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2020-03-20
Conte insiste per infilarsi il cappio del Mes
Christine Lagarde (Ansa)
Il bazooka messo in campo dalla Bce alla mezzanotte del 18 marzo è una risposta definitiva ai fabbisogni di debito pubblico generati dalla crisi da Covid-19? Il Mes, così improvvidamente richiesto dal nostro governo nei giorni scorsi (nessuno ha smentito le richieste attribuite a Giuseppe Conte e Roberto Gualtieri), è definitivamente accantonato? «In Italia non c'è nulla di più definitivo del provvisorio e nulla di più provvisorio del definitivo», diceva Giuseppe Prezzolini.
Con il passare delle ore, la risposta a entrambe le domande pare essere negativa. Né Christine Lagarde ha risolto tutto, né il Mes è definitivamente fuori gioco. L'intervento del presidente della Bce è sembrato un tappo messo a una barca che sta facendo acqua, un modo per comprare tempo, nonostante il malcelato dissenso dei tedeschi e degli olandesi. I nodi da sciogliere sono ancora tutti là.
Il fatto che il Mes sia ancora sul tavolo, però, è confermato dal premier in persona, che ieri ha detto al Financial Times che il Mes «deve essere messo in moto per rispondere urgentemente» all'epidemia. Secondo Conte, «la linea da seguire è aprire le linee di credito del Mes a tutti gli Stati membri per aiutarli a combattere le conseguenze del coronavirus».
Ancora prima dell'Eurogruppo di lunedì 16, si erano levate voci per richiederne l'applicazione. Dapprima Giampaolo Galli e Lorenzo Codogno sul Sole 24 Ore del 12 marzo ne hanno invocato l'applicazione secondo il testo riformato ma non ancor approvato, invitando quindi a un rapido sì. Peccato che lo stesso Galli in audizione parlamentare aveva definito il riformando Mes «una pistola puntata alla tempia». Poi Enrico Letta che, ancora mercoledì sera, scriveva su Twitter: «Occorre agire; Mes è dotato di risorse, intervenga per fermare la crisi, purché si cambino le regole d'ingaggio, non sia un commissariamento come in Grecia e si elimini ogni condizionalità nell'utilizzo di quei fondi». Quanto invocato da Galli e Letta non è fattibile, perché fuori dalle regole attuali. Il Mes è un finanziatore, con un proprio statuto, un trattato istitutivo ed è separato dalla Ue. È stato istituito nel 2012 come fondo per erogare sostegno finanziario ai Paesi che avessero perso l'accesso ai mercati. Ed è questo il primo punto: a oggi, nessun Paese dell'Eurozona, men che meno l'Italia, è in questa condizione. Inoltre, sia nella attuale versione sia in quella riformanda, può erogare due linee di credito una precauzionale (Pccl) e l'altra rafforzata (Eccl), entrambe soggette a condizionalità, ancora più severe nel secondo caso. Si tratta di sottoscrivere un programma di aggiustamento, tagli e aumenti di imposte, che garantiscano al creditore il puntuale rimborso dei prestiti.
Ricevere un finanziamento a condizioni rafforzate (Eccl), per l'Italia significherebbe spalancare le porte alle Omt, gli acquisti illimitati di titoli pubblici da parte della Bce previsti proprio all'interno di un pacchetto di salvataggio finanziato dal Mes. Ed è questo l'obiettivo del blocco nord europeo capitanato dai tedeschi: tenderci la trappola del Mes per far sì che gli acquisti della Bce non siano incondizionati, come accade oggi con il Qe, ma disciplinati da regole a carico del Paese debitore. Probabilmente l'avrebbero già fatto, ma si sono fermati davanti alla prospettiva del panico che si scatenerebbe sui mercati se l'Italia entrasse in un simile meccanismo. In ogni caso, qualsiasi intervento del Mes fuori dai canoni previsti comporterebbe il vaglio da parte dei Parlamenti nazionali, ha ribadito da Angela Merkel.
