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- Entro sabato la messa in stato d’accusa del capo dello Stato, che ha dovuto rimangiarsi la legge marziale d’emergenza. Già caduta la testa del ministro della Difesa. Ora il leader è appeso ai voti del suo partito.
- I giovani, a Seul e in tutto il Paese, hanno archiviato il blitz. E sui social il suo ideatore è il bersaglio perfetto. Gli show all’occidentale devono continuare, la politica non conta.
Lo speciale contiene due articoli.
Svolta in Corea del Sud. Il presidente, Yoon Suk Yeol, ha revocato la legge marziale che lui stesso aveva inizialmente proclamato. Nella serata di martedì, il capo dello Stato sudcoreano aveva decretato la misura d’emergenza, accusando il Partito democratico di Corea di attività anti statali. Ne erano seguite proteste, con il presidente che era stato criticato non solo delle forze politiche avversarie ma anche del suo stesso schieramento, il Partito del potere popolare. Nel giro di poche ore, l’Assemblea nazionale aveva votato per bloccare la legge marziale, mentre l’esercito aveva replicato che la misura sarebbe rimasta in vigore fino a quando il capo dello Stato non l’avesse revocata. Lo stallo istituzionale si è alla fine rotto quando Yoon Suk Yeol ha deciso di fare marcia indietro.
Nel frattempo, il ministro della Difesa, Kim Yong-hyun - considerato il vero ispiratore del controverso provvedimento - si è dimesso, dichiarando: «Tutti i soldati che hanno svolto i loro compiti in relazione alla legge marziale d’emergenza erano sotto il ministro, tutte le responsabilità ricadono su di me». Anche lo staff presidenziale ha messo sul tavolo le dimissioni. Tutto questo, mentre i partiti d’opposizione hanno presentato ieri una mozione per avviare la procedura d’impeachment contro il presidente per «comportamento insurrezionale»: il voto per la messa in stato d’accusa dovrà svolgersi entro sabato.
Per mettere in moto il procedimento, è necessario un quorum di due terzi, vale a dire almeno 200 dei 300 parlamentari dell’Assemblea nazionale. A quel punto, si celebrerebbe il processo vero e proprio davanti alla Corte costituzionale, che può rimuovere il presidente, qualora votino a favore almeno sei dei nove giudici che la compongono. L’ultimo caso di destituzione risale al 2017, quando l’allora presidentessa sudcoreana, Park Geun-hye, fu silurata per traffico di influenze. Non è però detto che stavolta ci siano i numeri parlamentari per la messa in stato d’accusa: il partito di Yoon detiene 108 seggi all’Assemblea nazionale. Se votasse compattamente contro l’impeachment, farebbe mancare il quorum di 200 voti e la procedura naufragherebbe. Bisogna quindi capire in che modo si comporterà lo schieramento politico del presidente che, come detto, si era opposto alla legge marziale.
La principale organizzazione sindacale della Corea del Sud, la Confederazione coreana dei sindacati, ha frattanto annunciato uno sciopero a tempo indeterminato fino a che il capo dello Stato non rassegnerà le proprie dimissioni. A questo punto, non è escludibile che un passo indietro di Yoon Suk Yeol possa arrivare nelle prossime ore. In quel caso, si dovrebbero tenere elezioni entro una finestra temporale di 60 giorni.
Il presidente aveva invocato la legge marziale principalmente per problemi di politica interna. L’Assemblea nazionale è infatti controllata dal Partito democratico di Corea. E, nelle ultime settimane, si erano registrati vari attriti. Non era stato possibile approvare la legge di bilancio. Inoltre, le forze di opposizione chiedevano che la moglie di Yoon, Kim Keon-hee, fosse messa sotto inchiesta per aggiotaggio, oltre che per aver ricevuto regali compromettenti. È quindi probabile che il presidente volesse cercare di uscire dall’impasse, invocando un provvedimento di emergenza che non veniva proclamato nel Paese dal lontano 1980. Alla fine, Yoon ha ceduto. E probabilmente, nella sua marcia indietro, hanno pesato anche le pressioni di Washington, che - nella nottata di martedì - aveva espresso sorpresa e preoccupazione.
