2025-06-14
«Il cuoio toscano mantiene la tradizione artigiana ma punta sull’alta qualità»
Antonio Quirici (Getty Images)
Il presidente del Consorzio Antonio Quirici: «Ci siamo associati quarant’anni fa per unire una filiera produttiva unica al mondo, e proiettarla nel futuro con valori comuni».Il Consorzio Cuoio di Toscana celebra quest’anno un traguardo importante: 40 anni di leadership nella produzione di cuoio da suola, emblema del Made in Italy nel mondo. Per l’occasione, il consorzio ha organizzato un evento esclusivo durante Pitti Uomo: un’esperienza immersiva in cui arte, sostenibilità e stile si incontrano e occasione per il lancio di una speciale limited edition, nata dalla collaborazione con un noto designer, che unisce la tradizione artigianale del consorzio a un’estetica contemporanea e innovativa. Ne parliamo con il presidente, Antonio Quirici.Ci racconta come nasce il Consorzio e quale visione lo ha guidato fin dall’inizio? «Il Consorzio nasce nel 1985 dalla volontà di unire le principali concerie del distretto toscano del cuoio, con l’obiettivo di tutelare e promuovere una filiera produttiva unica al mondo, fondata su qualità, artigianalità e sostenibilità. La visione che ci ha guidato fin dall’inizio è stata quella di costruire un marchio collettivo capace di rappresentare il meglio della tradizione conciaria toscana, proiettandola nel futuro con valori condivisi».Quali sono stati, secondo lei, i passaggi chiave che hanno trasformato Cuoio di Toscana da realtà locale a riferimento internazionale nella produzione di cuoio? «I passaggi chiave sono stati tre: l’adozione di una strategia di comunicazione forte e coerente, l’investimento costante in ricerca e innovazione per mantenere altissimi standard qualitativi, e la scelta di puntare su una produzione 100% Made in Italy certificata, che oggi rappresenta oltre il 95% del cuoio da suola prodotto nel nostro Paese».In un settore così antico, quali tradizioni artigianali sono rimaste inalterate e quali invece si sono evolute nel tempo? «La concia al vegetale, cuore della nostra tradizione, è rimasta inalterata nella sua essenza: un processo naturale, lento, rispettoso dei tempi della materia. Quello che è cambiato è il modo di integrarla con tecnologie moderne e sistemi di tracciabilità avanzati, mantenendo intatta l’anima artigianale ma rendendola sempre più efficiente e trasparente».Quanto è stato importante il legame con il territorio toscano nella crescita e nell’identità del consorzio? «Il legame con il territorio è tutto. Non solo per la materia prima e le competenze tecniche, ma anche per i valori culturali che ispirano il nostro lavoro: il rispetto per l’ambiente, la bellezza come principio guida, la cura del dettaglio. Cuoio di Toscana è espressione autentica di una terra che ha fatto dell’eccellenza manifatturiera il proprio tratto distintivo».Il vostro cuoio è sinonimo di qualità ma anche di sostenibilità. In che modo avete anticipato il tema della sostenibilità ben prima che diventasse una priorità globale? «La nostra scelta di lavorare esclusivamente cuoio al vegetale, utilizzando tannini naturali estratti da cortecce, legni e foglie e processi a basso impatto ambientale, ha radici centenarie. Il nostro processo produttivo è fondato su il recupero di un materiale di scarto dell’industria alimentare, altrimenti soggetto all’incenerimento con importanti costi ambientali ed economici, utilizziamo da sempre i tannini vegetali estratti da foreste non soggette a deforestazione, e ricicliamo acque e residui solidi di scarto e di produzione. Oggi è un tema di stretta attualità, ma per noi è sempre stato un valore fondante. Siamo stati tra i primi a parlare di filiera responsabile, a investire in energia da fonti rinnovabili e a certificare ogni fase della produzione».Oggi più che mai si parla di filiera trasparente. Come garantite tracciabilità e responsabilità etica nella vostra produzione? «Abbiamo sviluppato un sistema di tracciabilità avanzata che parte dall’acquisto del pellame fino al prodotto finito. Ogni conceria aderente al consorzio rispetta un disciplinare preciso e certificato, con controlli continui sul rispetto delle normative ambientali e sociali. La trasparenza è per noi una garanzia di fiducia verso il consumatore».Cuoio di Toscana è diventato sinonimo di Made in Italy sostenibile anche nel mondo della moda e del lusso. Quali sono le collaborazioni più significative che avete portato avanti in questi anni?«Negli ultimi anni abbiamo lavorato con maison come Marine Serre, Thebe Magugu, Federico Cina, Marco Rambaldi e Act N°1, ma anche con brand storici come Cividini e creativi come Tiziano Guardini. Ogni collaborazione è un’occasione per dimostrare che il nostro cuoio può dialogare con l’avanguardia della moda, rimanendo fedele ai suoi valori».Guardando ai prossimi 40 anni, quali sono le sfide e le opportunità principali per il settore e per Cuoio di Toscana? «La sfida più grande sarà continuare a innovare senza tradire la nostra identità. Il futuro ci chiede di essere sempre più sostenibili, tracciabili, trasparenti. Ma anche di saper comunicare questi valori ai nuovi consumatori, sempre più attenti ed esigenti. Le opportunità stanno nell’apertura a nuovi mercati, nella collaborazione con il mondo della moda e del design, e nel rafforzamento della nostra filiera come modello di eccellenza italiana».Che messaggio vorrebbe lanciare oggi alle nuove generazioni che guardano alla manifattura e alla sostenibilità come valori da riscoprire? «Vorrei dire loro che il futuro è nella consapevolezza. L’artigianato e la sostenibilità non sono nostalgie del passato, ma strumenti per costruire un domani più giusto, autentico e bello. Servono passione, studio e visione: ma lavorare con le mani e con la testa, nel rispetto del mondo in cui viviamo, è una delle scelte più moderne che si possano fare».
