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2024-12-05
Corea del Sud, chiesto l’impeachment per il presidente Yoon: «Ci ha traditi»
Yoon Suk Yeol (Getty Images)
Svolta in Corea del Sud. Il presidente, Yoon Suk Yeol, ha revocato la legge marziale che lui stesso aveva inizialmente proclamato. Nella serata di martedì, il capo dello Stato sudcoreano aveva decretato la misura d’emergenza, accusando il Partito democratico di Corea di attività anti statali. Ne erano seguite proteste, con il presidente che era stato criticato non solo delle forze politiche avversarie ma anche del suo stesso schieramento, il Partito del potere popolare. Nel giro di poche ore, l’Assemblea nazionale aveva votato per bloccare la legge marziale, mentre l’esercito aveva replicato che la misura sarebbe rimasta in vigore fino a quando il capo dello Stato non l’avesse revocata. Lo stallo istituzionale si è alla fine rotto quando Yoon Suk Yeol ha deciso di fare marcia indietro.
Nel frattempo, il ministro della Difesa, Kim Yong-hyun - considerato il vero ispiratore del controverso provvedimento - si è dimesso, dichiarando: «Tutti i soldati che hanno svolto i loro compiti in relazione alla legge marziale d’emergenza erano sotto il ministro, tutte le responsabilità ricadono su di me». Anche lo staff presidenziale ha messo sul tavolo le dimissioni. Tutto questo, mentre i partiti d’opposizione hanno presentato ieri una mozione per avviare la procedura d’impeachment contro il presidente per «comportamento insurrezionale»: il voto per la messa in stato d’accusa dovrà svolgersi entro sabato.
Per mettere in moto il procedimento, è necessario un quorum di due terzi, vale a dire almeno 200 dei 300 parlamentari dell’Assemblea nazionale. A quel punto, si celebrerebbe il processo vero e proprio davanti alla Corte costituzionale, che può rimuovere il presidente, qualora votino a favore almeno sei dei nove giudici che la compongono. L’ultimo caso di destituzione risale al 2017, quando l’allora presidentessa sudcoreana, Park Geun-hye, fu silurata per traffico di influenze. Non è però detto che stavolta ci siano i numeri parlamentari per la messa in stato d’accusa: il partito di Yoon detiene 108 seggi all’Assemblea nazionale. Se votasse compattamente contro l’impeachment, farebbe mancare il quorum di 200 voti e la procedura naufragherebbe. Bisogna quindi capire in che modo si comporterà lo schieramento politico del presidente che, come detto, si era opposto alla legge marziale.
La principale organizzazione sindacale della Corea del Sud, la Confederazione coreana dei sindacati, ha frattanto annunciato uno sciopero a tempo indeterminato fino a che il capo dello Stato non rassegnerà le proprie dimissioni. A questo punto, non è escludibile che un passo indietro di Yoon Suk Yeol possa arrivare nelle prossime ore. In quel caso, si dovrebbero tenere elezioni entro una finestra temporale di 60 giorni.
Il presidente aveva invocato la legge marziale principalmente per problemi di politica interna. L’Assemblea nazionale è infatti controllata dal Partito democratico di Corea. E, nelle ultime settimane, si erano registrati vari attriti. Non era stato possibile approvare la legge di bilancio. Inoltre, le forze di opposizione chiedevano che la moglie di Yoon, Kim Keon-hee, fosse messa sotto inchiesta per aggiotaggio, oltre che per aver ricevuto regali compromettenti. È quindi probabile che il presidente volesse cercare di uscire dall’impasse, invocando un provvedimento di emergenza che non veniva proclamato nel Paese dal lontano 1980. Alla fine, Yoon ha ceduto. E probabilmente, nella sua marcia indietro, hanno pesato anche le pressioni di Washington, che - nella nottata di martedì - aveva espresso sorpresa e preoccupazione.
