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2020-08-23
Continuano gli arrivi. I sindaci Pd-M5s non vogliono mollare sui divieti di sbarco
Ansa
Nonostante i trasferimenti disposti dalla Prefettura di Agrigento l'hotspot di Lampedusa resta una scatoletta per sardine: al suo interno ci sono ancora oltre 1.100 immigrati ammassati. Ma oltre ai rischi sanitari, con questi numeri è inevitabile qualche problema di ordine pubblico. Mettere una accanto all'altra etnie incompatibili è stata l'ennesima leggerezza di chi dovrebbe governare l'accoglienza. E ieri è scoppiata una violenta rissa, con tanto di sassaiola, tra libici e somali. I dissapori sono sorti perché, a quanto pare, entrambe le fazioni rivendicavano che i loro rispettivi spazi non fossero violati dagli immigrati di altre etnie. Inoltre sembra che i somali non gradissero che le loro donne fossero avvicinate dai libici. Per fortuna non ci sono stati feriti, perché il reparto mobile della polizia è intervenuto con tempestività riportando la calma. Ma l'episodio ha messo in luce tutti i limiti di un sistema d'accoglienza ormai collassato e abbandonato nelle sole mani delle forze dell'ordine. I mal di pancia, però, non si registrano solo all'interno dell'hotspot. L'altra notte un incendio, quasi certamente doloso, ha distrutto l'imbarcazione El Peskador, simbolo dell'accoglienza e della fraternità, installata nel belvedere del quartiere San Francesco, a Favara. Il barchino era stato eretto lì dai frati minori del convento di Sant'Antonio nel dicembre 2015, come emblema dell'accoglienza. È andato in fumo al pari del sistema d'accoglienza italiano, che non riesce a impedire gli approdi, non avvia i rimpatri (come aveva promesso il governo giallorosso) e non riesce a gestire i trasferimenti. La Prefettura di Agrigento continua ad annunciare soluzioni per alleggerire l'hotspot. Ieri, dopo l'ultimo sbarco notturno (l'undicesimo approdo negli ultimi due giorni) di 16 tunisini, 80 immigrati sono stati trasferiti con due motovedette a Porto Empedocle. Verranno poi dislocati nelle strutture d'accoglienza di Palermo e Catania. Altri due mezzi navali, uno della Guardia di finanza con 28 persone a bordo e l'altro della Guardia costiera con 38, hanno trasferito 66 immigrati a Pozzallo. Dal porto sono poi stati trasferiti in pullman a Caltanissetta per effettuare la quarantena. Altri 45 dovrebbero lasciare Lampedusa oggi per il centro d'accoglienza di Caltanissetta. I numeri, però, sono ancora molto esigui. Il sindaco dem di Trapani, Giacomo Tranchida, resta fermo sul suo no allo sbarco: «Bisogna che il governo eviti come avvenuto a Trapani la presenza di più navi. Io spero che nelle prossime ore con fermezza si vada a rimpatriare gran parte dei tunisini che non possono vantare titolo e diritto di tutela internazionale. E poi si deve dare garanzia all'opinione pubblica». Garanzie di questo tipo, però, non ne arrivano. Come dimostra il pasticcio di Augusta, dove alla fine, dopo una riunione del Comitato per l'ordine e la sicurezza pubblica a Siracusa, il sindaco pentastellato Cettina Di Pietro ha dato il via libera all'approdo della nave Aurelia, partita da Lampedusa con 250 immigrati a bordo. Ma solo perché ha ricevuto rassicurazioni che dalla nave sarebbero scesi solo i soggetti negativi al tampone (i 19 positivi rimarranno a bordo). In più la pentastellata ha ottenuto che una volta sbarcati saranno subito portati con degli autobus fuori dalla provincia siracusana. «Vi lavate la coscienza dicendo che con i pullman li mandate in altre province, lei ha il dovere di difendere il territorio da questa invasione incontrollata e costosa. Si occupi dei suoi concittadini bisognosi e si impegni a bloccare questi arrivi di clandestini», l'ha attaccata sulla sua pagina Facebook Gaetano Giuseppe Cavallaro, che sui social si presenta come un ex dipendente del ministero della Difesa. Ma è sulla «coerenza» che la Di Pietro si è beccata una valanga di commenti negativi. Ieri, contattata ripetutamente dalla Verità, ha preferito liquidare la questione rinviando al suo post in cui cantava vittoria per non