Non a caso, ieri il segretario di Stato americano, Tony Blinken, ha detto che gli Usa hanno accolto positivamente la revoca della legge marziale. D’altronde, Washington teme che il caos esploso in Corea del Sud possa incoraggiare il regime di Pyongyang a condurre qualche blitz militare. Ricordiamo che la Corea del Nord ha significativamente rafforzato i propri legami con la Russia nel settore della Difesa: proprio ieri, il segretario generale della Nato, Mark Rutte, ha accusato Mosca di supportare il programma nucleare di Pyongyang. Quella stessa Pyongyang le cui truppe sono state di recente schierate in Ucraina a sostegno delle forze di Mosca.
Tra l’altro, appena venerdì scorso, il ministro della Difesa russo, Andrei Belousov, si è recato in visita in Corea del Nord, per incontrarne l’establishment politico-militare. Inoltre, gli Stati Uniti si trovano, al momento, nel pieno della transizione presidenziale. Senza infine trascurare che l’inquilino della Casa Bianca uscente, Joe Biden, ha notevolmente azzoppato la capacità di deterrenza statunitense a seguito della sua pessima gestione del ritiro afgano.
Insomma, tutta questa serie di fattori potrebbe spingere Kim Jong Un a osare. D’altronde, l’invasione con cui il regime di Pyongyang diede il via alla guerra di Corea nel 1950 fu un atto improvviso e senza formale dichiarazione di guerra. Va detto che la politica sudcoreana è storicamente turbolenta e che Yoon non è il primo presidente controverso del Paese. Quello che preoccupa è però il fatto che questa crisi politica sia esplosa in un contesto internazionale che offre una finestra di opportunità al regime di Pyongyang. Del resto, al di là di un’eventuale invasione più o meno limitata, Kim Jong Un potrebbe sfruttare il caos politico sudcoreano dal punto di vista propagandistico. Una simile situazione spiega la preoccupazione mostrata da Washington nelle ultime 48 ore. La Corea del Sud rappresenta d’altronde uno dei pilastri dell’influenza americana in Estremo Oriente.
La Gen-K è già tornata alla normalità
Nel 2013, Coup d’Etat di G-Dragon reinterpretava il concetto di colpo di Stato come rivoluzione personale e culturale, una presa di potere che non implicava l’esercito, ma una rivendicazione di dominio sulla scena globale attraverso l’arte. A distanza di più di un decennio, la parola «colpo di Stato» ha risuonato ancora, seppur in un contesto radicalmente diverso, con l’annuncio improvviso del presidente Yoon Suk Yeol, che martedì ha dichiarato la legge marziale in Corea del Sud.
Il Paese, che ormai da anni rappresenta una delle potenze culturali più influenti al mondo grazie alla Hallyu, l’«onda coreana» nella cultura di massa, ha visto un’interruzione brusca del suo pulsante settore dell’intrattenimento. La Corea del Sud, con il K-pop, i K-drama e il cinema che hanno varcato i confini internazionali, non è più solo una nazione con una forte economia, ma anche un simbolo di soft power. Le opere culturali coreane come Parasite, Squid game e i successi musicali dei Bts hanno avuto un impatto profondo, consolidando l’immagine positiva della Corea a livello globale.
La dichiarazione di emergenza di Yoon ha sconvolto il panorama culturale del Paese, con la cancellazione e il rinvio di eventi promozionali di film e concerti già programmati. La pellicola One win, ad esempio, ha annullato la sua promozione del giorno dopo a causa di «circostanze inevitabili», così come Firefighters ha rinviato la presentazione. La situazione ha creato incertezze anche nel settore musicale, con i concerti sospesi di artisti come Lee Seung-hwan.