Non a caso, ieri il segretario di Stato americano, Tony Blinken, ha detto che gli Usa hanno accolto positivamente la revoca della legge marziale. D’altronde, Washington teme che il caos esploso in Corea del Sud possa incoraggiare il regime di Pyongyang a condurre qualche blitz militare. Ricordiamo che la Corea del Nord ha significativamente rafforzato i propri legami con la Russia nel settore della Difesa: proprio ieri, il segretario generale della Nato, Mark Rutte, ha accusato Mosca di supportare il programma nucleare di Pyongyang. Quella stessa Pyongyang le cui truppe sono state di recente schierate in Ucraina a sostegno delle forze di Mosca.
Tra l’altro, appena venerdì scorso, il ministro della Difesa russo, Andrei Belousov, si è recato in visita in Corea del Nord, per incontrarne l’establishment politico-militare. Inoltre, gli Stati Uniti si trovano, al momento, nel pieno della transizione presidenziale. Senza infine trascurare che l’inquilino della Casa Bianca uscente, Joe Biden, ha notevolmente azzoppato la capacità di deterrenza statunitense a seguito della sua pessima gestione del ritiro afgano.
Insomma, tutta questa serie di fattori potrebbe spingere Kim Jong Un a osare. D’altronde, l’invasione con cui il regime di Pyongyang diede il via alla guerra di Corea nel 1950 fu un atto improvviso e senza formale dichiarazione di guerra. Va detto che la politica sudcoreana è storicamente turbolenta e che Yoon non è il primo presidente controverso del Paese. Quello che preoccupa è però il fatto che questa crisi politica sia esplosa in un contesto internazionale che offre una finestra di opportunità al regime di Pyongyang. Del resto, al di là di un’eventuale invasione più o meno limitata, Kim Jong Un potrebbe sfruttare il caos politico sudcoreano dal punto di vista propagandistico. Una simile situazione spiega la preoccupazione mostrata da Washington nelle ultime 48 ore. La Corea del Sud rappresenta d’altronde uno dei pilastri dell’influenza americana in Estremo Oriente.
La Gen-K è già tornata alla normalità
Nel 2013, Coup d’Etat di G-Dragon reinterpretava il concetto di colpo di Stato come rivoluzione personale e culturale, una presa di potere che non implicava l’esercito, ma una rivendicazione di dominio sulla scena globale attraverso l’arte. A distanza di più di un decennio, la parola «colpo di Stato» ha risuonato ancora, seppur in un contesto radicalmente diverso, con l’annuncio improvviso del presidente Yoon Suk Yeol, che martedì ha dichiarato la legge marziale in Corea del Sud.
Il Paese, che ormai da anni rappresenta una delle potenze culturali più influenti al mondo grazie alla Hallyu, l’«onda coreana» nella cultura di massa, ha visto un’interruzione brusca del suo pulsante settore dell’intrattenimento. La Corea del Sud, con il K-pop, i K-drama e il cinema che hanno varcato i confini internazionali, non è più solo una nazione con una forte economia, ma anche un simbolo di soft power. Le opere culturali coreane come Parasite, Squid game e i successi musicali dei Bts hanno avuto un impatto profondo, consolidando l’immagine positiva della Corea a livello globale.
La dichiarazione di emergenza di Yoon ha sconvolto il panorama culturale del Paese, con la cancellazione e il rinvio di eventi promozionali di film e concerti già programmati. La pellicola One win, ad esempio, ha annullato la sua promozione del giorno dopo a causa di «circostanze inevitabili», così come Firefighters ha rinviato la presentazione. La situazione ha creato incertezze anche nel settore musicale, con i concerti sospesi di artisti come Lee Seung-hwan.
Nonostante l’instabilità politica, durata solo poche ore, l’industria dell’intrattenimento ha dato segni di resilienza. La maggior parte degli eventi, come i concerti di Dua Lipa, Charlie Puth e Yoasobi sono ripresi senza ulteriori interruzioni, ripristinando la normalità in un Paese che ha la capacità di adattarsi rapidamente. Questa rapidità di reazione è tipica di una società famosa per il suo approccio «palli-palli» (veloce-veloce), che consente di superare crisi apparentemente devastanti. E il Paese del veloce-veloce, che ha visto solo un intoppo dei servizi di messaggistica come KakaoTalk, ha ora nel non riuscito «coup d’Etat» un nuovo stimolo creativo. Sono migliaia i meme che circolano sulle piattaforme sudcoreane e che prendono di mira Yoon Suk Yeol, ma anche la first lady. I più maliziosi parlano di «un presidente ubriaco», che ha reagito in modo esagerato all’ennesimo scandalo che avrebbe coinvolto la sua metà (rea di messaggi di dubbio contenuto con una controversa parte politica).
