fretta e furia dei crediti non performanti (164 miliardi di euro nell'ultimo biennio), spesso svendendoli per pochi spiccioli e in larga parte a favore di investitori esteri. A poco e nulla sono valse le proteste di Banca d'Italia, che in più di un occasione ha sottolineato la mancata correlazione tra una maggiore quantità di Npl e mancata erogazione del credito. Il pranzo, ormai, era già servito. Ci sono aspetti, tuttavia, sui quali la scure dell'autorità di Vigilanza si è abbattuta con una forza molto minore. Basti pensare, ad esempio, alla montagna di quasi 7.000 miliardi di euro di titoli «tossici» in pancia agli istituti francesi e tedeschi. Una bomba pronta a esplodere, dal momento che una svalutazione pari ad appena il 5% di questi titoli produrrebbe impatti in termini di ricapitalizzazione sul capitale delle banche di questi Paesi pari a molti miliardi di euro. E che dire dei derivati, strumenti finanziari ad alto rischio, per la quale la stessa Deutsche Bank è esposta per un valore nominale di 48.000 miliardi di euro (circa venti volte il nostro debito pubblico e quasi trenta volte il nostro prodotto interno lordo)? Non ci stupiremmo, dunque, se al momento dello scambio degli anelli tra Commerzbank e Deutsche, ancora una volta il regolatore scegliesse la via del silenzio. Nonostante il ministro Scholz abbia più volte ripetuto che la Germania ha bisogno di banche forti in grado di sostenere l'economia basata sull'export, difficile non scorgere nell'operazione in corso l'ultima spiaggia per due gruppi in estrema difficoltà ormai da diverso tempo. Quello che promette di nascere dalla fusione di questi due colossi rischia, infatti, di assomigliare a un kraken, uno di quei giganteschi mostri mitologici che popolano le storie di fantasia ambientate nell'oceano. Con un fatturato di 35 miliardi di euro e una forza lavoro di quasi 150.000 dipendenti, il nuovo soggetto sconterebbe sin da subito l'incapacità strutturale di Deutsche di produrre utili. Solo nel 2017, l'istituto di Francoforte ha chiuso con 500 milioni di perdite e il titolo è passato dai 16 euro di inizio anno ai 7 euro toccati in questi giorni. Secondo le ultime rilevazioni, Deutsche è la banca più rischiosa in Europa, con una probabilità di default a cinque anni pari al 17%, tre volte quella di Societe Generale e Bnp, e maggiore anche rispetto a Unicredit. Il timore che l'istituto diventi la «nuova Lehman» spinge il governo federale a mettere in campo ogni soluzione possibile per salvare la baracca, che in caso di fallimento rischia di provocare una crisi finanziaria paragonabile a quella causata un decennio fa dallo scoppio della bolla immobiliare statunitense. Non si può parlare di economia, tuttavia, senza menzionare la politica. Il mutamento degli equilibri europei al quale stiamo assistendo nelle ultime settimane finirà inevitabilmente per incidere anche sulla gestione delle future crisi bancarie. L'apparente naufragio dell'asse Parigi-Berlino, con Emmanuel Macron relegato in un cantuccio, rappresenta una possibilità per l'Italia di far sentire la propria voce anche in vicende di questo tipo. Non a caso lunedì Matteo Salvini ha parlato di un «nuovo asse Roma-Berlino». Un ritorno alle sane relazioni bilaterali, ma anche una mano tesa che potrebbe giovare ad entrambi i paesi. Antonio Grizzuti
Sergio Mattarella (Ansa)
Si torna quindi all’originale, fedeli al manoscritto autografo del paroliere, che morì durante l’assedio di Roma per una ferita alla gamba. Lo certifica il documento oggi conservato al Museo del Risorgimento di Torino.
La svolta riguarderà soprattutto le cerimonie militari ufficiali. Lo Stato Maggiore della Difesa, in un documento datato 2 dicembre, ha infatti inviato l’ordine a tutte le forze armate: durante gli eventi istituzionali e le manifestazioni militari nelle quali verrà eseguito l’inno nella versione cantata - che parte con un «Allegro marziale» -, il grido in questione dovrà essere omesso. E viene raccomandata «la scrupolosa osservanza» a tutti i livelli, fino al più piccolo presidio territoriale, dalla Guardia di Finanza all’Esercito. Ovviamente nessuno farà una piega se allo stadio i tifosi o i calciatori della nazionale azzurra (discorso che vale per tutti gli sport) faranno uno strappo alla regola, anche se la strada ormai è tracciata.
