2025-10-04
Cuoco, ma anche umanista. Rosolare sull’Orient Express non è facile ma è un... Gioco
Verona ricorda il grande ristoratore scomparso nel 2019, Giorgio Gioco. Titolare del 12 Apostoli, creò con Montanelli e Biagi anche l’omonimo «antipremio» letterario privo di regole e soldi.A modo loro, anche Indro Montanelli, Enzo Biagi, Cesare Marchi e Giulio Nascimbeni, quattro penne che hanno fatto la storia del giornalismo italiano, furono sessantottini: dettero vita, nell’anno della contestazione generale, a un premio letterario che contestava gli altri premi, un po’ rivoluzionario e un bel po’ anarchico, il Premio 12 Apostoli. L’idea fu lanciata da Montanelli mentre passeggiava a Cortina con gli amici giornalisti e con Giorgio Gioco, patron e cuoco del ristorante 12 Apostoli di Verona. Gioco prese l’idea al balzo e mise immediatamente il suo locale a disposizione del premio, anzi come lo definirono, dell’«antipremio». E lo era: niente regole, zero soldi, niente finali e finalisti e, soprattutto, nessuna pressione da parte degli editori. Il giudizio insindacabile dei 12 apostoli-giurati, la crema del giornalismo italiano, sceglieva il vincitore tra i libri pubblicati nell’anno. La prima edizione premiò Nantas Salvalaggio, altra penna che intingeva il pennino nell’inchiostro dell’ironia, con il libro Il letto in piazza.Gioco sarà ricordato martedì prossimo alle 17 nella prestigiosa Società letteraria di Verona nell’appuntamento Così per Gioco. Amava definire il suo ristorante «un luogo di cultura con angolo cottura». Gongolava nel creare menu su misura del vincitore per la serata del premio. Anche in questo, vigeva l’obbligo del sarcasmo: abbinava i piatti alle virtù o ai peccatucci del vincitore e delle sue opere letterarie. Se lo chiamavano chef, borbottava come una pentola di pasta e fagioli - plof plof - sul fuoco. «Sono un cuoco», diceva orgoglioso. Era un vero artista anche fuori dalla cucina: poeta, scrittore, scultore, pittore terribilmente innamorato della sua città, Verona.Era un cuoco shakespeariano, di quelli che si leccano le punta delle dita, seconda scena del quarto atto di Giulietta e Romeo: messer Capuleti, padre di Giulietta, dice al servo «Tu ragazzo corri a cercare 20 cuochi molto bravi». Servo: «Non ne avrete neppure uno che sia cattivo perché vedrò prima se sanno leccarsi la punta delle dita». Capuleti: «Cosa? Questa sarebbe una prova della loro bravura?». Servo: «Certo, signore. È un pessimo cuoco quello che non si lecca le dita. Quindi non prenderò chi non sa leccarsi le dita».La metafora è il simbolo di un lavoro fatto bene, di una vita bene spesa. Giorgio Gioco, morto nella sua Verona a 94 anni nel 2019, coltivava il comandamento di leccarsi le dita non solo in cucina. È stato un cuoco umanista, imparentato più con i cuochi del RinascimentoBartolomeo Sacchi, Cristoforo di Messisbugo, Bartolomeo Stefani che, con i masterchef che al giorno d’oggi ci massacrano gli zebedei in televisione. Quelli erano i cuochi di Papi e di grandi signori rinascimentali ma, oltre a mestoli e forchettoni, sapevano maneggiare la penna, erano scrittori e poeti, conoscevano l’arte, la storia. Erano uomini di grande cultura. Erano umanisti. Giorgio Gioco era, come loro, un umanista, un cuoco rinascimentale che sarebbe stato bene alla corte degli Estensi, dei Gonzaga, dei Medici, di Sisto IV della Rovere. Era più imparentato con Leonardo da Vinci il quale, quand’era un ragazzotto alla bottega del Verrocchio, si pagava gli studi facendo prima il cameriere e poi il cuoco nella taverna delle Tre lumache. Aveva imparato a cucinare e, da quel genio che era, curava anche la presentazione del cibo, creando quell’arte che i francesi, nell’Ottocento, chiameranno mise en place scoprendo la norma gastronomica di buon gusto che in Italia venne proposta 400 anni prima.Giorgio era uno di loro, un artista a 360°. Un letterato. Quando spegneva i fuochi, prendeva in mano la penna e scriveva delicate poesie o metteva in versi, nel vernacolo scaligero, le ricette. La pastissada de caval? «Se te vol farte un regal,/ un regal