Nonostante l’impatto iniziale di questi eventi, la Gen-K, che ha visto crescere le proprie radici nella cultura popolare e nell’intrattenimento, non si è concentrata sulla politica. Il colpo di Stato di martedì notte è già acqua passata. Il dibattito è tornato rapidamente a temi più «leggeri», come la disputa sul marchio del gruppo K-pop The Boyz, dopo l’addio alla loro agenzia storica. Questo cambio rapido di focus evidenzia come la Generazione K non sia solo un prodotto di un fenomeno culturale, ma un movimento che guarda oltre i confini della politica nazionale, abbracciando il soft power che ha trasformato la Corea del Sud in un faro di influenza globale.
La Hallyu wave, che è andata oltre il semplice intrattenimento per diventare una forma di diplomazia culturale, rimane al centro di questa rivoluzione culturale, che non si lascia intimidire dalle turbolenze politiche interne, è il vero motore della Corea del Sud, capace di resistere alle sfide senza rinunciare al suo posto di leadership sulla scena mondiale.
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Entro sabato la messa in stato d’accusa del capo dello Stato, che ha dovuto rimangiarsi la legge marziale d’emergenza. Già caduta la testa del ministro della Difesa. Ora il leader è appeso ai voti del suo partito.I giovani, a Seul e in tutto il Paese, hanno archiviato il blitz. E sui social il suo ideatore è il bersaglio perfetto. Gli show all’occidentale devono continuare, la politica non conta.Lo speciale contiene due articoli.Svolta in Corea del Sud. Il presidente, Yoon Suk Yeol, ha revocato la legge marziale che lui stesso aveva inizialmente proclamato. Nella serata di martedì, il capo dello Stato sudcoreano aveva decretato la misura d’emergenza, accusando il Partito democratico di Corea di attività anti statali. Ne erano seguite proteste, con il presidente che era stato criticato non solo delle forze politiche avversarie ma anche del suo stesso schieramento, il Partito del potere popolare. Nel giro di poche ore, l’Assemblea nazionale aveva votato per bloccare la legge marziale, mentre l’esercito aveva replicato che la misura sarebbe rimasta in vigore fino a quando il capo dello Stato non l’avesse revocata. Lo stallo istituzionale si è alla fine rotto quando Yoon Suk Yeol ha deciso di fare marcia indietro. Nel frattempo, il ministro della Difesa, Kim Yong-hyun - considerato il vero ispiratore del controverso provvedimento - si è dimesso, dichiarando: «Tutti i soldati che hanno svolto i loro compiti in relazione alla legge marziale d’emergenza erano sotto il ministro, tutte le responsabilità ricadono su di me». Anche lo staff presidenziale ha messo sul tavolo le dimissioni. Tutto questo, mentre i partiti d’opposizione hanno presentato ieri una mozione per avviare la procedura d’impeachment contro il presidente per «comportamento insurrezionale»: il voto per la messa in stato d’accusa dovrà svolgersi entro sabato. Per mettere in moto il procedimento, è necessario un quorum di due terzi, vale a dire almeno 200 dei 300 parlamentari dell’Assemblea nazionale. A quel punto, si celebrerebbe il processo vero e proprio davanti alla Corte costituzionale, che può rimuovere il presidente, qualora votino a favore almeno sei dei nove giudici che la compongono. L’ultimo caso di destituzione risale al 2017, quando l’allora presidentessa sudcoreana, Park Geun-hye, fu silurata per traffico di influenze. Non è però detto che stavolta ci siano i numeri parlamentari per la messa in stato d’accusa: il partito di Yoon detiene 108 seggi all’Assemblea nazionale. Se votasse compattamente contro l’impeachment, farebbe mancare il quorum di 200 voti e la procedura naufragherebbe. Bisogna quindi capire in che modo si comporterà lo schieramento politico del presidente che, come detto, si era opposto alla legge marziale. La principale