2025-10-12
Asse Confindustria-Cgil: no al taglio delle tasse
Maurizio Landini ed Emanuele Orsini (Ansa)
Dopo aver ridotto il cuneo fiscale il governo vuol abbassare le imposte al ceto medio. Ma Landini («La manovra ci farà sbattere») e Orsini («La ricchezza non la fai con Irpef e pensioni») sembrano opporsi allo stesso modo.Dopo aver tagliato il cuneo fiscale in tre anni per un valore stimato fra 20 e 30 miliardi, il governo Meloni annuncia di voler venire incontro al ceto medio. Un’entità quasi mitologica perché tutti ne parlano ma nessuno è davvero in condizione di darne un perimetro. Si tratta di quella fascia di italiani che paga tutto, riceve poco. Ora, secondo le proiezioni del centro studi Unimpresa, il nuovo intervento potrebbe portare un risparmio medio di 1.440 euro l’anno. Una boccata d’ossigeno, certo, ma solo perché qualcuno ha tenuto la testa degli italiani per 30 anni sotto la superficie.Il piano si inserisce nella quarta legge di bilancio del governo, che vuole restituire potere d’acquisto alle famiglie. Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, la definisce una misura «di equità e responsabilità», un colpo di cesello nella scultura della giustizia sociale. Peccato che il cesello, a forza di essere usato, abbia ormai la punta spuntata. La verità è che si continua a girare attorno allo stesso tavolo dove da 30 anni si discute chi deve pagare e chi deve fingere di risparmiare. Nel frattempo, i due estremi del mondo del lavoro - Maurizio Landini ed Emanuele Orsini - sembrano improvvisamente parlare la stessa lingua. Una sorta di «unità nazionale» alle spalle del lavoro.Maurizio Landini, con la consueta vena apocalittica, ha proclamato uno sciopero per il 26 ottobre, prima ancora che la legge di bilancio venga resa nota. «Questa manovra ci farà sbattere», ha detto. Non si sa dove, ma il verbo è efficace: suona bene nei titoli e fa vibrare i microfoni. Landini è rimasto l’unico leader sindacale a parlare come se fossimo ancora negli anni Settanta, ma con una certa nostalgia per quando c’era la scala mobile e il conflitto serviva a giustificare la pausa pranzo. Anche per questo preferisce parlare d’altro spiegando che la pace a Gaza è frutto anche delle pressioni esercitate dalle piazze su Gerusalemme. Donald Trump? Un incidente della storia.Dall’altra parte del fronte sindacale, Orsini, presidente di Confindustria, dalla tribuna di Capri dove ieri si è concluso l’annuale convegno degli «juniores» dell’organizzazione ha risposto con toni che escludono l’efficacia dei tagli fiscali: «La ricchezza non la fai con Irpef e pensioni». Il ministro Giorgetti non gli ha potuto replicare perché, a causa di improvvisi impegni, ha dovuto disertare anche il collegamento video. Il capo degli industriali, con qualche sarcasmo, si augura che l’assenza sia dovuta alla fatica di scrivere la manovra. Così gli anticipa i temi della trattativa. Reclama investimenti per le imprese. Chiede di rendere il Paese «attrattivo» per nuovi investimenti. Sollecita misure «poderose» sul fronte del super e iper ammortamento e un piano industriale di «visione triennale». Non una parola sui salari, nessuna disponibilità per eventuali aumenti visto che in Italia si guadagna poco e si tassa tanto. Nessun accenno al taglio delle tasse. I 16 miliardi previsti dalla manovra rappresentano «una coperta corta». Proprio per questo «bisogna valorizzare ciò che genera reddito e capacità di distribuzione, che viene dalle imprese». Insomma tutto agli imprenditori. E i dipendenti? Poi si vedrà. Nessuno accenno al fatto che le buste paga sono troppo leggere.Non certo il frutto di un destino cinico e baro ma di un patto scellerato fra Confindustria e sindacati con la benedizione dei governi di sinistra. Una storia che ha origini antiche. Nel 1992 dinanzi al presidente del Consiglio, Giuliano Amato (il regista del famoso scippo nella notte sui conti correnti degli italiani), fu firmato il celebre accordo sulla politica dei redditi. Si chiamava «responsabilità nazionale», ma significava: «State buoni e tenete fermi i salari» attraverso lo smantellamento di quel poco che era rimasto della scala mobile dopo lo stop di Bettino Craxi nella «Notte di San Valentino» del 1984. Nel 1993, con Ciampi, arrivò la consacrazione: i salari vennero agganciati alla produttività (che non arrivò mai) e la moderazione delle buste paga divenne la nuova religione civile. Fu l’inizio della lunga notte del lavoro italiano. Da allora i salari reali non si sono più ripresi, la produttività è rimasta ferma e il ceto medio si è trasformato in una specie in via d’estinzione, citata nei discorsi ufficiali con la stessa tenerezza con cui si parla delle foche monache.Nel frattempo, i due poli dello scontento - Landini che sciopera e Orsini che predica - finiscono per rappresentare la stessa realtà: un Paese dove chi lavora si sente impoverito e chi produce si sente soffocato. L’uno urla contro il governo, l’altro contro la burocrazia, ma il risultato è lo stesso: l’Italia non cresce, non investe, non consuma.In fondo, se togli gli slogan, Landini e Orsini dicono la stessa cosa: non si crea ricchezza tassando la povertà. Ma la differenza è che il primo lo grida dal megafono della Cgil, il secondo lo sussurra in giacca e cravatta davanti ai giovani dell’organizzazione di cui è presidente. Due linguaggi diversi, stessa diagnosi: il sistema ha bisogno urgente di manutenzione ma Cgil e Confindustria non hanno il coraggio di riformarlo davvero.E così, 30 anni dopo gli accordi del 1992 e del 1993, siamo tornati al punto di partenza. Allora i sindacati firmarono la moderazione salariale «per salvare il Paese». Oggi Landini protesta contro la manovra «per salvare il lavoro». Nel mezzo, una generazione di lavoratori che non ha mai visto una busta paga crescere davvero.
Volodymyr Zelensky (Ansa)