2025-05-19
Cuba si butta su Pechino. Ma neanche la Cina riuscirà a salvarla
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Nuovo membro dei Brics, L'Avana si trova in uno stato di crisi energetica profonda, oltre ad avere perso milioni di turisti negli ultimi anni. Ora Pechino si muove per fornire aiuti, come fece l'Unione Sovietica in passato.La Cuba di Castro ebbe larga influenza in parte del mondo occidentale. In Italia, l'editore Giangiacomo Feltrinelli sognò di fare della Sardegna la «Cuba del Mediterraneo» alla fine degli anni Sessanta.Lo speciale contiene due articoli.Da gennaio 2025 Cuba è ufficialmente entrata a far parte dell’alleanza economica dei Brics, il gruppo guidato da Cina e Russia. Insieme all’isola caraibica sono diventati membri la Bielorussia, la Bolivia, l’Indonesia, il Kazakistan, la Malesia, l’Uganda, la Thailandia e l’Uzbekistan, dimostrando l’attrazione di questa alleanza che si pone alternativa al blocco occidentale. La situazione economica dell’Havana appare però particolarmente critica e un peso per le tante economie in crescita soprattutto dei paesi come l’India che stanno trainando i Brics. Da mesi infatti Cuba sta attraversano la peggior crisi energetica della sua storia, una situazione addirittura peggiore di quello affrontata all’inizio degli anni ’90 al crollo del blocco sovietico, che sosteneva totalmente l’economia isolana. Non si trova carburante e i blackout (gli apagon come li chiamano i cubani da sempre abituati a subirli) sono sempre più frequenti e duraturi. Durante la scorsa estate 10 milioni di persone sono rimaste senza luce per oltre 4 giorni e le poche industrie cubane hanno interrotto la produzione per quasi una settimana. Il paese ha visto un’estate ed un autunno segnato dalle manifestazioni che fra agosto ed ottobre si sono ripetute per più di un migliaio di volte protestando con forza contro il governo. Nel cosiddetto “ottobre nero” il presidente cubano Miguel Diaz-Canel ha pubblicamente accusato gli Stati Uniti di sfruttare la difficile situazione per cavalcare le proteste ed ha diramato una serie di dati dove secondo il governo cubano le sanzioni economiche statunitensi, ultimamente inasprite, sono costate quasi 170 miliardi di dollari spalmati in oltre 60 anni. La sopravvivenza di Cuba si è sempre basata sull’aiuto di qualche partner internazionale e dopo il crollo dell’Unione Sovietica, era stato il Venezuela di Hugo Chavez a rifornire di petrolio l’isola dall’inizio degli anni 2000. Caracas però sta attraversando un momento economico molto complicato e le sanzioni hanno colpito anche il governo di Nicolas Maduro che dal 2024 ha tagliato del 44% le forniture petrolifere che inviava a Cuba ad un prezzo quasi simbolico. Anche Mosca era tornata a rifornire L’Havana, ma il suo supporto energetico è limitato e largamente insufficiente al fabbisogno nazionale. Il Messico si era offerto in nome di una cosiddetta solidarietà latinoamericana, stando alle parole del presidente Andrés Manuel López Obrador ed effettivamente i messicani sono stati i più attivi nel drammatico autunno scorso. La nuova presidente Claudia Scheinbaum ha confermato il suo supporto, ma il paese sta attraversando una crisi economica ed è un importatore di petrolio e non può regalare carburante a Cuba. L’ultimo atto di questa agonia economica spiega l’ingresso cubano nei Brics, tecnicamente nel Brics+ un sottogruppo, alla ricerca di qualcuno che possa sostenerne la debolissima economia. Questo qualcuno potrebbe essere la Cina che ha già inviato 69 tonnellate di materiale elettronico per aiutare a rimettere in piedi una rete elettrica costruita ai tempi dell’Unione Sovietica e spesso ancora alimentata ad olio combustibile pesante. Questa rete negli ultimi mesi ha garantito a malapena 6 ore di energia giornaliera e adesso Pechino sta puntando al fotovoltaico per puntellare il traballante sistema cubano. Una situazione fotografabile nelle file di centinaia di automobilisti che dormono in coda per non perdere il turno quando finalmente arriva una cisterna di carburante. L’impegno cinese fa parte di un pacchetto di aiuti che prevede una partnership sempre più profonda, come ha dichiarato l’ambasciatore di Pechino di stanza a Cuba Hua Xin. «La Cina vuole il benessere di tutti i membri dei Brics, perché sappiamo che il benessere reciproco farà crescere tutto il gruppo. Per questo motivo siamo felici di aiutare il governo cubano in un momento di difficoltà». Ma la situazione cubana appare in una crisi troppo profonda ed anche il turismo, sua principale fonte di reddito, ha visto una netta contrazione. Nel 2024 è calato dell’8% rispetto al 2023, con numeri che faticano a superare i due milioni di presenze. Prima del 2019 i turisti a Cuba sfioravano i cinque milioni annui e in questi 6 