Ecco quindi giustificata la titubanza del capo del Mes, Klaus Regling, di fronte alle richieste italiane. Il Mes è questo, prendere o lasciare. Se ne volete un altro, fatene un altro, ma ci vorrà tempo. Ma questo Mes serve proprio per riuscire là dove non è riuscita la Commissione: mettere definitivamente il guinzaglio all'Italia che dribbla ormai da cinque anni le regole del fiscal compact che le impongono di ridurre l'eccedenza di debito pubblico oltre il 60% di debito/Pil per 1/20 all'anno. Un bagno di sangue che continuiamo a rimandare e qui da noi qualcuno vuole facilitare, finendo sotto le forche caudine di un creditore privilegiato.
La Lagarde si piega: la Bce farà la Bce. Spread giù del 29,5% a quota 200 punti
«Christine Lagarde sta imparando il tedesco», scrivevano i corrispondenti di Bloomberg lo scorso 30 dicembre. E a quanto pare deve averlo imparato bene, visto l'esito della conferenza stampa dello scorso 12 marzo. La Bce «non è qui per chiudere gli spread» - come dire che un cuoco non si occupa di cucina - ebbe a dire, mostrando di avere imparato alla perfezione il mantra della Bundesbank. Mantra ripetuto dal governatore della Banca centrale austriaca Robert Holzmann, secondo il quale l'Eurotower aveva «raggiunto i suoi limiti», e quindi lasciando intendere che non vi sarebbero stati acquisti sul mercati.
Ed è lì che, una volta raggiunto il massimo di 320 punti, lo spread fra Btp e Bund ha iniziato vistosamente a calare per arrivare ai 200 punti di ieri. Sono accadute due cose. Banca d'Italia ha creato denaro dal nulla (anzi con un click) e ha acquistato titoli di Stato italiani. Il prezzo è quindi aumentato. I rendimenti erano infatti esplosi verso l'alto anche e soprattutto per la sciagurata idea di Giuseppi e di Roberto Gualtieri di chiedere che l'Italia avesse accesso alle linee di credito del Mes dando quindi il segnale al mercato di difficoltà finanziarie del Paese peraltro inesistenti. E il governo ancora ieri si baloccava assieme a mezzo Pd (dall'ex premier Enrico Letta all'europarlamentare Irene Tinagli) su come fare a mettere il Paese nella trappola del Fondo salvastati. Poi da Francoforte arriva il comunicato che sotterra (ancora per un po', ma non per sempre) la bislacca di idea di trasformare il Mes nel pivot finanziario che presta i soldi ai Paesi fiaccati dal coronavirus. L'Eurotower vara uno speciale programma di acquisto per l'emergenza pandemia di 750 miliardi. Il tutto condito con un personalissimo tweet della Lagarde: «Momenti straordinari richiedono atti straordinari. Non ci sono limiti al nostro impegno nei confronti dell'euro. Siamo decisi a sfruttare a pieno il potenziale dei nostri strumenti nell'ambito del nostro mandato».
Non sfuggirà che al centro dei pensieri di Francoforte non vi sono né i morti né i disoccupati né le saracinesche abbassate a causa della chiusura forzata di tutte le attività economiche ormai imposta da quasi tutti i Paesi dell'Eurozona. No, c'è sempre e solo il totem dell'euro. Ma dall'iniziativa della Bce di ieri sono emerse altre due verità che ci auguriamo non vengano mai più dimenticate nel proseguo del triste dibattito sull'emergenza economica che si aprirà di qui ai prossimi giorni.
La prima è che il rendimento dei titoli di Stato (e quindi lo spread) è tutta farina del sacco delle Banche centrali, non fosse altro perché il loro mestiere è quello di indirizzare la struttura dei tassi di interesse. Non c'entrano nulla Ruby rubacuori o le conferenze stampa di Matteo Salvini. La Bce ha dichiarato che «non tollererà rischi che si ripercuotano sull'efficace trasmissione della sua politica monetaria». Acquisterà titoli di Stato in proporzione al capitale detenuto da ciascun Paese. E dei 750 miliardi previsti (eventualmente incrementabili) la Bce - attraverso la Banca d'Italia - acquisterà Btp per circa 105, pari al 14% circa del totale, cioè appunto la quota detenuta da via Nazionale dentro l'Eurotower. Queste percentuali di distribuzione dello shopping potranno però variare in quanto la Bce adotterà «modalità flessibili» in relazione alle necessità.