aver accolto gli immigrati. Da brava pentastellata ha cercato di ribaltare la frittata: «Per quanti in queste ore stanno strumentalizzando la vicenda, ricordo che nel nostro porto commerciale, una intera area, dal 2013 al 2018, è stata stabilmente utilizzata come punto di sbarco e primo soccorso, nonché hotspot di fatto. Nulla di paragonabile con le operazioni che si stanno svolgendo stamattina. Ho condotto una vera e propria battaglia per restituire il porto alla sua naturale funzione. Battaglia vinta. L'area del porto commerciale è stata interamente sgombrata e migranti qui non ne sono sbarcati più, dopo essere stati il primo porto in Europa per arrivi». Ma anche in questo caso si è presa i rimbrotti dei suoi elettori: «La terminologia usata per affrontare il fenomeno migratorio parla da sé», commenta Maria Grazia Patania, molto attiva sui temi dell'immigrazione: «Battaglia vinta. Sgombero. Migranti qui non ne sono sbarcati più. Complimenti vivissimi davvero. Ora sì che abbiamo risolto i problemi del territorio». Il territorio siciliano, però, sembra essere sfuggito di mano. Ieri un albergo abbandonato in contrada Boscopiano a Vittoria, nel Ragusano, è stato occupato abusivamente da un gruppo di immigrati. I residenti della zona hanno presentato un esposto alla Procura, denunciando degrado e problemi di ordine pubblico. «Decine di infetti, decine di fuggiti, vergognose minacce e pressioni ai sindaci di Trapani (Pd) e Augusta (M5s) per far sbarcare i clandestini dalla nave quarantena. Romanzo criminale o governo criminale?», denuncia il leader della Lega Matteo Salvini.
L’Italia è ridotta a campo profughi e dall’Ue non si sente manco un fiato
Una delle frasi classiche tratte dal lessico dei vecchi comunisti, ogni volta che dovevano giustificare un repentino cambio di comportamento e di atteggiamento politico, era: «È cambiato il contesto». Ecco, quello stesso escamotage lessicale tornerà forse utile anche agli eurolirici nostrani per giustificare la radicale conversione a U dell'Unione Europea in materia di immigrazione.
L'estate scorsa, ai tempi di Matteo Salvini ministro degli Interni, non passava giorno senza che le autorità Ue facessero sentire la loro voce e il loro sdegno, criticando la linea rigorista italiana. In effetti, dal loro punto di vista, proprio il giro di vite deciso dall'allora titolare del Viminale aveva deviato e allontanato dall'Italia i principali flussi di immigrazione incontrollata e clandestina.
E quando non parlavano direttamente gli uomini di Bruxelles, a sparare a palle incatenate contro l'Italia provvedevano i singoli governi nazionali. Si distinse la Francia, con il soave Emmanuel Macron («I sovranismi li vedete crescere come una lebbra un po' ovunque in Europa»), superato in volgarità solo dal portavoce del suo partito, tale Gabriel Attal, che arrivò a definire «vomitevole» la politica italiana in materia di barconi.
Questa estate, improvvisamente, da Bruxelles a Parigi a Berlino, devono aver perso la voce, o magari devono aver finito i giga sul telefonino. A meno che - questa è probabilmente l'ipotesi insieme più realistica e più umiliante per noi - i nostri partner non siano finalmente soddisfatti del fatto che un governo amico e gradito, qual è per loro il Conte due, abbia reso di nuovo l'Italia un campo profughi.
Eppure, ogni giorno le cronache offrono squarci letteralmente drammatici, che non dovrebbero lasciare insensibili cuori tanto delicati come quelli dei nostri amici europei. È di poco più di ventiquattr'ore fa l'ultima scena, dolorosa e quasi infernale, avvenuta nell'hotspot di Lampedusa, con uno scontro terminato con lanci di pietre tra libici e somali. È toccato alle forze dell'ordine riportare la calma in un autentico girone dantesco: 1.500 immigrati assiepati in una struttura concepita per contenerne 192, più il caldo rovente, più le tensioni tra etnie e gruppi nazionali. In questo caso, a quanto pare, i due gruppi non volevano invasioni dei loro piccoli spazi da parte di migranti di altra nazionalità, e per giunta i somali non gradivano alcuna vicinanza tra le loro donne e i libici.