Per confermare la bontà della decisione del Colle basta ricordare le indicazioni che il Maestro Riccardo Muti diede ai 3.000 coristi (professionisti e amatori, dai 4 agli 87 anni) radunati a Ravenna lo scorso giugno per l’evento dal titolo agostiniano «Cantare amantis est» (Cantare è proprio di chi ama). Proprio in quell’occasione, come avevamo raccontato su queste pagine, il grande direttore d’orchestra - che da decenni cerca di spazzare via dall’opera italiana le aggiunte postume, gli abbellimenti non richiesti e gli acuti non scritti dagli autori, ripulendo le partiture dalle «bieche prassi erroneamente chiamate tradizioni» - ordinò a un coro neonato ma allo stesso tempo immenso: «Il “sì” finale non si canta, nel manoscritto non c’è».
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Scott Bessent (Ansa)
Partiamo da Washington, dove il Pil non solo non rallenta, ma accelera. Nel terzo trimestre dell’anno, da luglio a settembre, l’economia americana è cresciuta del 4,3%. Non un decimale in più o in meno: un punto pieno sopra le attese, ferme a un modesto 3,3%. Un dato arrivato in ritardo, complice lo stop federale che ha paralizzato le attività pubbliche, ma che ha avuto l’effetto di una doccia fredda per gli analisti più pessimisti. Altro che frenata da dazi: rispetto al secondo trimestre, l’incremento è stato dell’1,1%. Altro che economia sotto anestesia. Una successo che spinge Scott Bessent, segretario del Tesoro, a fare pressioni sulla Fed perché tagli i tassi e riveda al ribasso dal 2% all’1,5% il tetto all’inflazione. Il motore della crescita? I consumi, tanto per cambiare. Gli americani hanno continuato a spendere come se i dazi fossero un concetto astratto da talk show. Nel terzo trimestre i consumi sono saliti del 3,5%, dopo il più 2,5% dei mesi precedenti. A spingere il Pil hanno contribuito anche le esportazioni e la spesa pubblica, in un mix poco ideologico e molto concreto. La morale è semplice: mentre la politica discute, l’economia va avanti. E spesso prende un’altra direzione.
E l’Europa? Doveva essere la prima vittima collaterale della guerra commerciale. Anche qui, però, i numeri si ostinano a non obbedire alle narrazioni. L’Italia, per esempio, a novembre ha visto rafforzarsi il saldo commerciale con i Paesi extra Ue, arrivato a più 6,9 miliardi di euro, contro i 5,3 miliardi dello stesso mese del 2024. Quanto agli Stati Uniti, l’export italiano registra sì un calo, ma limitato: meno 3%. Una flessione che somiglia più a un raffreddore stagionale che a una polmonite da dazi. Non esattamente lo scenario da catastrofe annunciata.
Anche la Bce, che per statuto non indulge in entusiasmi, ha dovuto prendere atto della resilienza dell’economia europea. Le nuove proiezioni parlano di una crescita dell’eurozona all’1,4% nel 2025, in rialzo rispetto all’1,2% stimato a settembre, e dell’1,2% nel 2026, contro l’1,0 precedente. Non è un boom, certo, ma nemmeno il deserto postbellico evocato dai più allarmisti. Soprattutto, è un segnale: l’Europa cresce nonostante tutto, e nonostante tutti. E poi c’è la Cina, che osserva il dibattito globale con il sorriso di chi incassa. Nei primi undici mesi del 2025 Pechino ha messo a segno un surplus commerciale record di oltre 1.000 miliardi di dollari, con esportazioni superiori ai 3.400 miliardi. Altro che isolamento: la fabbrica del mondo continua a macinare numeri, mentre l’Occidente discute se i dazi siano il male assoluto o solo un peccato veniale.