La seconda verità è che purtroppo la cassetta degli attrezzi della Bce ormai è vuota. Già il quantitative easing si era dimostrato inefficace nello stimolare l'erogazione del credito. Secondo le statistiche Abi, infatti, dal 2011 a oggi il credito a famiglie e imprese è crollato da quasi 1.700 miliardi a poco più di 1.400. E come non ci stancheremo mai di scrivere, alle banche per fare credito tutto serve meno che il denaro della Bce. È necessario il capitale degli azionisti che consenta di far fronte a perdite su crediti attese e inattese (oltre 170 miliardi in sei anni per le banche italiane). Serve una domanda di prestiti che può partire solo da famiglie e imprese, ma che in presenza di crisi non potrà che languire.
Serve la ragionevole aspettativa che il denaro prestato possa infine tornare indietro. Tutte cose - patrimonio, domanda e fiducia - che il Qe di qualsiasi Banca centrale non potrà mai e poi mai garantire. Ecco perché servirà a poco. Anzi a nulla. E se anche per puro caso il quantitative easing come presentato ieri avesse successo nello stimolare il credito, non è questo ciò che serve al Paese in questo momento. Gli alberghi, i ristoranti, i negozi che sono stati forzatamente chiusi a questo punto non hanno più bisogno di credito, ma di vedere reintegrato quel giro d'affari perso che le ha messe al tappeto. Chi mai potrebbe infatti desiderare di vedersi accreditare tutto il necessario per pagare i debiti nel frattempo gonfiatisi (affitti, stipendi, contributi, bollette, fornitori eccetera) con altro credito bancario che non sarebbe poi comunque in grado di rimborsare?
Tutte cose che a una Banca centrale non nostra importano meno di zero, dal momento che la condividiamo con altri 18 Paesi che non hanno le stesse nostre esigenze. Sono i devastanti effetti collaterali della perdita di sovranità monetaria. Virus purtroppo terribile tanto quanto il Covid-19, e capace di fare danni forse ancora più gravi.
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Mentre l'intervento del Meccanismo di stabilità sembra rimandato, il premier vuole aprire le linee di credito.Christine Lagarde si piega: la Bce farà la Bce. Spread giù del 29,5% a quota 200 punti. La risposta al maxi programma di aiuti prova che il differenziale dipende dalle Banche centrali, non dalla nostra politica interna.Lo speciale contiene due articoli. Il bazooka messo in campo dalla Bce alla mezzanotte del 18 marzo è una risposta definitiva ai fabbisogni di debito pubblico generati dalla crisi da Covid-19? Il Mes, così improvvidamente richiesto dal nostro governo nei giorni scorsi (nessuno ha smentito le richieste attribuite a Giuseppe Conte e Roberto Gualtieri), è definitivamente accantonato? «In Italia non c'è nulla di più definitivo del provvisorio e nulla di più provvisorio del definitivo», diceva Giuseppe Prezzolini.Con il passare delle ore, la risposta a entrambe le domande pare essere negativa. Né Christine Lagarde ha risolto tutto, né il Mes è definitivamente fuori gioco. L'intervento del presidente della Bce è sembrato un tappo messo a una barca che sta facendo acqua, un modo per comprare tempo, nonostante il malcelato dissenso dei tedeschi e degli olandesi. I nodi da sciogliere sono ancora tutti là.Il fatto che il Mes sia ancora sul tavolo, però, è confermato dal premier in persona, che ieri ha detto al Financial Times che il Mes «deve essere messo in moto per rispondere urgentemente» all'epidemia. Secondo Conte, «la linea da seguire è aprire le linee di credito del Mes a tutti gli Stati membri per aiutarli a combattere le conseguenze del coronavirus». Ancora prima dell'Eurogruppo di lunedì 16, si erano levate voci per richiederne l'applicazione. Dapprima Giampaolo Galli e Lorenzo Codogno sul Sole 24 Ore del 12 marzo ne hanno invocato l'applicazione secondo il testo riformato ma non ancor approvato, invitando quindi a un rapido sì. Peccato che lo stesso Galli in audizione parlamentare aveva definito il riformando Mes «una pistola puntata alla tempia». Poi Enrico Letta che, ancora mercoledì sera, scriveva su Twitter: «Occorre agire; Mes è dotato di risorse, intervenga