organizzazione sindacale della Corea del Sud, la Confederazione coreana dei sindacati, ha frattanto annunciato uno sciopero a tempo indeterminato fino a che il capo dello Stato non rassegnerà le proprie dimissioni. A questo punto, non è escludibile che un passo indietro di Yoon Suk Yeol possa arrivare nelle prossime ore. In quel caso, si dovrebbero tenere elezioni entro una finestra temporale di 60 giorni. Il presidente aveva invocato la legge marziale principalmente per problemi di politica interna. L’Assemblea nazionale è infatti controllata dal Partito democratico di Corea. E, nelle ultime settimane, si erano registrati vari attriti. Non era stato possibile approvare la legge di bilancio. Inoltre, le forze di opposizione chiedevano che la moglie di Yoon, Kim Keon-hee, fosse messa sotto inchiesta per aggiotaggio, oltre che per aver ricevuto regali compromettenti. È quindi probabile che il presidente volesse cercare di uscire dall’impasse, invocando un provvedimento di emergenza che non veniva proclamato nel Paese dal lontano 1980. Alla fine, Yoon ha ceduto. E probabilmente, nella sua marcia indietro, hanno pesato anche le pressioni di Washington, che - nella nottata di martedì - aveva espresso sorpresa e preoccupazione.Non a caso, ieri il segretario di Stato americano, Tony Blinken, ha detto che gli Usa hanno accolto positivamente la revoca della legge marziale. D’altronde, Washington teme che il caos esploso in Corea del Sud possa incoraggiare il regime di Pyongyang a condurre qualche blitz militare. Ricordiamo che la Corea del Nord ha significativamente rafforzato i propri legami con la Russia nel settore della Difesa: proprio ieri, il segretario generale della Nato, Mark Rutte, ha accusato Mosca di supportare il programma nucleare di Pyongyang. Quella stessa Pyongyang le cui truppe sono state di recente schierate in Ucraina a sostegno delle forze di Mosca. Tra l’altro, appena venerdì scorso, il ministro della Difesa russo, Andrei Belousov, si è recato in visita in Corea del Nord, per incontrarne l’establishment politico-militare. Inoltre, gli Stati Uniti si trovano, al momento, nel pieno della transizione presidenziale. Senza infine trascurare che l’inquilino della Casa Bianca uscente, Joe Biden, ha notevolmente azzoppato la capacità di deterrenza statunitense a seguito della sua pessima gestione del ritiro afgano. Insomma, tutta questa serie di fattori potrebbe spingere Kim Jong Un a osare. D’altronde, l’invasione con cui il regime di Pyongyang diede il via alla guerra di Corea nel 1950 fu un atto improvviso e senza formale dichiarazione di guerra. Va detto che la politica sudcoreana è storicamente turbolenta e che Yoon non è il primo presidente controverso del Paese. Quello che preoccupa è però il fatto che questa crisi politica sia esplosa in un contesto internazionale che offre una finestra di opportunità al regime di Pyongyang. Del resto, al di là di un’eventuale invasione più o meno limitata, Kim Jong Un potrebbe sfruttare il caos politico sudcoreano dal punto di vista propagandistico. Una simile situazione spiega la preoccupazione mostrata da Washington nelle ultime 48 ore. 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Il Paese, che ormai da anni rappresenta una delle potenze culturali più influenti al mondo grazie alla Hallyu, l’«onda coreana» nella cultura di massa, ha visto un’interruzione brusca del suo pulsante settore dell’intrattenimento. La Corea del Sud, con il K-pop, i K-drama e il cinema che hanno varcato i confini internazionali, non è più solo una nazione con una forte economia, ma anche un simbolo di soft power. Le opere culturali coreane come Parasite, Squid game e i successi musicali dei Bts hanno avuto un impatto profondo, consolidando l’immagine positiva della Corea a livello globale. La dichiarazione di emergenza di Yoon ha