2023-05-17
De Benoist al Salone. «La Stampa» lo vuole, poi lo mette all’indice
Alain De Benoist,(Getty images)
Il quotidiano contro il francese al festival del libro: «È putiniano». Ma lo stesso giornale era interessato a un estratto del suo saggio.«Non sono un giornalista di sinistra: non denuncio mai nessuno», diceva già Guy Debord. Molti anni dopo, il giornalismo come prosecuzione della schedatura politica con altri mezzi vive, sempre a sinistra, una sciagurata seconda giovinezza. Ieri, per esempio, Ilario Lombardo sulla Stampa decideva di denunciare il putinismo in flagranza di reato del governo Meloni attraverso un’abbacinante catena di falsi sillogismi. Poiché Francesco Giubilei, nella sua veste di editore della Giubilei Regnani, il 21 maggio porterà al Salone del libro di Torino l’intellettuale francese Alain De Benoist, che presenterà il suo saggio, La scomparsa dell’identità, edito appunto dal giovane agitatore culturale, e poiché de Benoist è contrario alla guerra in Ucraina, il gioco è presto fatto: il francese diventa subito un «putiniano», il suo editore pure, il ministro di cui Giubilei è consigliere, ovvero Gennaro Sangiuliano, idem. Da lì a mettere il colbacco direttamente a Giorgia Meloni, è un attimo. Salta ogni distinzione di piani, di ruoli, di posizioni, ogni sfumatura sprofonda nella tenebra bruna. E, soprattutto, la grande storia del mondo - quella tragica della guerra - finisce per mescolarsi alle piccole meschinità di casa nostra. La kermesse torinese è del resto un nervo scoperto in certi ambienti, dove la sola possibilità di sottrarre parzialmente il festival all’amichettismo di sinistra ha trasformato in compagni in controfigure di Gollum alla ricerca del suo tesoro perduto. Bei tempi, quando si poteva cacciare dal Salone una casa editrice che aveva regolarmente sottoscritto un contratto, solo perché aveva ospitato una intervista al… ministro degli Interni (gli organizzatori e Altaforte sono finiti in tribunale, chissà poi com’è finita…). Ricordiamo, all’epoca, la performance d’autore di Nicola Lagioia e Christian Raimo, nei panni di poliziotto buono e poliziotto cattivo del commissariato culturale torinese. Formidabili quegli anni, vero? Ma torniamo a de Benoist. Questo il ritratto fornito sulla Stampa: «Filosofo della Nouvelle droite, la destra francese identitaria, pensatore controverso affascinato dai venti dell’Est, dallo spiritualismo di Aleksander Dugin, l’ideologo panrusso di Vladimir Putin». Ancora un falso sillogismo, tanto valeva fornire una seconda razione di cicuta al povero Socrate. Ovviamente basterebbe una fugace scorsa a Wikipedia per sapere che lo «spiritualismo» , a forte tinte evoliane e cristiano-ortodosse, di Dugin (che non è per nulla l’ideologo di Putin) non ha molto a che vedere con il pensiero profondamente impregnato di paganesimo di de Benoist, almeno sotto il profilo filosofico, ma che importa? Ciò che conta è l’associazione filosofica a delinquere. Il quotidiano torinese non esita a chiamare in causa persino l’inquilina di Palazzo Chigi: «Sarebbe da chiedere alla premier cosa ne pensi anche di de Benoist, lei che appare convintamente atlantista, mai distante, nemmeno di un soffio, dalle richieste degli Usa». Come se le vere convinzioni di Giorgia Meloni sulla guerra non fossero deducibili dalle sue ripetute dichiarazioni in consessi ufficiali, dalle decisioni prese dal governo, dal reiterato sostegno morale e materiale dato all’Ucraina, bensì dalle posizioni di un autore invitato al Salone del libro da un consigliere di un suo ministro, peraltro rozzamente riassunte. Quello che non si capisce è perché La Stampa, che oggi si sente in diritto di denunciare lo sbarco su Torino di questo mostro naziputiniano, si sia mossa giorni fa per chiedere alla Giubilei Regnani un estratto de La scomparsa dell’identità da pubblicare nelle sue pagine culturali. Singolare circostanza: se è colpevole di putinismo chi invita de Benoist, lo è anche chi ne ospita gli scritti. Schizofrenia editoriale o agguato interno? Ah, saperlo. Ora, intendiamoci: Alain de Benoist può essere criticato, come chiunque altro. Anche chi scrive non è sempre d’accordo con lui, non ultimo sulla lettura dei fatti ucraini. Quello che non si può fare è ridurre - con finalità velatamente censorie - uno dei più stimolanti intellettuali europei del dopoguerra a una sorta di influencer al soldo di Mosca. Nella bibliografia (peraltro parziale e non aggiornata) presente sul sito dell’associazione Les amis d’Alain de Benoist sono citati 63 libri pubblicati a sua firma in tutte le lingue del mondo, 98 partecipazioni a opere collettanee, 418 articoli a sua firma usciti solo dopo il 1992 (quindi sono almeno il doppio, dato che scrive dagli anni Sessanta), 49 ricerche universitarie a lui dedicate. Recentemente Michel Onfray, filosofo libertario di estrazione proudhoniana, ha detto che de Benoist è «l’uomo più colto che abbia mai incontrato». Ed è in effetti noto come egli abbia una delle biblioteche personali più grandi di Francia, con circa 200.000 volumi. Un intellettuale di sinistra come Jacques Julliard, su Marianne, ha invece detto di lui che è «uno dei grandi intellettuali più misconosciuti del nostro tempo». L’itinerario spirituale debenoistiano è del resto complesso, stratificato. Vi si ritrovano Friedrich Nietzsche, Martin Heidegger, gli autori della rivoluzione conservatrice tedesca, ma anche socialisti eretici come Pier Paolo Pasolini, George Orwell, Christopher Lasch, Jean-Claude Michéa, Costanzo Preve. Alle presidenziali francesi del 2017 dichiarò di aver votato per il candidato di estrema sinistra Jean-Luc Mélenchon. Non che ci sia da vantarsene, intendiamoci, ma il punto è che più si osserva de Benoist da vicino, meno regge l’immagine dell’agit-prop, del pensatore unidimensionale e sloganistico, del cattivo maestro che flirta con i satrapi. Egli è, al contrario, un ribelle lontano da ogni chiesa. E forse è anche per questo che lo si può attaccare impunemente, senza rischiare neanche si stuzzicare le voci critiche levatesi in difesa di Carlo Rovelli. Neanche i «putiniani», a ben vedere, sono tutti uguali.
Era il più veloce di tutti gli altri aeroplani ma anche il più brutto. Il suo segreto? Che era esso stesso un segreto. E lo rimase fino agli anni Settanta