2024-06-08
        La desertificazione verde va fermata. Ci impoverisce favorendo la Cina
    
 
        Frans Timmermans (Getty Images)
    
Il piano dirigista e illiberale di Frans Timmermans e Ursula von der Leyen ha creato disastri, facendo impennare i costi dell’energia. Ora la priorità è smontare gli obblighi imposti alle imprese, alle auto e alle nostre abitazioni.Con le elezioni di questo fine settimana si chiude una legislatura europea tra le più dannose che la già poco commendevole storia delle istituzioni di Bruxelles abbia mai registrato. Il programma politico della Commissione uscente è stato in gran parte orientato dal cosiddetto Green deal, voluto da Popolari, Socialisti e Verdi e portato avanti in larga parte dal commissario olandese Frans Timmermans, che nella Commissione presieduta da Ursula von der Leyen aveva le deleghe a realizzare il programma «verde» di Bruxelles. Timmermans ha poi lasciato l’incarico per dedicarsi alla politica nazionale, con scarso successo.L’impronta dirigista e illiberale del programma della Commissione è tale per cui in ampie parti il Green deal è in evidente contrasto con i principi della concorrenza e del mercato unico, che dovrebbe essere il pilastro fondamentale dell’Unione europea.Prova ne sia che per accelerare a forza la diffusione delle energie rinnovabili sono stati dichiarati ammissibili (sino al 31 dicembre 2025) gli aiuti di Stato finalizzati a investimenti in fonti rinnovabili e nello stoccaggio di energia (comunicazione della Commissione C(2023)-1711 del 9 marzo 2023). Aiuti di Stato che normalmente nell’Unione europea sono espressamente vietati. Ma buona parte delle fonti rinnovabili non è ancora in grado di stare autonomamente sul mercato, dunque i ricchi sussidi pubblici sono ancora a loro indispensabili.La pervicacia con cui Bruxelles ha perseguito la desertificazione industriale del continente attraverso le politiche verdi ha del portentoso. Impossibile citare tutti i circa 40 provvedimenti che fanno parte del Green deal, con relativi danni. Un sommario elenco, però, non può ignorare il meccanismo del Carbon border adjustement mechanism, approvato lo scorso anno, che consiste in un dazio su alcune merci importate in Europa, tra cui l’acciaio, da Paesi che non hanno un sistema di disincentivo alle emissioni paragonabile a quello europeo. Oltre a sovraccaricare le aziende di oneri burocratici (è necessario rendicontare le emissioni «incorporate» in ogni bene importato), si tratta di una tassa che farà aumentare il prezzo dell’acciaio tra il 15% e il 20%, mentre l’Europa non ha sufficiente produzione interna per il proprio fabbisogno. Al contempo, le acciaierie europee dovrebbero diventare green utilizzando idrogeno (molto costoso e senza una scala industriale apprezzabile) o forni elettrici, che possono trattare solo rottami. Il rischio de-industrializzazione dell’Europa è concreto. Peraltro, i forni ad arco per le acciaierie (così come le batterie per le auto elettriche) necessitano di grafite, il cui mercato è pienamente nella mani della Cina, che possiede il 93% della capacità di raffinazione. La Cina del resto controlla la gran parte della catena dei materiali cosiddetti critici, cioè tutti quelli necessari proprio al Green deal.Rame, alluminio, nichel, terre rare, cobalto, stagno e altre due dozzine di materiali di cui l’Europa avrebbe estremo bisogno per sviluppare le fonti rinnovabili e l’auto elettrica, sono tutti nelle mani della Cina, in più o meno larga misura.Una politica industriale imposta dall’alto, dunque, che non ha tenuto conto della realtà, senza realistiche analisi di impatto, senza analisi costi-benefici e che ha sottostimato gravemente gli assetti geopolitici e le conseguenze sui prezzi dell’energia. Per inciso, il Green deal, che impone obiettivi di potenza elettrica per solare e fotovoltaico, pone obiettivi di idrogeno verde e la fine della produzione termoelettrica, è in evidente contrasto con l’art. 194 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Il Green deal infatti prescrive (anziché promuovere) le energie rinnovabili e non garantisce né il funzionamento del mercato dell’energia né tantomeno la sicurezza dell’approvvigionamento energetico dell’Unione.La direttiva sulle case green è un altro esempio di furore ideologico senza un minimo di calcolo razionale costi-benefici. Per fortuna lo scalpore sollevato (da pochi, La Verità tra questi) sull’estremismo di Parlamento e Commissione, che chiedevano misure draconiane, è servito a smorzare le parti più vergognose della direttiva, che resta tra le cose più inutili e dannose che si potessero pensare.Un altro robusto capitolo della recente storia europea è il regolamento sugli imballaggi, con l’introduzione di un insensato concetto di riuso e lo svilimento dell’avanzato settore italiano degli imballaggi in plastica. L’Italia è ai vertici mondiali per il riciclo della plastica, con numeri migliori di tutti gli altri Paesi europei. Forse proprio questo è uno dei motivi per cui il riciclo è stato penalizzato a favore del riuso, più gradito a certi Paesi del Nord Europa. Forse il disastro maggiore è il divieto di motori a combustione interna negli autoveicoli a partire dal 2035. Agendo sul regolamento che disciplina le emissioni allo scarico degli autoveicoli, ponendo a zero il limite di emissioni, di fatto l’Ue ha imposto le auto elettriche, violando il principio di neutralità tecnologica e impedendo lo sviluppo di mercati alternativi. Ciò sta già avendo gravi conseguenze su tutto l’indotto dell’automobile, in Italia come negli altri Stati membri. Chi sorride e si avvantaggia del Green deal è soprattutto la Cina. Altro che Via della seta.
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