anni il Pil nazionale è calato di oltre il 10%. L’interesse cinese, una mossa utile a mettere piede a 90 miglia dalla Florida, potrebbe non essere sufficiente a sostenere la morente economia caraibica che ha visto decrescere la sua popolazione del 12% del totale, con 700mila persone che si sono trasferite negli Stati Uniti. Il governo di Diaz-Canel sta provando a rinvigorire il settore monetaria, mettendo fine al tasso di cambio fisso con il dollaro. Questa scelta politica aveva infatti prosciugato le scarse riserve in valuta pregiata della Banca Centrale, creando una continua svalutazione del peso cubano e limitando l’arrivo nell’isola di merci dall’estero. Un quadro desolante che la Cina proverà a rianimare, ma ad un prezzo che appare troppo alto anche per Pechino.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/cuba-si-butta-su-pechino-ma-neanche-la-cina-riuscira-a-salvarla-2672110719.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="quando-giangiacomo-feltrinelli-voleva-fare-della-sardegna-la-cuba-del-mediterraneo" data-post-id="2672110719" data-published-at="1747653281" data-use-pagination="False"> Quando Giangiacomo Feltrinelli voleva fare della Sardegna la «Cuba del Mediterraneo». La Cuba degli anni Sessanta, avamposto del comunismo a poche miglia dalle coste statunitensi e teatro della crisi dei missili che fece quasi scoppiare la terza guerra mondiale alla fine del 1962, ebbe una rilevante influenza su una parte del mondo occidentale. Attraversata dai movimenti di protesta, l’Europa della Guerra Fredda viveva il fermento circondata da forti tensioni geopolitiche, riflesso del confronto tra le due superpotenze Usa e Urss. L’idea dell’«isola che resiste» fu mitizzata da molti esponenti di sinistra, specie tra i «delusi da Mosca», che la vedevano come un’alternativa «terzomondista» alla via verso il socialismo. Uno dei massimi sostenitori del modello cubano in Italia fu l’editore Giangiacomo Feltrinelli, che dalla metà degli anni Sessanta coltivò l’idea utopica di fare della Sardegna la «Cuba del Mediterraneo». Allora quarantenne, il figlio di una delle dinastie finanziarie e industriali tra le più influenti del Paese conosceva a fondo l’isola caraibica e il suo «lìder maximo» Fidel Castro, che frequentò in occasione di diversi viaggi. In Italia l’editore ospitò Franqui Mesa Carlos, corrispondente della rivista cubana «Revoluciòn», che gli farà ottenere i diritti per l’edizione italiana dei diari di Castro. La vicinanza e la passione per la rivoluzione del 1959 crebbero in lui parallelamente ad una forte ossessione per il ritorno dei fascismi in quel 1967 quando in Bolivia veniva ucciso Che Guevara, i Colonnelli prendevano il potere in Grecia e in Italia e con lo scandalo Sifar del generale De Lorenzo emergevano i retroscena eversivi del piano «Solo». Ad alimentare la spinta all’azione e all’uso della violenza «necessaria e funzionale» alla sollevazione in Italia contribuì quanto stava per accadere nel mondo studentesco e operaio alla vigilia del Sessantotto con la crescita dei diversi gruppi della sinistra extraparlamentare, che nei proclami quotidiani auspicavano la presa del potere da parte delle «masse proletarie». Giangiacomo Feltrinelli, classe 1926, si inserì tra la galassia dei gruppi e gruppuscoli alla sinistra del Pci come un silenzioso artefice che dietro le quinte avrebbe voluto dare la spinta determinante per un amalgama tra forze «rivoluzionarie» fortemente eterogenee, in un momento che a lui sembrò più che mai propizio all’azione. La Sardegna della metà del decennio gli parve rappresentare il terreno ideale per creare una seconda Cuba nel cuore dell’Europa, una enclave comunista nel bel mezzo del Mediterraneo, controllato allora dalla Quinta flotta americana. Diversi motivi spinsero l’editore a scegliere l’isola, non solo di ordine politico. La storia della resistenza dei popoli sardi alle invasioni dalla terraferma affascinò Feltrinelli, come racconta il figlio Carlo nella biografia del padre intitolata «Senior Service». Dalla resistenza ai Cartaginesi ai Romani fino a quella contro i Savoia l’uomo sardo, mai domato e fieramente indipendentista, creò nell’immaginario del miliardario-rivoluzionario l’idea che le caratteristiche della popolazione dell’isola potessero fornire un’ottima base per fare scattare la scintilla della rivoluzione sul modello dell’Avana, basata sulla strategia della «guerra di guerriglia». Giangiacomo fu spesso in Sardegna tra il 1967 e il 1969, in un momento di crescita della tensione anche sull’isola con l’aumento delle proteste dei lavoratori e dei pastori della Barbagia, le crescenti voci dell’indipendentismo e la recrudescenza delle azioni criminose del banditismo con l’inizio di una lunga scia di sangue e sequestri. Più volte ospite di amici