sconvolto il panorama culturale del Paese, con la cancellazione e il rinvio di eventi promozionali di film e concerti già programmati. La pellicola One win, ad esempio, ha annullato la sua promozione del giorno dopo a causa di «circostanze inevitabili», così come Firefighters ha rinviato la presentazione. La situazione ha creato incertezze anche nel settore musicale, con i concerti sospesi di artisti come Lee Seung-hwan. Nonostante l’instabilità politica, durata solo poche ore, l’industria dell’intrattenimento ha dato segni di resilienza. La maggior parte degli eventi, come i concerti di Dua Lipa, Charlie Puth e Yoasobi sono ripresi senza ulteriori interruzioni, ripristinando la normalità in un Paese che ha la capacità di adattarsi rapidamente. Questa rapidità di reazione è tipica di una società famosa per il suo approccio «palli-palli» (veloce-veloce), che consente di superare crisi apparentemente devastanti. E il Paese del veloce-veloce, che ha visto solo un intoppo dei servizi di messaggistica come KakaoTalk, ha ora nel non riuscito «coup d’Etat» un nuovo stimolo creativo. Sono migliaia i meme che circolano sulle piattaforme sudcoreane e che prendono di mira Yoon Suk Yeol, ma anche la first lady. I più maliziosi parlano di «un presidente ubriaco», che ha reagito in modo esagerato all’ennesimo scandalo che avrebbe coinvolto la sua metà (rea di messaggi di dubbio contenuto con una controversa parte politica). Nonostante l’impatto iniziale di questi eventi, la Gen-K, che ha visto crescere le proprie radici nella cultura popolare e nell’intrattenimento, non si è concentrata sulla politica. Il colpo di Stato di martedì notte è già acqua passata. Il dibattito è tornato rapidamente a temi più «leggeri», come la disputa sul marchio del gruppo K-pop The Boyz, dopo l’addio alla loro agenzia storica. Questo cambio rapido di focus evidenzia come la Generazione K non sia solo un prodotto di un fenomeno culturale, ma un movimento che guarda oltre i confini della politica nazionale, abbracciando il soft power che ha trasformato la Corea del Sud in un faro di influenza globale. La Hallyu wave, che è andata oltre il semplice intrattenimento per diventare una forma di diplomazia culturale, rimane al centro di questa rivoluzione culturale, che non si lascia intimidire dalle turbolenze politiche interne, è il vero motore della Corea del Sud, capace di resistere alle sfide senza rinunciare al suo posto di leadership sulla scena mondiale.
I carabinierii e la Scientifica sul luogo della rapina alla gioielleria Mario Roggero a Grinzane Cavour (Cuneo), il 28 aprile 2021 (Ansa)
A due giorni dalla condanna in secondo grado che gli infligge una pena di 14 anni e 9 mesi (17 nel primo appello), ci si chiede se non ci sia stato un errore, un abbaglio, perché ciò che stupisce di più oltre alla severità della pena sono le sue proporzioni. Sì perché mentre a Roggero spetta il carcere, ai delinquenti e alle loro famiglie andranno migliaia di euro di risarcimenti. Avevano chiesto quasi tre milioni, per la precisione: 2 milioni e 885.000 euro. Gliene sono stati riconosciuti 480.000. L’uomo però aveva già dato 300.000 euro - non dovuti - ai congiunti dei suoi assalitori. Per reperire i soldi ha dovuto svendere due appartamenti di proprietà sua e dei suoi fratelli. Una delle due era la casa in cui era cresciuto. Come già scritto su queste colonne si tratta di una tragica beffa per chi ha subito una rapina e che, per essersi difeso, ne subisce un’altra ancora. A questi soldi vanno aggiunti altri 300.000 euro «di spese legali, peritali, mediche», che non sono bastate a mitigare la «sentenza monito» di 17 anni in primo grado, come l’ha definita il procuratore capo di Asti. Non un monito, ma il presagio della condanna in secondo grado che gli ha visto attribuire una diminuzione di pena di due anni e poco più.