per fermare la crisi, purché si cambino le regole d'ingaggio, non sia un commissariamento come in Grecia e si elimini ogni condizionalità nell'utilizzo di quei fondi». Quanto invocato da Galli e Letta non è fattibile, perché fuori dalle regole attuali. Il Mes è un finanziatore, con un proprio statuto, un trattato istitutivo ed è separato dalla Ue. È stato istituito nel 2012 come fondo per erogare sostegno finanziario ai Paesi che avessero perso l'accesso ai mercati. Ed è questo il primo punto: a oggi, nessun Paese dell'Eurozona, men che meno l'Italia, è in questa condizione. Inoltre, sia nella attuale versione sia in quella riformanda, può erogare due linee di credito una precauzionale (Pccl) e l'altra rafforzata (Eccl), entrambe soggette a condizionalità, ancora più severe nel secondo caso. Si tratta di sottoscrivere un programma di aggiustamento, tagli e aumenti di imposte, che garantiscano al creditore il puntuale rimborso dei prestiti. Ricevere un finanziamento a condizioni rafforzate (Eccl), per l'Italia significherebbe spalancare le porte alle Omt, gli acquisti illimitati di titoli pubblici da parte della Bce previsti proprio all'interno di un pacchetto di salvataggio finanziato dal Mes. Ed è questo l'obiettivo del blocco nord europeo capitanato dai tedeschi: tenderci la trappola del Mes per far sì che gli acquisti della Bce non siano incondizionati, come accade oggi con il Qe, ma disciplinati da regole a carico del Paese debitore. Probabilmente l'avrebbero già fatto, ma si sono fermati davanti alla prospettiva del panico che si scatenerebbe sui mercati se l'Italia entrasse in un simile meccanismo. In ogni caso, qualsiasi intervento del Mes fuori dai canoni previsti comporterebbe il vaglio da parte dei Parlamenti nazionali, ha ribadito da Angela Merkel.Ecco quindi giustificata la titubanza del capo del Mes, Klaus Regling, di fronte alle richieste italiane. Il Mes è questo, prendere o lasciare. Se ne volete un altro, fatene un altro, ma ci vorrà tempo. Ma questo Mes serve proprio per riuscire là dove non è riuscita la Commissione: mettere definitivamente il guinzaglio all'Italia che dribbla ormai da cinque anni le regole del fiscal compact che le impongono di ridurre l'eccedenza di debito pubblico oltre il 60% di debito/Pil per 1/20 all'anno. Un bagno di sangue che continuiamo a rimandare e qui da noi qualcuno vuole facilitare, finendo sotto le forche caudine di un creditore privilegiato.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/conte-insiste-per-infilarsi-il-cappio-del-mes-2645539336.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-lagarde-si-piega-la-bce-fara-la-bce-spread-giu-del-295-a-quota-200-punti" data-post-id="2645539336" data-published-at="1765431008" data-use-pagination="False"> La Lagarde si piega: la Bce farà la Bce. Spread giù del 29,5% a quota 200 punti «Christine Lagarde sta imparando il tedesco», scrivevano i corrispondenti di Bloomberg lo scorso 30 dicembre. E a quanto pare deve averlo imparato bene, visto l'esito della conferenza stampa dello scorso 12 marzo. La Bce «non è qui per chiudere gli spread» - come dire che un cuoco non si occupa di cucina - ebbe a dire, mostrando di avere imparato alla perfezione il mantra della Bundesbank. Mantra ripetuto dal governatore della Banca centrale austriaca Robert Holzmann, secondo il quale l'Eurotower aveva «raggiunto i suoi limiti», e quindi lasciando intendere che non vi sarebbero stati acquisti sul mercati. Ed è lì che, una volta raggiunto il massimo di 320 punti, lo spread fra Btp e Bund ha iniziato vistosamente a calare per arrivare ai 200 punti di ieri. Sono accadute due cose. Banca d'Italia ha creato denaro dal nulla (anzi con un click) e ha acquistato titoli di Stato italiani. Il prezzo è quindi aumentato. I rendimenti erano infatti esplosi verso l'alto anche e soprattutto per la sciagurata idea di Giuseppi e di Roberto Gualtieri di chiedere che l'Italia avesse accesso alle linee di credito del Mes dando quindi il segnale al mercato di difficoltà finanziarie del Paese peraltro inesistenti. E il governo ancora ieri si baloccava assieme a mezzo Pd (dall'ex premier