Nonostante l’instabilità politica, durata solo poche ore, l’industria dell’intrattenimento ha dato segni di resilienza. La maggior parte degli eventi, come i concerti di Dua Lipa, Charlie Puth e Yoasobi sono ripresi senza ulteriori interruzioni, ripristinando la normalità in un Paese che ha la capacità di adattarsi rapidamente. Questa rapidità di reazione è tipica di una società famosa per il suo approccio «palli-palli» (veloce-veloce), che consente di superare crisi apparentemente devastanti. E il Paese del veloce-veloce, che ha visto solo un intoppo dei servizi di messaggistica come KakaoTalk, ha ora nel non riuscito «coup d’Etat» un nuovo stimolo creativo. Sono migliaia i meme che circolano sulle piattaforme sudcoreane e che prendono di mira Yoon Suk Yeol, ma anche la first lady. I più maliziosi parlano di «un presidente ubriaco», che ha reagito in modo esagerato all’ennesimo scandalo che avrebbe coinvolto la sua metà (rea di messaggi di dubbio contenuto con una controversa parte politica).
Nonostante l’impatto iniziale di questi eventi, la Gen-K, che ha visto crescere le proprie radici nella cultura popolare e nell’intrattenimento, non si è concentrata sulla politica. Il colpo di Stato di martedì notte è già acqua passata. Il dibattito è tornato rapidamente a temi più «leggeri», come la disputa sul marchio del gruppo K-pop The Boyz, dopo l’addio alla loro agenzia storica. Questo cambio rapido di focus evidenzia come la Generazione K non sia solo un prodotto di un fenomeno culturale, ma un movimento che guarda oltre i confini della politica nazionale, abbracciando il soft power che ha trasformato la Corea del Sud in un faro di influenza globale.
La Hallyu wave, che è andata oltre il semplice intrattenimento per diventare una forma di diplomazia culturale, rimane al centro di questa rivoluzione culturale, che non si lascia intimidire dalle turbolenze politiche interne, è il vero motore della Corea del Sud, capace di resistere alle sfide senza rinunciare al suo posto di leadership sulla scena mondiale.
«In Ungheria un eroe». Così il primo ministro ungherese, dal palco della trentaseiesima edizione di Pontida rinnova il sostegno e l'alleanza con il leader leghista. Tra i temi discussi, il sovranismo europeo e un attacco deciso all'Europa definita «un posto peggiore rispetto a dieci anni fa».
Il pratone di Pontida ha ospitato il trentaseiesimo raduno della Lega, un appuntamento cruciale per il partito di Matteo Salvini, reso ancora più significativo dalla presenza di un ospite internazionale di spicco, il primo ministro ungherese Viktor Orban. Accolto con entusiasmo da una folla di militanti e sostenitori, Orban ha partecipato alla manifestazione come simbolo di un'alleanza sempre più stretta tra le forze sovraniste europee, e in rappresentanza di una visione condivisa su temi come la difesa dei confini nazionali, la lotta all’immigrazione illegale e la critica serrata all’Unione Europea.
Sul palco di Pontida, il discorso di Orban è stato un tributo aperto a Salvini, definito «un eroe» per il suo operato nel 2019, quando da ministro dell'Interno chiuse i porti italiani alle navi delle ONG, tra cui la Open Arms. «In Ungheria festeggiamo Salvini come un eroe, perché ha chiuso i confini e difeso le case degli italiani. Anzi, ha difeso l'intera Europa», ha affermato Orban, suscitando forti applausi dalla platea leghista. Secondo il premier ungherese, il leader della Lega non solo meriterebbe elogi, ma un’onorificenza per il suo impegno nel proteggere l’Italia e l’Europa dalla pressione migratoria. Di contro, Orban ha duramente condannato il processo in corso contro Salvini per il caso Open Arms, definendolo «una vergogna della sinistra e di tutta l'Europa», attribuendo la colpa di tale procedimento ai partiti e ai burocrati europei, accusati di voler punire chi difende i confini nazionali.
