2022-03-22
Confondere «morale» e «politica» non aiuterà la pace (e neanche noi)
La logica «buoni contro cattivi» risponde a un bisogno di giustizia ma da sola non porta a ideare possibili soluzioni politiche. E l’appello alla competenza, alla fine, è un metodo per orientare o annullare il dibattito.La tragedia ucraina ha prodotto, soprattutto in Italia, un non banale - anche se spesso goffo - dibattito sul perimetro di legittimità di interventi, posizioni e idee «riportabili» sui media, a protezione della qualità della discussione e a tutela dell’opinione pubblica. Al cuore della faccenda, depurata dai copiosi regolamenti di conti personali, ci sono due problemi che meritano di essere inquadrati. Il primo, già esploso in pandemia, riguarda il ruolo dei mezzi di comunicazione: il compito che questi si danno, l’aspettativa su di essi da parte del pubblico, della politica, degli attori internazionali. Atteso che neppure un elenco della spesa può essere «neutro», la portata degli eventi scatenatisi lo scorso 24 febbraio approfondisce inevitabilmente la domanda che sempre accompagna l’informazione: in che cornice di senso sono inseriti articoli scritti, titoli proposti, interlocutori scelti, postura complessiva, anche rispetto alle azioni dei governi? Insomma: qual è la «linea» e quali sono i binari sui quali essa viaggia giorno dopo giorno, coprendo un racconto su fatti inevitabilmente mediati, e quasi impossibili da definire nella loro «verità» inoppugnabile? Che criteri si possono usare per stabilire un confine di liceità, o di opportunità, una volta superata l’ipocrisia di una presunta informazione «pura», che non orienti ma mostri in modo asettico? E soprattutto: chi decide ed eventualmente fa rispettare questi criteri, fuori dal rapporto costante con i lettori/spettatori? Forse è più importante avere presenti tali domande che accampare risposte ultimative. Qualche certezza in più, invece, si può raggiungere sul secondo problema: quello della evidente, mostruosa confusione di piani cui da settimane stiamo assistendo in tv, sui giornali e nella maggior parte delle dichiarazioni politiche. È inevitabile che chiunque si ponga davanti a un conflitto riecheggi un desiderio di pace e giustizia che porta anche alla domanda su chi abbia «ragione». Nel merito, identificare aggressore e vittima è un’operazione che non può lasciare dubbi. Il problema è che questo (il piano per così dire «morale») è contemporaneamente facile e inutile, almeno in questo frangente. Sovrapporre questo livello e confonderlo con quelli, complicatissimi, degli equilibri di potenza, delle forniture militari, delle conseguenze economiche, ha senso? Conduce a un approfondimento cognitivo, a una maturazione dell’opinione pubblica? L’impressione è che accada esattamente il contrario.Pensare che all’informazione tocchi il compito di indicare moralisticamente «buoni» e «cattivi» contiene un rischio, che è appunto quello di confondere i piani, facendo apparire inevitabili o a portata di mano soluzioni estranee all’ambito del possibile: le atrocità commesse in guerra ovviamente vanno raccontate come tali, ma ciò non le farà cessare. Non è una questione di idealismo, ma di metodo di conoscenza, che appare decisamente fallace. È possibile che questo approccio «morale» al racconto dell’Ucraina sia in qualche modo doloso, e funzionale a escludere alcune posizioni facendole appunto ricadere fuori dal dicibile, dal lecito, con ciò che ne consegue. Ma non è neppure questo il punto più importante: il fatto è che questa commistione di piani allontana una possibilità di comprendere cosa stia accadendo e, forse, anche di arrivare a una soluzione. Non serve essere Hans Morgenthau per realizzare che i rapporti di forza tra Paesi e le relazioni internazionali non sono fondati sulla «morale», e dunque subordinare a questa le analisi, gli articoli, i servizi, implica il pericolo di allontanarsi da un quadro realistico. Un altro enorme fattore di confusione è quello relativo alla «competenza». È scontato che interlocutori preparati, seri e documentati siano il sale di qualunque dibattito, e che l’opinione di un cabarettista in materia di conflitti sia meno qualificata di quella di un politologo. Tuttavia, non è un’altra enorme confusione di piani aggrapparsi alla «competenza» come criterio di legittimazione? Sulla Stampa, la direttrice dell’Istituto Affari internazionali di Roma, Nathalie Tocci, è parsa indicare esattamente questa strada: «Il dibattito pubblico in Italia», ha scritto, «tiene certamente alto il nome della diversità di opinione, ma non di una diversità che emana da competenze diverse tutte attinenti al tema in discussione. [...] Nei media italiani - soprattutto televisivi -, l’impressione è che non si cerchino competenze diverse per aiutare i cittadini-spettatori a comporre il proprio mosaico di conoscenza, ma opinioni divergenti e basta. A prescindere dalle (in)competenze dalle quali emanano».Ecco, a parte l’eterno dilemma su chi distribuisca «certificati» di tale competenza, perfino l’antico adagio sulla guerra che sarebbe «cosa troppo seria per lasciarla in mano ai militari» suggerisce che anche quello della competenza è un piano falsante, distorsivo, potenzialmente violento, che tende - esattamente come accaduto con il Covid - a squalificare e ridurre la più incomprimibile delle categorie umane: il politico.Purtroppo non ci sono strade facili, ma cominciare a distinguere i piani - quello morale, quello economico, quello militare, quello geopolitico sono ambiti diversi con metodi conseguenti - è un primo esercizio forse utile. La gigantesca sproporzione tra ciò che sta accadendo (un letterale, tragico cambiamento del mondo sotto i nostri occhi) e ciò che si riesce a dirne non sarà colmata attraverso le scorciatoie dei settarismi e delle scomuniche, anche se percorse con le migliori intenzioni.
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