Eppure nel mondo dell’assurdo in cui viviamo ai familiari di chi muore sul lavoro vanno appena 12.000 euro. Proprio così. Ad esser precisi si parla di un versamento una tantum di 12.342,84 euro. Una cifra versata dall’Inail che cambia ogni anno perché rivalutata dal ministero del Lavoro in base all’inflazione, quindi alla variazione dei prezzi al consumo. Di questo si devono accontentare le famiglie di chi perde la vita lavorando onestamente, mentre chi ruba e muore per questo può far arrivare ai propri cari anche mezzo milione di euro. Bel messaggio che si manda ai familiari delle 784 persone morte sul lavoro solo nel 2025. Ai coniugi superstiti spetta poi il 50% dello stipendio del proprio caro, ai figli appena il 20%. Considerato che statisticamente a morire sul lavoro non ci sono grossi dirigenti, ma più che altro operai, si può dire che a queste persone già travolte dal dolore non arrivano che pochi spicci. Spicci che arrivano oltretutto solo ad alcune condizioni. Intanto per quanto riguarda i coniugi la quota di stipendio arriverà a vita, certo, ma bisogna stare attenti a fare richiesta entro 40 giorni, altrimenti si rischia di non ricevere nulla. Per quanto riguarda i figli, il 20% dello stipendio del lavoratore deceduto verrà contribuito fino ai 18 anni di età, fino ai 26 se studenti. Non oltre. Nulla verrà versato ai genitori della vittima se conviventi a meno che non si dimostri che la stessa contribuisse a mantenerli. Insomma, dolore che si aggiunge a dolore.
Anche i rapinatori uccisi da Roggero avevano dei familiari, certo, anche loro hanno diritto a soffrire per le loro perdite, ma se il valore di una morte si dovesse o potesse contare con il denaro, verrebbe da pensare che per la giustizia italiana ha più valore la vita di un delinquente che quella di un lavoratore onesto.
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Galeazzo Bignami (Ansa)
Se per il giudice che l’ha condannato a 14 anni e 9 mesi di carcere (in primo grado la Corte d’Assise di Asti gliene aveva dati 17, senza riconoscere la legittima difesa), nonché a un risarcimento milionario ai familiari dei due rapinatori uccisi (con una provvisionale immediata di circa mezzo milione di euro e le richieste totali che potrebbero raggiungere milioni) c’è stata sproporzione tra difesa e offesa, la stessa sproporzione è stata applicata nella sentenza, tra l’atto compiuto e la pena smisurata che dovrà scontare Roggero. Confermare tale condanna equivarrebbe all’ergastolo per l’anziano, solo per aver difeso la sua famiglia e sé stesso.
Una severità che ha scosso le coscienze dell’opinione pubblica nonché esasperato gli animi del Parlamento. Ma la colpa è dei giudici o della legge? Giovedì sera a Diritto e Rovescio su Rete 4 è intervenuto il deputato di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami, il quale alla Verità non ha timore nel ribadire che «qualsiasi legge si può sempre migliorare, per carità. Questa legge mette in campo tutti gli elementi che, se valutati correttamente, portano ad escludere pressoché sempre la responsabilità dell’aggredito, salvo casi esorbitanti. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare e in questo caso il mare è la magistratura», spiega Bignami, «ci sono giudici che, comprendendo il disposto di legge e lo spirito della stessa, la applicano in maniera conforme alla ratio legis e giudici che, invece, pur comprendendola, preferiscono ignorarla. Siccome questa è una legge che si ispira sicuramente a valori di destra come la difesa della vita, della famiglia, della proprietà privata e che, come extrema ratio, consente anche una risposta immediata in presenza di un pericolo imminente, certi giudici la applicano con una prospettiva non coerente con la sua finalità».