nella zona del parco dei Sette Fradis, Feltrinelli durante i periodi trascorsi sull’isola venne in contatto con diverse realtà della galassia dell’antagonismo allo Stato unitario. L’indipendentismo fu al centro dei suoi interessi, tanto che nella collana di pamphlet edita dalla libreria dell’editore milanese figuravano due libelli scritti da uno dei massimi esponenti del separatismo sardo, Giuliano Cabitza (pseudonimo di Eliseo Spiga) dal titolo «Sardegna: rivolta contro la colonizzazione» e «La Sardegna davanti ad una svolta decisiva». Nei brevi scritti di poche pagine, finanziati da Feltrinelli, l’autore tracciava le linee del profondo conflitto sociale, di cui il banditismo era estrema espressione, in corso in Sardegna a causa della mancata riforma agraria da parte della regione governata a lungo sia dalla Dc che da giunte di centro-sinistra. Il mito della società «barbaricina», con le antiche regole della società agro-pastorale, offrì a Feltrinelli l’idea di una forza potenzialmente rivoluzionaria che, opportunamente guidata, avrebbe potuto fornire la spinta necessaria a un sovvertimento dell’«ordine borghese» dell’isola.Anche alcuni esponenti della sinistra extraparlamentare sarda figurarono, su molti giornali dell’epoca, tra i contatti dell’editore folgorato da Cuba. Si citarono frequentemente Pietro Bruno Golosio del «Fronte Rivoluzionario sardo» e soprattutto Giuseppe Saba, elettrotecnico sardo emigrato in Svizzera che ritornerà sulle cronache dopo la morte violenta di Feltrinelli. Arrestato nel 1974 in Sardegna assieme a Golosio, dalle sue deposizioni in fase processuale riportate sulla stampa emersero più elementi che fecero ricondurre la sua collaborazione con l’editore già negli anni 1966-68. Ad alimentare la portata dell’azione di Feltrinelli in Sardegna contribuirono inoltre le persistenti voci (anch’esse riportate alla stampa da diversi pentiti dell’anonima sarda, ma smentite dal figlio Carlo nel libro biografico sul padre) secondo le quali in quegli anni Giangiacomo avrebbe avuto contatti con banditi del calibro di Graziano Mesina e Mario Cabiddu, tra i più spietati capi dell’organizzazione criminale. Nelle deposizioni dei sequestratori più volte fu dichiarato che non ben identificati «finanziatori» avrebbero voluto pilotare le organizzazioni criminali alla «rivoluzione». Anche all’estero Feltrinelli pensò alla Sardegna come avamposto della rivolta di popolo: più volte in Germania e Svizzera, Paesi a forte tasso di immigrazione della forza lavoro sarda, fece propaganda fra i lavoratori venuti dall’isola. Se è vero che realmente Feltrinelli usò l’espressione «Cuba del mediterraneo» in una conferenza tenuta a Cagliari, più difficile risulta individuare eventuali piani strategico-militari per arrivare all’obiettivo della rivoluzione in Sardegna. Personaggio sfuggente, da sempre affascinato dal mito della resistenza e dell’azione clandestina, Feltrinelli sembrava avere elaborato un’idea «romantica», più vicina forse alle sollevazioni popolari postunitarie del Mezzogiorno d’Italia che alla «Revoluciòn» di Castro e compagni. La Sardegna come Cuba, da un punto di vista oggettivo, era certamente un obiettivo irrealizzabile in una regione con una forte presenza delle Forze dell’ordine e della Nato (a La Maddalena, Decimomannu, Capo Teulada e altre importanti installazioni militari). Presente a più riprese in Sardegna, Giangiacomo Feltrinelli farà perdere le sue tracce poco prima dell’attentato di piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Anche per questo fu citato più volte tra i possibili autori della strage che segnò l’inizio della «strategia della tensione», vissuta dall’editore come uno spartiacque che lo fece precipitare verso l’ossessione di un imminente golpe «alla greca». La clandestinità durò poco più di due anni, nei quali il «gappista» Feltrinelli (che si era dato il nome di battaglia «Osvaldo») si dedicò ad azioni dimostrative come interferenze radiotelevisive in cui lanciò appelli alla «resistenza contro il ritorno del fascismo in Italia» e attentati dinamitardi alle linee elettriche per generare blackout. Lontano da Cuba e dalle aspre montagne della Sardegna, Giangiacomo Feltrinelli perderà la vita il 14 marzo 1972 ai piedi di un traliccio dell’alta tensione a Segrate (Milano) che aveva tentato di far saltare, rimanendo ucciso per l’innesco anticipato delle cariche. Tra i primi ad accorrere sul posto dopo il ritrovamento del corpo ci fu il commissario Luigi Calabresi, assassinato due mesi più tardi. Il «sol dell’avvenire», che avrebbe dovuto per Feltrinelli sorgere dalla Sardegna, fu eclissato per sempre dal buio della «notte della Repubblica».
13 ottobre 2025: il summit per la pace di Sharm El-Sheikh (Getty Images)
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