ala Cangrande,/ compra carne de caval/ e po’ dopo pensa en grande». La pasta e fagioli è un trattato di pedagogia: «L’è l’insegna de Verona/ la me pasta coi fasòi/ la se magna zo ala bona/ e la fa cressar i fioi». Mise in versi anche il duello con Gianni Brera che sosteneva essere la pearà, la famosa salsa di Verona da servire con il bollito, di origine pavese. Lo attaccò da tutte le parti, anche sul vino: «Chi vol esser lieto sia…/ pol andar fin a Pavia/ su la strada de Alboin/ e trovar anca del vin/ Che nol gà tante pretese/ quel de l’Oltrepò pavese…». Guai toccare la pearà a Verona. Si schierarono con Gioco gli ultras dell’Hellas che stava vincendo lo Scudetto. Esposero un gigantesco striscione con su scritto «Brera musso», Brera asino. Alla fine il cuoco-poeta, il giornalista e i tifosi fecero pace. La pearà (di Verona) ne fu il sigillo.Gioco, con matite, pastelli e colori a tempera, dipingeva tutti i giorni delicati mazzi di fiori per la moglie Iole o decorava i menu. Era uno scultore: celebri i suoi funghi e le melograne di bronzo che modellava con il sistema della cera persa. Era un fine dicitore. Probabilmente sapeva a memoria quasi tutte le poesie di Berto Barbarani e molte di Tolo da Re, i poeti di Verona. Era fratello di bollito di Galileo Galilei, umanista, docente all’Università di Padova, astronomo e gastronomo: il gran bollito del pisano ha ancora imitatori a Padova.Possedeva il grande dono dell’umiltà. Alla fine di una cena di Natale dell’Accademia italiana della cucina, Gioco scrisse con la sua bellissima calligrafia: «Soddisfatti per essere stati scelti dalla eccellentissima delegazione dell’Accademia italiana della cucina quale punto di ritrovo per lo scambio degli auguri di Natale, siamo altresì emozionati per questo delicato incarico con la speranza di superare la difficile prova». Emozionati? Difficile prova? Quanto rispetto e modestia ebbe il patron dei 12 Apostoli, l’amico di Montanelli, il cuoco che soltanto l’anno prima, nel 1989, fu lo chef (qui ci vuole) italiano scelto dai vertici francesi della compagnia dell’Orient Express, in quanto «one of Italy’s top restaurateurs». I francesi, e tutti sappiamo come i francesi in fatto di cucina si sentano superiori al mondo intero, all’inizio di quel 1989 annunciarono la clamorosa novità: in novembre la celebre e celebrata cucina dell’Orient Express sarebbe stata affidata a un cuoco italiano nel viaggio del treno più famoso al mondo da Venezia a Parigi. A cucinare per i ricconi americani, francesi e inglesi a bordo fu scelto lui, Giorgio Gioco, cuoco e patron del 12 Apostoli di Verona. Gioco fu accolto a Venezia-Santa Lucia da Christian Bodiguel, executive chef del mitico treno di Agatha Christie. Bodiguel trattò l’illustre collega italiano con gli onori di un generale di corpo d’armata. Schierò sulla banchina dove sbuffava l’Orient Express tutta la brigata di cucina: sei cuochi in divisa, che Bodiguel mise a completa disposizione di Gioco.Oltre agli spazi ristretti della cucina, al dondolio del treno che viaggiava alla media di 120 chilometri all’ora, Gioco dovette fare i conti con le esigenze di Claude Ginella, directeur general della compagnia il quale pretese che anche le salse, le creme, i piatti e i dessert si fondessero in un’armonia cromatica con gli arredi e i colori del treno. Era una sfida, ma fu un invito a nozze per il cuoco umanista che maneggiava pentole e pignatte con l’arte di uno Scappi o di uno Stefani.Già nel titolo il menù portava l’impronta scaligera: Distinta delle vivande di Romeo e Giulietta, il giusto tocco romantico degno del treno dei sogni. Due i menu serviti tra Verona e Parigi. Il primo: terrina di funghi di bosco con formaggio gratinato; sogliola alla crema di olive e spinaci; filetto di vitello della Lessinia al tartufo bianco e nero servito con fagiolini al burro; pandoro allo zabaglione abbinato al recioto classico. La seconda: millefoglie al tartufo; verdone allo zafferano; filetto di manzo alla Capuleti; dolce all’amarena. I vini? Tutti veronesi, naturellement: Valpolicella, Amarone, Recioto, Soave.