Antonio Quirici e Diego Dolcini (iStock)
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Arrivò prima dei fratelli Lumière il pioniere del cinema Filoteo Alberini, quando nel 1894 cercò di brevettare il kinetografo ispirato da Edison ed inventò una macchina per le riprese su pellicola. Ma la burocrazia italiana ci mise un anno per rilasciare il brevetto, mentre i fratelli francesi presentavano l’anno successivo il loro cortometraggio «L’uscita dalle officine Lumière». Al di là del mancato primato, il regista e produttore italiano nato ad Orte nel 1865 poté fregiarsi di un altro non meno illustre successo: la prima proiezione della storia in una pubblica piazza di un’opera cinematografica, avvenuta a Roma in occasione dell’anniversario della presa di Roma. Era il 20 settembre 1905, trentacinque anni dopo i fatti che cambiarono la storia italiana, quando nell’area antistante Porta Pia fu allestito un grande schermo per la proiezione di quello che si può considerare il primo docufilm in assoluto. L’evento, pubblicizzato con la diffusione di un gran numero di volantini, fu atteso secondo diverse fonti da circa 100.000 spettatori.
Filoteo Alberini aveva fondato poco prima la casa di produzione «Alberini & Santoni», in uno stabile di via Appia Nuova attrezzato con teatri di posa e sale per il montaggio e lo sviluppo delle pellicole. La «Presa di Roma» era un film della durata di una decina di minuti per una lunghezza totale di 250 metri di pellicola, della quale ne sono stati conservati 75, mentre i rimanenti sono andati perduti. Ciò che oggi è visibile, grazie al restauro degli specialisti del Centro Sperimentale di Cinematografia, sono circa 4 minuti di una storia divisa in «quadri», che sintetizzano la cronaca di quel giorno fatale per la storia dell’Italia postunitaria. La sequenza parte con l’arrivo a Ponte Milvio del generale Carchidio di Malavolta, intenzionato a chiedere al generale Kanzler la resa senza spargimento di sangue. Il secondo quadro è girato in un interno, probabilmente nei teatri di posa della casa di Alberici e mostra in un piano sequenza l’incontro tra il messo italiano e il comandante delle forze pontificie generale Hermann Kanzler, che rifiuta la resa agli italiani. I quadri successivi sono andati perduti e il girato riprende con i Bersaglieri che passano attraverso la breccia nelle mura di Porta Pia, per passare quindi all’inquadratura di una bandiera bianca che sventola sopra le mura vaticane. L’ultimo quadro non è animato ed è colorato artificialmente (anche se negli anni alcuni studiosi hanno affermato che in origine lo fosse). Nominata «Apoteosi», l’ultima sequenza è un concentrato di allegorie, al centro della quale sta l’Italia turrita affiancata dalle figure della mitopoietica risorgimentale: Cavour, Vittorio Emanuele II, Garibaldi e Mazzini. Sopra la figura dell’Italia brilla una stella che irradia la scena. Questo dettaglio è stato interpretato come un simbolo della Massoneria, della quale Alberici faceva parte, ed ha consolidato l’idea della forte impronta anticlericale del film. Le scene sono state girate sia in esterna che in studio e le scenografie realizzate da Augusto Cicognani, che si basò sulle foto dell’epoca scattate da Ludovico Tumminello nel giorno della presa di Roma. Gli attori principali del film sono Ubaldo Maria del Colle e Carlo Rosaspina. La pellicola era conosciuta all’epoca anche con il titolo di «La Breccia di Porta Pia» e «Bandiera Bianca».
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