Ora, qualunque essere umano, a prescindere dalle proprie opinioni in materia di politica sull'immigrazione, non può che provare pena profonda per una situazione simile, lontanissima da qualunque standard accettabile in materia di diritti umani. Eppure stavolta il silenzio regna sovrano: non una parola, non una sillaba, non un sospiro dall'Europa.
La realtà è che è stata clamorosamente smascherata la maxiballa della collaborazione Ue su questo fronte. Ricordate il mitico «accordo di Malta», quando ci si promise che non saremmo più stati soli? Che fine ha fatto? In quale cestino è finito?
Improvvisamente, qualche mese fa, perfino il ministro degli Interni Luciana Lamorgese, a lungo celebrata dai mainstream media proprio per quell'intesa, sembrò essersi accorta del clamoroso rischio di fregatura nascosto nell'accordo. Al termine di un Consiglio affari interni a Bruxelles a inizio marzo, la titolare del Viminale ammise mestamente: «Non possiamo pensare di avere il principio di solidarietà tra tutti gli stati per quanto riguarda la redistribuzione dei migranti». E ancora: «Lo sapete bene anche voi, non è sempre un principio sentito come un principio europeo: perché alla fine c'è una parte di paesi che non vuole mai sentir parlare di una ripartizione obbligatoria».
Ma guarda: si tratta esattamente di ciò che La Verità e gli osservatori più disincantati avevano sostenuto da molto tempo prima, sin dal momento del varo dello strombazzato accordo. Questo giornale spiegò da subito alcune cose: che l'accordo era temporaneo («temporary arrangement»); che era su base volontaria, e non c'era modo di forzare i paesi Ue ad aderirvi; che riguardava i migranti presi in carico dalle navi Ong (circa il 9% di quelli arrivati nell'ultimo anno in Italia: tutti gli altri sarebbero rimasti a carico nostro); che i migranti soccorsi da navi statali dovevano essere sempre sbarcati nello stato di bandiera (immaginate dove); che se avessero aderito anche paesi come la Spagna, ci saremmo pure dovuti far carico delle loro quote, esponenzialmente cresciute nelle ultime due estati; che la sperimentazione sarebbe durata sei mesi, ma se i numeri fossero cresciuti troppo («substantially rise»), ci sarebbero state consultazioni tra i paesi firmatari, e nel frattempo l'intero meccanismo sarebbe potuto essere sospeso. Era la ragione per cui - senza pietà verso l'Italia e i nostri governanti che ancora brindavano - la stampa francese (Le Figaro in testa) fin dal primo giorno aveva definito l'accordo «revocable».
Morale: a numeri bassi, com'è accaduto nei mesi invernali, anche gli altri paesi hanno avuto interesse a far bella figura a costo irrisorio. Ma con il prevedibile ritorno dei numeri elevati, l'Italia si è ritrovata con i problemi di sempre. Aggravati dagli inequivocabili segnali psicologici e politici sciaguratamente forniti dal governo: la sanatoria per un verso, e la disapplicazione dei decreti Salvini per altro verso.
Lo stesso Salvini che il 3 ottobre prossimo andrà a processo proprio per una di queste vicende. Il mondo alla rovescia: il ministro che ha difeso i confini del suo paese, peraltro applicando un punto del proprio programma, finisce alla sbarra; mentre il governo che «piace» in Ue, dopo le pacche sulle spalle dei mesi scorsi, incassa ora l'indifferenza e il menefreghismo dei partner Ue.