Alla fine, la lezione è sempre la stessa. I dazi fanno rumore, le previsioni pure. Ma l’economia parla a bassa voce e con i numeri. E spesso, come in questo caso, si diverte a smentire chi aveva già scritto il copione del disastro. Le cassandre restano senza applausi. Le statistiche, ancora una volta, si prendono la scena.
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Paolo Barletta, Ceo Arsenale S.p.a. (Ansa)
Il contributo di Simest è pari a 15 milioni e passa dalla Sezione Infrastrutture del Fondo 394/81, plafond in convenzione con il ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, dedicato alle imprese italiane impegnate in grandi commesse estere che valorizzano la filiera nazionale. In termini di struttura, il capitale sociale congiunto copre la componente di rischio industriale, mentre la componente del fondo saudita sostiene la rampa di avvio del progetto, riducendo il fabbisogno di capitale a carico dei partner italiani e rafforzando la bancabilità dell’iniziativa nel Paese ospitante, presentata come modello pubblico-privato nel segmento ferroviario di lusso.
L’intesa è inserita nella collaborazione Italia-Arabia Saudita, richiamando l’apertura della sede Simest a Riyadh e il Memorandum of Understanding tra Cdp, Simest e Jiacc. «Dream of the Desert» è indicato come progetto apripista di un modello pubblico-privato nel trasporto ferroviario di lusso.
«Dream of the Desert è un progetto simbolo per il nostro gruppo e per l’industria ferroviaria internazionale. Valorizza le Pmi italiane e costituisce un caso apripista di partnership pubblico-privata nel settore ferroviario di lusso. L’accordo siglato con Simest e le istituzioni saudite conferma come la collaborazione tra imprese e istituzioni possa creare valore duraturo e promuovere le eccellenze italiane nel mondo», commenta Paolo Barletta, amministratore delegato di Arsenale.
Regina Corradini D’Arienzo, amministratore delegato di Simest, aggiunge: «L’intesa sottoscritta con un primario attore industriale come Arsenale per la realizzazione di un progetto strategico per il Made in Italy, conferma il rafforzamento del ruolo di Simest a sostegno del tessuto produttivo italiano e delle sue filiere. Attraverso la prima operazione realizzata nell’ambito del Plafond di equity del fondo pubblico di Investimenti infrastrutturali», continua la numero uno del gruppo, «Simest interviene direttamente come socio per accrescere la competitività delle nostre imprese impegnate in progetti infrastrutturali ad alto valore aggiunto, favorendo al contempo l’espansione del Made in Italy in mercati strategici ad elevato potenziale di crescita, come quello saudita. Lo strumento, sviluppato da Simest sotto la regia del ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e in collaborazione con Cassa depositi e prestiti, si inserisce pienamente nell’azione del Sistema Italia, che, sotto la regia della Farnesina, vede il coinvolgimento di Cdp, Simest, Ice e Sace. Un approccio integrato volto a garantire alle imprese italiane un supporto strutturato e complementare, dall’azione istituzionale a quella finanziaria, per affrontare con efficacia le principali sfide della competitività internazionale».
Sul piano industriale, Arsenale dichiara un treno interamente progettato, prodotto e allestito in Italia: gli hub Cpl (Brindisi) e Standgreen (Bergamo) operano con Cantieri ferroviari italiani (Cfi) come general contractor, coordinando una rete di Pmi (design, meccanica avanzata, ingegneria, lusso e hospitality). Per il committente estero, questa configurazione «turnkey (chiavi in mano, ndr.)» concentra in un unico soggetto il coordinamento di produzione, integrazione e allestimento; per l’ecosistema italiano, sposta volumi e valore aggiunto lungo la catena domestica, fino alla finitura degli interni ad alto contenuto di design.
Il prodotto sarà un treno di ultra lusso con itinerari da uno a due notti: partenza da Riyadh e collegamenti verso destinazioni iconiche del Regno, tra cui Alula (sito Unesco) e Hail, fino al confine con la Giordania. Gli interni sono firmati dall’architetto e interior designer Aline Asmar d’Amman, fondatore dello studio Culture in Architecture. La prima carrozza è stata consegnata a settembre 2025; l’avvio operativo è previsto per fine 2026, con prenotazioni aperte da novembre 2025.