Il premier ungherese ha proseguito il suo intervento toccando temi cari al sovranismo europeo. «Noi non facciamo entrare i migranti illegali, varcare un confine senza permesso è un reato», ha dichiarato con fermezza. L’Ungheria, ha sottolineato Orban, rappresenta un modello per chi difende la sovranità nazionale: «In Ungheria il numero dei migranti è zero. Non permettiamo che venga cambiata la nostra cultura. Se Bruxelles continuerà a punirci per questo, porteremo i migranti davanti agli uffici dell’Unione Europea». Il messaggio è chiaro: l’Ungheria non cederà alle pressioni delle istituzioni comunitarie né alla redistribuzione dei migranti.
Orban ha poi lanciato un attacco frontale all’Unione Europea e ai suoi rappresentanti, accusandoli di aver tradito i principi originari dell'integrazione europea, nati per garantire la pace. «Bruxelles è divenuta parte belligerante», ha detto riferendosi al ruolo dell’UE nel conflitto tra Russia e Ucraina. «L’Europa è un posto peggiore di dieci anni fa», ha proseguito, indicando come la politica dei burocrati stia distruggendo le economie nazionali e allontanando il continente dalla pace. Tuttavia, Orban ha respinto l'idea di un'uscita dall'Unione, dichiarando che la soluzione non sia il ritiro, ma una battaglia interna: «Non dobbiamo uscire da Bruxelles, ma entrare con forza, deve essere occupata, tolta ai burocrati e ridata alla gente europea». Questo concetto di “occupare Bruxelles” non è una semplice retorica, ma un progetto politico per riformare le istituzioni comunitarie dall'interno, restituendole ai popoli sovrani che, secondo Orban, sono stati esautorati.
Il premier ungherese ha concluso il suo intervento riaffermando una visione conservatrice delle politiche sociali, sottolineando i valori della famiglia tradizionale: «In Ungheria, il padre è uomo e la madre è donna, e questo resta così, anche se la sinistra internazionale si oppone». La difesa della “famiglia naturale” e della sicurezza interna viene quindi posta come pilastro della politica di Orban, il quale ha affermato con orgoglio che «oggi l’Ungheria è il paese più sicuro d’Europa». La sicurezza, secondo il premier ungherese, passa non solo dalla gestione rigida dei confini ma anche dalla preservazione dell’identità culturale e morale della nazione.
Il leader della Lega ha poi ripreso i temi già sollevati da Orban, concentrandosi sulle questioni di autonomia e sovranità. Salvini ha celebrato la recente approvazione dell’autonomia differenziata, definendola «il futuro, il merito, l’efficienza» e ha sottolineato come la Lega, dopo 30 anni di battaglie, abbia finalmente raggiunto un obiettivo fondamentale per il partito. E riguardo alla legge di bilancio, Salvini ha ribadito il suo impegno a favore delle classi lavoratrici, affermando che «se qualcuno deve pagare qualcosa in più, paghino i banchieri, non gli operai». La sua visione di una cittadinanza “meritata” è stata nuovamente al centro del discorso del leader leghista, con una dura presa di posizione contro chi delinque: «Se tradisci questa fiducia, la soluzione è solo una: via la cittadinanza e torna al tuo paese. Non abbiamo bisogno di altri delinquenti».
L'atmosfera sul pratone di Pontida è stata segnata da un forte senso di unità e determinazione. Le bandiere regionali, gli slogan in difesa di Salvini e i cori che inneggiavano alla libertà nazionale hanno dominato la scena, testimoniando un clima di sostegno incondizionato. «Possono arrestare me, ma non un intero popolo», ha concluso Salvini, facendo eco alle recenti vicende giudiziarie che lo vedono coinvolto.