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Riduci
Il primo cittadino dem di Trapani: «I tunisini vanno rimpatriati». Ad Augusta a terra solo i negativi. A Lampedusa stipati in mille.L'Italia è ridotta a campo profughi e dall'Ue non si sente manco un fiato. Con Matteo Salvini al Viminale, le forze europeiste avevano gli sbarchi sulle nostre coste in cima alla loro agenda Giuseppi ha spalancato i porti trasformando alcune zone del Paese in terzo mondo, ma ora Bruxelles tace.Lo speciale comprende due articoli. Nonostante i trasferimenti disposti dalla Prefettura di Agrigento l'hotspot di Lampedusa resta una scatoletta per sardine: al suo interno ci sono ancora oltre 1.100 immigrati ammassati. Ma oltre ai rischi sanitari, con questi numeri è inevitabile qualche problema di ordine pubblico. Mettere una accanto all'altra etnie incompatibili è stata l'ennesima leggerezza di chi dovrebbe governare l'accoglienza. E ieri è scoppiata una violenta rissa, con tanto di sassaiola, tra libici e somali. I dissapori sono sorti perché, a quanto pare, entrambe le fazioni rivendicavano che i loro rispettivi spazi non fossero violati dagli immigrati di altre etnie. Inoltre sembra che i somali non gradissero che le loro donne fossero avvicinate dai libici. Per fortuna non ci sono stati feriti, perché il reparto mobile della polizia è intervenuto con tempestività riportando la calma. Ma l'episodio ha messo in luce tutti i limiti di un sistema d'accoglienza ormai collassato e abbandonato nelle sole mani delle forze dell'ordine. I mal di pancia, però, non si registrano solo all'interno dell'hotspot. L'altra notte un incendio, quasi certamente doloso, ha distrutto l'imbarcazione El Peskador, simbolo dell'accoglienza e della fraternità, installata nel belvedere del quartiere San Francesco, a Favara. Il barchino era stato eretto lì dai frati minori del convento di Sant'Antonio nel dicembre 2015, come emblema dell'accoglienza. È andato in fumo al pari del sistema d'accoglienza italiano, che non riesce a impedire gli approdi, non avvia i rimpatri (come aveva promesso il governo giallorosso) e non riesce a gestire i trasferimenti. La Prefettura di Agrigento continua ad annunciare soluzioni per alleggerire l'hotspot. Ieri, dopo l'ultimo sbarco notturno (l'undicesimo approdo negli ultimi due giorni) di 16 tunisini, 80 immigrati sono stati trasferiti con due motovedette a Porto Empedocle. Verranno poi dislocati nelle strutture d'accoglienza di Palermo e Catania. Altri due mezzi navali, uno della Guardia di finanza con 28 persone a bordo e l'altro della Guardia costiera con 38, hanno trasferito 66 immigrati a Pozzallo. Dal porto sono poi stati trasferiti in pullman a Caltanissetta per effettuare la quarantena. Altri 45 dovrebbero lasciare Lampedusa oggi per il centro d'accoglienza di Caltanissetta. I numeri, però, sono ancora molto esigui. Il sindaco dem di Trapani, Giacomo Tranchida, resta fermo sul suo no allo sbarco: «Bisogna che il governo eviti come avvenuto a Trapani la presenza di più navi. Io spero che nelle prossime ore con fermezza si vada a rimpatriare gran parte dei tunisini che non possono vantare titolo e diritto di tutela internazionale. E poi si deve dare garanzia all'opinione pubblica». Garanzie di questo tipo, però, non ne arrivano. Come dimostra il pasticcio di Augusta, dove alla fine, dopo una riunione del Comitato per l'ordine e la sicurezza pubblica a Siracusa, il sindaco pentastellato Cettina Di Pietro ha dato il via libera all'approdo della nave Aurelia, partita da Lampedusa con 250 immigrati a bordo. Ma solo perché ha ricevuto rassicurazioni che dalla nave sarebbero scesi solo i soggetti negativi al tampone (i 19 positivi rimarranno a bordo). In più la pentastellata ha ottenuto che una volta sbarcati saranno subito portati con degli autobus fuori dalla provincia siracusana. «Vi lavate la coscienza dicendo che con i pullman li mandate in altre province, lei ha il dovere di difendere il territorio da questa invasione incontrollata e costosa. Si occupi dei suoi concittadini bisognosi e si impegni a bloccare questi arrivi di clandestini», l'ha attaccata sulla sua pagina Facebook