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Matteo Hallissey (Ansa)
Il video è accompagnato da un post: «Abbiamo messo in atto», scrive l’ex perfetto sconosciuto Hallisey, «un flash mob pacifico pro Ucraina all’interno di un convegno filorusso organizzato dall’Anpi all’università Federico II di Napoli. Dopo aver atteso il termine dell’evento con Alessandro Di Battista e il professor D’Orsi e al momento delle domande, decine di studenti e attivisti pro Ucraina di +Europa, Ora!, Radicali, Liberi Oltre, Azione e della comunità ucraina hanno mostrato maglie e bandiere ucraine. È vergognoso che non ci sia stata data la possibilità di fare domande e che l’attivista che stava interloquendo con i relatori sia stato aggredito e spinto da un rappresentante dell’Anpi fino a rompere il microfono. Anch’io sono stato aggredito violentemente», aggiunge il giovane radicale, «mentre provavo a fare una domanda a D’Orsi sulla sua partecipazione alla sfilata di gala di Russia Today a Mosca due mesi fa. Chi rivendica la storia antifascista e partigiana non può non condannare queste azioni di fronte a una manifestazione pacifica».
Rivedendo più volte il video al Var, di aggressioni non ne abbiamo viste, a parte come detto qualche spinta, ma va detto pure che quando Hallissey scrive «mentre provavo a fare una domanda a D’Orsi», omette di precisare che quella domanda è stata posta al professore, ma in maniera tutt’altro che pacata: le urla del buon Matteo sono scolpite nel video da lui stesso, ripetiamo, pubblicato. Per quel che riguarda la rottura del microfono, le immagini, viste e riviste non chiariscono se il fallo c’è o no: si vede un giovane attivista che contende un microfono a D’Orsi, ma i frame non permettono di accertare se alla fine si sia rotto o sia rimasto intero.
Quello che è certo è che ieri sono piovuti nelle redazioni i soliti comunicati di solidarietà, non solo da parte di Azione, degli stessi Radicali e di Benedetto Della Vedova, ma anche del capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami, che su X ha vergato un severo post: «Solidarietà a Matteo Hallissey, presidente dei Radicali italiani», ha scritto Bignami, «aggredito a un evento Anpi per aver provato a porre domande in un flash mob pacifico. Da chi ogni giorno impartisce lezioni di democrazia ma reagisce con violenza, non accettiamo lezioni». Non si comprende, come abbiamo detto, dove sia la violenza, perché per una volta bisogna pur mettere da parte il politically correct e l’ipocrisia dilagante e dire le cose come stanno: dal video emerge in maniera cristallina la natura provocatoria del flash mob pro Ucraina, e da quelle urla e da quegli atteggiamenti, per noi che abbiamo purtroppo l’abitudine a pensar male, anche se si fa peccato, fa capolino pure che magari l’obiettivo era proprio quello di scatenare una reazione violenta da parte dei partecipanti al convegno.
Non lo sapremo mai: quello che sappiamo è che i Radicali, sigla che nella politica italiana ha avuto un ruolo di primissimo piano per tante battaglie condotte in primis dal compianto Marco Pannella, sono ormai ridotti a praticare forme di puro macchiettismo politico, pur di ottenere un po’ di visibilità: ricorderete lo show di Riccardo Magi, deputato di +Europa, che vaga nell’aula di Montecitorio vestito da fantasma. A proposito di Magi: il congresso che lo scorso febbraio ha rieletto segretario di +Europa il deputato fantasma è stato caratterizzato da innumerevoli polemiche e altrettante ombre. Poche ore prima della chiusura del tesseramento, il 31 dicembre, dalla provincia di Napoli, in particolare da Giugliano e Afragola, arrivano la bellezza di 1.900 nuovi iscritti, praticamente un terzo dell’intera platea di tesserati, iscritti che poi si traducono in delegati che eleggono i vertici del partito. Una conversione di massa alla causa radicale degli abitanti di questi due popolosi comuni del Napoletano in sostanza stravolge gli equilibri congressuali. Tra accuse e controaccuse, un giovanissimo militante, alla fine dello stesso congresso, sconfigge nella corsa alla presidenza di +Europa uno storico esponente del partito come Benedetto Della Vedova. Si tratta proprio di Matteo Hallissey.
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