In questo caso la giustificazione di una reazione istintiva per proteggere la propria famiglia dai rapinatori non ha retto in aula. Ma oltre al rispetto della legge non è forse fondamentale anche l’etica nell’applicarla? «Su tante cose i giudici applicano le leggi sulla base delle proprie sensibilità, come in materia di immigrazione, per esempio», continua Bignami, «però ricordiamo che la legge deve essere ispirata da principi di astrattezza e generalità. Poi va applicata al caso concreto e lì vanno presi in esame tutti i fattori che connotano la condotta. L’articolo 52 parla di danno ingiusto, di pericolo attuale e proporzione tra difesa e offesa. Per pericolo attuale non si può intendere che sto lì con il cronometro a verificare se il rapinatore abbia finito di rapinarmi o se magari intenda tornare indietro con un fucile. Lo sai dopo se il pericolo è cessato e l’attualità non può essere valutata con il senno di poi. Ed anche il turbamento d’animo di chi viene aggredito non finisce con i rapinatori che escono dal negozio e chiudono la porta. Questo sentimento di turbamento è individuale e, secondo me, si riflette sulla proporzione. Vanno sempre valutate le condizioni soggettive e il vissuto della persona».
Merita ricordare, infatti, che Roggero aveva subito in passato altre 5 rapine oltre a quella in esame e che in una di quelle fu anche gonfiato di botte. La sua vita e quella della sua famiglia è compromessa, sia dal punto di vista psicologico che professionale. È imputato di omicidio volontario plurimo per aver ucciso i due rapinatori e tentato omicidio per aver ferito il terzo che faceva da palo. E sapete quanto si è preso quest’ultimo? Appena 4 anni e 10 mesi di reclusione.
La reazione emotiva del commerciante, la paura per l’incolumità dei familiari, sono attenuanti che non possono non essere considerate. Sono attimi di terrore tremendi. Se vedi tua figlia minacciata con una pistola, tua moglie trascinata e sequestrata, come minimo entri nel panico. «Intanto va detto quel che forse è così ovvio che qualcuno se n’è dimenticato: se i banditi fossero stati a casa loro, non sarebbe successo niente», prosegue Bignami, «poi penso che, se Roggero avesse avuto la certezza che quei banditi stavano fuggendo senza più tornare, non avrebbe reagito così. Lo ha fatto, come ha detto lui, perché non sapeva e non poteva immaginare se avessero davvero finito o se invece volessero tornare indietro. Facile fare previsioni a fatti già compiuti».
Ma anche i rapinatori hanno i loro diritti? «Per carità. Tutti i cittadini hanno i loro diritti ma se fai irruzione con un’arma in un negozio e minacci qualcuno, sei tu che decidi di mettere in discussione i tuoi diritti».
Sulla severità della pena e sul risarcimento faraonico, poi, Bignami è lapidario. «C’è una proposta di legge di Raffaele Speranzon, vicecapogruppo di Fratelli d’Italia al Senato, che propone di ridurre fino ad azzerare il risarcimento dovuto da chi è punito per eccesso colposo di legittima difesa».
Chi lavora e protegge la propria vita non può essere trattato come un criminale. La giustizia deve tornare a distinguere tra chi aggredisce e chi si difende.
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Ansa
La dinamica, ricostruita nelle perizie, avrebbe confermato che l’azione della ruspa aveva compromesso la struttura dell’edificio. Ma oltre a trovarsi davanti quel «mezzo di irresistibile forza», così è stata giuridicamente valutata la ruspa, si era messa di traverso pure la Procura, che aveva chiesto ai giudici di condannarlo a 4 anni di carcere. Ma ieri Sandro Mugnai, artigiano aretino accusato di omicidio volontario per essersi difeso, mentre ascoltava le parole del presidente della Corte d’assise si è messo le mani sul volto ed è scoppiato a piangere. Il fatto non sussiste: fu legittima difesa. «Finalmente faremo un Natale sereno», ha detto poco dopo, aggiungendo: «Sono stati anni difficili, ma ho sempre avuto fiducia nella giustizia. La Corte ha agito per il meglio». E anche quando la pm Laura Taddei aveva tentato di riqualificare l’accusa in eccesso colposo di legittima difesa, è prevalsa la tesi della difesa: Mugnai sparò perché stava proteggendo la sua famiglia