Enrico Letta all'europarlamentare Irene Tinagli) su come fare a mettere il Paese nella trappola del Fondo salvastati. Poi da Francoforte arriva il comunicato che sotterra (ancora per un po', ma non per sempre) la bislacca di idea di trasformare il Mes nel pivot finanziario che presta i soldi ai Paesi fiaccati dal coronavirus. L'Eurotower vara uno speciale programma di acquisto per l'emergenza pandemia di 750 miliardi. Il tutto condito con un personalissimo tweet della Lagarde: «Momenti straordinari richiedono atti straordinari. Non ci sono limiti al nostro impegno nei confronti dell'euro. Siamo decisi a sfruttare a pieno il potenziale dei nostri strumenti nell'ambito del nostro mandato». Non sfuggirà che al centro dei pensieri di Francoforte non vi sono né i morti né i disoccupati né le saracinesche abbassate a causa della chiusura forzata di tutte le attività economiche ormai imposta da quasi tutti i Paesi dell'Eurozona. No, c'è sempre e solo il totem dell'euro. Ma dall'iniziativa della Bce di ieri sono emerse altre due verità che ci auguriamo non vengano mai più dimenticate nel proseguo del triste dibattito sull'emergenza economica che si aprirà di qui ai prossimi giorni. La prima è che il rendimento dei titoli di Stato (e quindi lo spread) è tutta farina del sacco delle Banche centrali, non fosse altro perché il loro mestiere è quello di indirizzare la struttura dei tassi di interesse. Non c'entrano nulla Ruby rubacuori o le conferenze stampa di Matteo Salvini. La Bce ha dichiarato che «non tollererà rischi che si ripercuotano sull'efficace trasmissione della sua politica monetaria». Acquisterà titoli di Stato in proporzione al capitale detenuto da ciascun Paese. E dei 750 miliardi previsti (eventualmente incrementabili) la Bce - attraverso la Banca d'Italia - acquisterà Btp per circa 105, pari al 14% circa del totale, cioè appunto la quota detenuta da via Nazionale dentro l'Eurotower. Queste percentuali di distribuzione dello shopping potranno però variare in quanto la Bce adotterà «modalità flessibili» in relazione alle necessità. La seconda verità è che purtroppo la cassetta degli attrezzi della Bce ormai è vuota. Già il quantitative easing si era dimostrato inefficace nello stimolare l'erogazione del credito. Secondo le statistiche Abi, infatti, dal 2011 a oggi il credito a famiglie e imprese è crollato da quasi 1.700 miliardi a poco più di 1.400. E come non ci stancheremo mai di scrivere, alle banche per fare credito tutto serve meno che il denaro della Bce. È necessario il capitale degli azionisti che consenta di far fronte a perdite su crediti attese e inattese (oltre 170 miliardi in sei anni per le banche italiane). Serve una domanda di prestiti che può partire solo da famiglie e imprese, ma che in presenza di crisi non potrà che languire. Serve la ragionevole aspettativa che il denaro prestato possa infine tornare indietro. Tutte cose - patrimonio, domanda e fiducia - che il Qe di qualsiasi Banca centrale non potrà mai e poi mai garantire. Ecco perché servirà a poco. Anzi a nulla. E se anche per puro caso il quantitative easing come presentato ieri avesse successo nello stimolare il credito, non è questo ciò che serve al Paese in questo momento. Gli alberghi, i ristoranti, i negozi che sono stati forzatamente chiusi a questo punto non hanno più bisogno di credito, ma di vedere reintegrato quel giro d'affari perso che le ha messe al tappeto. Chi mai potrebbe infatti desiderare di vedersi accreditare tutto il necessario per pagare i debiti nel frattempo gonfiatisi (affitti, stipendi, contributi, bollette, fornitori eccetera) con altro credito bancario che non sarebbe poi comunque in grado di rimborsare? Tutte cose che a una Banca centrale non nostra importano meno di zero, dal momento che la condividiamo con altri 18 Paesi che non hanno le stesse nostre esigenze. Sono i devastanti effetti collaterali della perdita di sovranità monetaria. Virus purtroppo terribile tanto quanto il Covid-19, e capace di fare danni forse ancora più gravi.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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