Gaetano Giuseppe Cavallaro, che sui social si presenta come un ex dipendente del ministero della Difesa. Ma è sulla «coerenza» che la Di Pietro si è beccata una valanga di commenti negativi. Ieri, contattata ripetutamente dalla Verità, ha preferito liquidare la questione rinviando al suo post in cui cantava vittoria per non aver accolto gli immigrati. Da brava pentastellata ha cercato di ribaltare la frittata: «Per quanti in queste ore stanno strumentalizzando la vicenda, ricordo che nel nostro porto commerciale, una intera area, dal 2013 al 2018, è stata stabilmente utilizzata come punto di sbarco e primo soccorso, nonché hotspot di fatto. Nulla di paragonabile con le operazioni che si stanno svolgendo stamattina. Ho condotto una vera e propria battaglia per restituire il porto alla sua naturale funzione. Battaglia vinta. L'area del porto commerciale è stata interamente sgombrata e migranti qui non ne sono sbarcati più, dopo essere stati il primo porto in Europa per arrivi». Ma anche in questo caso si è presa i rimbrotti dei suoi elettori: «La terminologia usata per affrontare il fenomeno migratorio parla da sé», commenta Maria Grazia Patania, molto attiva sui temi dell'immigrazione: «Battaglia vinta. Sgombero. Migranti qui non ne sono sbarcati più. Complimenti vivissimi davvero. Ora sì che abbiamo risolto i problemi del territorio». Il territorio siciliano, però, sembra essere sfuggito di mano. Ieri un albergo abbandonato in contrada Boscopiano a Vittoria, nel Ragusano, è stato occupato abusivamente da un gruppo di immigrati. I residenti della zona hanno presentato un esposto alla Procura, denunciando degrado e problemi di ordine pubblico. «Decine di infetti, decine di fuggiti, vergognose minacce e pressioni ai sindaci di Trapani (Pd) e Augusta (M5s) per far sbarcare i clandestini dalla nave quarantena. Romanzo criminale o governo criminale?», denuncia il leader della Lega Matteo Salvini.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/continuano-gli-arrivi-i-sindaci-pd-m5s-non-vogliono-mollare-sui-divieti-di-sbarco-2647061371.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="litalia-e-ridotta-a-campo-profughi-e-dallue-non-si-sente-manco-un-fiato" data-post-id="2647061371" data-published-at="1598128101" data-use-pagination="False"> L’Italia è ridotta a campo profughi e dall’Ue non si sente manco un fiato Una delle frasi classiche tratte dal lessico dei vecchi comunisti, ogni volta che dovevano giustificare un repentino cambio di comportamento e di atteggiamento politico, era: «È cambiato il contesto». Ecco, quello stesso escamotage lessicale tornerà forse utile anche agli eurolirici nostrani per giustificare la radicale conversione a U dell'Unione Europea in materia di immigrazione. L'estate scorsa, ai tempi di Matteo Salvini ministro degli Interni, non passava giorno senza che le autorità Ue facessero sentire la loro voce e il loro sdegno, criticando la linea rigorista italiana. In effetti, dal loro punto di vista, proprio il giro di vite deciso dall'allora titolare del Viminale aveva deviato e allontanato dall'Italia i principali flussi di immigrazione incontrollata e clandestina. E quando non parlavano direttamente gli uomini di Bruxelles, a sparare a palle incatenate contro l'Italia provvedevano i singoli governi nazionali. Si distinse la Francia, con il soave Emmanuel Macron («I sovranismi li vedete crescere come una lebbra un po' ovunque in Europa»), superato in volgarità solo dal portavoce del suo partito, tale Gabriel Attal, che arrivò a definire «vomitevole» la politica italiana in materia di barconi. Questa estate, improvvisamente, da Bruxelles a Parigi a Berlino, devono aver perso la voce, o magari devono aver finito i giga sul telefonino. A meno che - questa è probabilmente l'ipotesi insieme più realistica e più umiliante per noi - i nostri partner non siano finalmente soddisfatti del fatto che un governo amico e gradito, qual è per loro il Conte due, abbia reso di nuovo l'Italia un campo profughi. Eppure, ogni giorno le cronache offrono squarci letteralmente drammatici, che non dovrebbero lasciare insensibili cuori tanto delicati come quelli dei nostri