da una minaccia imminente, reale e concreta. Una minaccia che avanzava a bordo di una ruspa. La riqualificazione avrebbe attenuato la pena, ma comunque presupponeva una responsabilità penale dell’imputato. Il caso, fin dall’inizio, era stato definito dai giuristi «legittima difesa da manuale». Una formula tanto scolastica quanto raramente facile da dimostrare in un’aula di Tribunale. La giurisprudenza richiede il rispetto di criteri stringenti: attualità del pericolo, necessità della reazione e proporzione. La sentenza mette un punto a un procedimento che ha riletto, passo dopo passo, la notte in cui l’albanese entrò nel piazzale di casa Mugnai mentre la famiglia era riunita per la cena dell’Epifania. Prima sfogò la ruspa sulle auto parcheggiate, poi diresse il mezzo contro l’abitazione, sfondando una parte della parete. La Procura ha sostenuto che, pur di fronte a un’aggressione reale e grave, l’esito mortale «poteva essere evitato». Il nodo centrale era se Mugnai avesse alternative non letali. Per la pm Taddei, quella reazione, scaturita da «banali ruggini» con il vicino, aveva superato il limite della proporzione. I difensori, gli avvocati Piero Melani Graverini e Marzia Lelli, invece, hanno martellato sul concetto di piena legittima difesa, richiamando il contesto: buio, zona isolata, panico dentro casa, il tutto precipitato «in soli sei minuti» nei quali, secondo gli avvocati, «non esisteva alcuna alternativa per proteggere i propri cari». Durante le udienze si è battuto molto sul fattore tempo ed è stata dimostrata l’impossibilità di fuga. Nel dibattimento sono stati ascoltati anche i familiari della vittima, costituiti parte civile e rappresentati dall’avvocato Francesca Cotani, che aveva chiesto la condanna dell’imputato. In aula c’era molta gente e anche la politica ha fatto sentire la sua presenza: la deputata della Lega Tiziana Nisini e Cristiano Romani, esponente del movimento Il Mondo al contrario del generale Roberto Vannacci. Entrambi si erano schierati pubblicamente con Mugnai. Nel paese c’erano anche state fiaccolate e manifestazioni di solidarietà per l’artigiano. Il fascicolo era passato attraverso momenti tortuosi: un primo giudice non aveva accolto la richiesta di condanna a 2 anni e 8 mesi e aveva disposto ulteriori accertamenti sull’ipotesi di omicidio volontario. Poi è stata disposta la scarcerazione di Mugnai. La fase iniziale è stata caratterizzata da incertezza e oscillazioni interpretative. E, così, alla lettura della sentenza l’aula è esplosa: lacrime, abbracci e applausi. Mugnai, commosso, ha detto: «Ho sparato per salvare la pelle a me e ai miei cari. Non potrò dimenticare quello che è successo, ora spero che possa cominciare una vita diversa. Tre anni difficili, pesanti». Detenzione preventiva compresa. «Oggi è un giorno di giustizia. Ma la battaglia non è finita», commenta Vannacci: «Mugnai ha fatto ciò che qualunque padre, marito, figlio farebbe davanti a un’aggressione brutale. È una vittoria di buon senso, ma anche un segnale, perché in Italia c’è ancora troppo da fare per difendere le vere vittime, quelle finite sotto processo solo perché hanno scelto di salvarsi la vita. E mentre oggi festeggiamo questo risultato, non possiamo dimenticare chi non ha avuto la stessa sorte: penso a casi come quello di Mario Roggero, il gioielliere piemontese condannato a 15 anni per aver difeso la propria attività da una rapina». «La difesa è sempre legittima e anche in questo caso, grazie a una legge fortemente voluta e approvata dalla Lega, una persona perbene che ha difeso se stesso e la sua famiglia non andrà in carcere, bene così», rivendica il segretario del Carroccio Matteo Salvini. «Questa sentenza dimostra come la norma sulla legittima difesa tuteli i cittadini che si trovano costretti a reagire di fronte a minacce reali e gravi», ha precisato il senatore leghista (componente della commissione Giustizia) Manfredi Potenti. La vita di Sandro Mugnai ricomincia adesso, fuori dall’aula. Ma con la consapevolezza che, per salvare se stesso e la sua famiglia, ha dovuto sparare e poi aspettare quasi tre anni perché qualcuno glielo riconoscesse.
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