2025-11-21
Azzerate le ipocrisie sul Quirinale: nemmeno il suo è un potere neutro
Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella (Ansa)
Un tempo la sinistra invocava le dimissioni (Leone) e l’impeachment (Cossiga) dei presidenti. Poi, volendo blindarsi nel «deep State», ne ha fatto dei numi tutelari. La verità è che anche loro agiscono da politici.Ci voleva La Verità per ricordare che nessun potere è asettico. Nemmeno quello del Quirinale, che, da quando è espressione dell’area politico-culturale della sinistra, pare trasfigurato in vesti candide sul Tabor. Il caso Garofani segnala che un’autorità, compresa quella che si presenta sotto l’aura della sterilità, è invece sempre manifestazione di una volontà, di un interesse, di un’idea. Dietro l’arbitro, c’è l’arbitrio. In certi casi, lo si può e lo si deve esercitare con spirito equanime.Per la Costituzione, il presidente della Repubblica «rappresenta l’unità nazionale», mica l’egemonia di una parte sull’altra. Ma non è un pupazzo. La Carta gli attribuisce importanti facoltà e, in un contesto di crisi del sistema, la sua figura ha guadagnato una posizione centrale, con interpretazioni del ruolo e dell’estensione di quelle prerogative non sempre pacifiche.L’esempio più eclatante fu Giorgio Napolitano, nei giorni della tempesta dello spread, delle telefonate di Angela Merkel e della caduta di Silvio Berlusconi. Sergio Mattarella non ha rinunciato a prendere posizioni nette. Ha accettato per la seconda volta nella storia il doppio mandato, che però per la prima volta non prevede dimissioni anticipate. Dunque, ha trasformato un’apparente anomalia in una prassi. Si è riservato un controllo stringente sulle liste dei ministri, tale da spingere l’ancora gruppettaro Luigi Di Maio a minacciarne la messa in stato d’accusa, nel 2018, allorché il Colle bocciò la nomina di Paolo Savona al dicastero dell’Economia. E quando cadde il Conte bis, Mattarella convocò a Palazzo Chigi Mario Draghi, perché, a suo avviso, durante la pandemia non si poteva andare a votare. Decisioni che un potere neutro, cerimoniale, non potrebbe prendere.Chiariamoci: se il capo dello Stato non è un «notaio», non è nemmeno incriticabile. È logico supporre che si tenga fuori dalle piccole beghe quotidiane; è altrettanto legittimo immaginare che non sia infallibile per diritto divino. Perciò la stampa non si astiene dall’indicare le eventuali sbavature del Quirinale, men che meno dal pubblicare notizie capaci di incrinarne l’immagine ieratica. Stupisce che da alcuni giornali, non tutti di sinistra, sia salito un coro d’indignazione per lo scoop della Verità, accusata di intelligenza con il nemico russo per aver osato toccare l’intangibile avversario di Putin. Non sapevamo di essere ufficialmente in guerra con la Russia e che la macchina bellica già esigesse l’autocensura dell’informazione.Dopodiché, se oggi ci si stupisce che sul Colle qualcuno vagheggi «scossoni» politici, oppure esprima, senza cautele, una visione partigiana del futuro del Paese, la colpa non è di un quotidiano conservatore. Qui ci si limita a prendere atto che i fatti (la «chiacchierata in libertà» del consigliere di Mattarella) smentiscono una rappresentazione (quella dell’indubitabile neutralità del Quirinale). Sono stati i progressisti, semmai, ad alimentare la pretesa che il capo dello Stato e gli apparati che lo circondano rimangano celesti numi. Si trattava di una tattica per blindare la penetrazione della sinistra nei gangli della Repubblica. Un processo iniziato dalla sterzata antiberlusconiana di Oscar Luigi Scalfaro e consolidatosi con Carlo Azeglio Ciampi, Napolitano e lo stesso Mattarella. Che non è uscito dall’uovo di Pasqua, bensì dai ranghi del Pd. In un’altra epoca, il presidente non solo si poteva criticare; lo si poteva persino spingere alle dimissioni. Era possibile sostenere che Antonio Segni promuovesse la torsione autoritaria del piano Solo, nel periodo del «tintinnar di sciabole», descritto in seguito dal socialista Pietro Nenni. Quella fase fu così drammatica che il democristiano, dopo un tesissimo confronto con Aldo Moro e Giuseppe Saragat, fu colto da un ictus e, infine, dovette lasciare lo scranno. Dopo toccò a Giovanni Leone: coinvolto, da innocente, mai inquisito, nello scandalo delle tangenti Lockheed per gli armamenti, il Pci ne caldeggiò e ottenne l’uscita di scena, ritenendo «indispensabile dissipare ombre» e impensabile lasciar «marcire una situazione così gravida di malessere» (citiamo l’Unità del 16 giugno 1978). Di Francesco Cossiga, «picconatore» di partiti, Parlamento e magistratura, si disse peste e corna. Il Manifesto del 18 agosto 2010 ricordava che Achille Occhetto, dal sardo definito «zombie coi baffi», ne propose l’impeachment, come un Di Maio o una Meloni qualunque. Stefano Rodotà rinfacciava, a un Quirinale troppo attivista, iniziative destabilizzanti. Al confronto, la richiesta di chiarimenti, avanzata martedì da Galeazzo Bignami, fa tenerezza. Si vede che i tempi sono cambiati: ora, sempre allegri bisogna stare, ché il nostro piangere fa male al re.
Vincenzo Spadafora ed Ernesto Maria Ruffini (Imagoeconomica)
Roberta Pinotti, ministro della Difesa durante il governo Renzi (Ansa)
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