amici europei. È di poco più di ventiquattr'ore fa l'ultima scena, dolorosa e quasi infernale, avvenuta nell'hotspot di Lampedusa, con uno scontro terminato con lanci di pietre tra libici e somali. È toccato alle forze dell'ordine riportare la calma in un autentico girone dantesco: 1.500 immigrati assiepati in una struttura concepita per contenerne 192, più il caldo rovente, più le tensioni tra etnie e gruppi nazionali. In questo caso, a quanto pare, i due gruppi non volevano invasioni dei loro piccoli spazi da parte di migranti di altra nazionalità, e per giunta i somali non gradivano alcuna vicinanza tra le loro donne e i libici. Ora, qualunque essere umano, a prescindere dalle proprie opinioni in materia di politica sull'immigrazione, non può che provare pena profonda per una situazione simile, lontanissima da qualunque standard accettabile in materia di diritti umani. Eppure stavolta il silenzio regna sovrano: non una parola, non una sillaba, non un sospiro dall'Europa. La realtà è che è stata clamorosamente smascherata la maxiballa della collaborazione Ue su questo fronte. Ricordate il mitico «accordo di Malta», quando ci si promise che non saremmo più stati soli? Che fine ha fatto? In quale cestino è finito? Improvvisamente, qualche mese fa, perfino il ministro degli Interni Luciana Lamorgese, a lungo celebrata dai mainstream media proprio per quell'intesa, sembrò essersi accorta del clamoroso rischio di fregatura nascosto nell'accordo. Al termine di un Consiglio affari interni a Bruxelles a inizio marzo, la titolare del Viminale ammise mestamente: «Non possiamo pensare di avere il principio di solidarietà tra tutti gli stati per quanto riguarda la redistribuzione dei migranti». E ancora: «Lo sapete bene anche voi, non è sempre un principio sentito come un principio europeo: perché alla fine c'è una parte di paesi che non vuole mai sentir parlare di una ripartizione obbligatoria». Ma guarda: si tratta esattamente di ciò che La Verità e gli osservatori più disincantati avevano sostenuto da molto tempo prima, sin dal momento del varo dello strombazzato accordo. Questo giornale spiegò da subito alcune cose: che l'accordo era temporaneo («temporary arrangement»); che era su base volontaria, e non c'era modo di forzare i paesi Ue ad aderirvi; che riguardava i migranti presi in carico dalle navi Ong (circa il 9% di quelli arrivati nell'ultimo anno in Italia: tutti gli altri sarebbero rimasti a carico nostro); che i migranti soccorsi da navi statali dovevano essere sempre sbarcati nello stato di bandiera (immaginate dove); che se avessero aderito anche paesi come la Spagna, ci saremmo pure dovuti far carico delle loro quote, esponenzialmente cresciute nelle ultime due estati; che la sperimentazione sarebbe durata sei mesi, ma se i numeri fossero cresciuti troppo («substantially rise»), ci sarebbero state consultazioni tra i paesi firmatari, e nel frattempo l'intero meccanismo sarebbe potuto essere sospeso. Era la ragione per cui - senza pietà verso l'Italia e i nostri governanti che ancora brindavano - la stampa francese (Le Figaro in testa) fin dal primo giorno aveva definito l'accordo «revocable». Morale: a numeri bassi, com'è accaduto nei mesi invernali, anche gli altri paesi hanno avuto interesse a far bella figura a costo irrisorio. Ma con il prevedibile ritorno dei numeri elevati, l'Italia si è ritrovata con i problemi di sempre. Aggravati dagli inequivocabili segnali psicologici e politici sciaguratamente forniti dal governo: la sanatoria per un verso, e la disapplicazione dei decreti Salvini per altro verso. Lo stesso Salvini che il 3 ottobre prossimo andrà a processo proprio per una di queste vicende. Il mondo alla rovescia: il ministro che ha difeso i confini del suo paese, peraltro applicando un punto del proprio programma, finisce alla sbarra; mentre il governo che «piace» in Ue, dopo le pacche sulle spalle dei mesi scorsi, incassa ora l'indifferenza e il menefreghismo dei partner Ue.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
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Merito-Dicembre-2025.pdf
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