Schlein, Landini e compagni contestano il taglio delle tasse per chi guadagna 2000 euro
Maurizio Landini ed Emanuele Orsini (Ansa)
Dopo aver ridotto il cuneo fiscale il governo vuol abbassare le imposte al ceto medio. Ma Landini («La manovra ci farà sbattere») e Orsini («La ricchezza non la fai con Irpef e pensioni») sembrano opporsi allo stesso modo.
Dopo aver tagliato il cuneo fiscale in tre anni per un valore stimato fra 20 e 30 miliardi, il governo Meloni annuncia di voler venire incontro al ceto medio. Un’entità quasi mitologica perché tutti ne parlano ma nessuno è davvero in condizione di darne un perimetro. Si tratta di quella fascia di italiani che paga tutto, riceve poco. Ora, secondo le proiezioni del centro studi Unimpresa, il nuovo intervento potrebbe portare un risparmio medio di 1.440 euro l’anno. Una boccata d’ossigeno, certo, ma solo perché qualcuno ha tenuto la testa degli italiani per 30 anni sotto la superficie.
Il piano si inserisce nella quarta legge di bilancio del governo, che vuole restituire potere d’acquisto alle famiglie. Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, la definisce una misura «di equità e responsabilità», un colpo di cesello nella scultura della giustizia sociale. Peccato che il cesello, a forza di essere usato, abbia ormai la punta spuntata. La verità è che si continua a girare attorno allo stesso tavolo dove da 30 anni si discute chi deve pagare e chi deve fingere di risparmiare. Nel frattempo, i due estremi del mondo del lavoro - Maurizio Landini ed Emanuele Orsini - sembrano improvvisamente parlare la stessa lingua. Una sorta di «unità nazionale» alle spalle del lavoro.
Maurizio Landini, con la consueta vena apocalittica, ha proclamato uno sciopero per il 26 ottobre, prima ancora che la legge di bilancio venga resa nota. «Questa manovra ci farà sbattere», ha detto. Non si sa dove, ma il verbo è efficace: suona bene nei titoli e fa vibrare i microfoni. Landini è rimasto l’unico leader sindacale a parlare come se fossimo ancora negli anni Settanta, ma con una certa nostalgia per quando c’era la scala mobile e il conflitto serviva a giustificare la pausa pranzo. Anche per questo preferisce parlare d’altro spiegando che la pace a Gaza è frutto anche delle pressioni esercitate dalle piazze su Gerusalemme. Donald Trump? Un incidente della storia.
Dall’altra parte del fronte sindacale, Orsini, presidente di Confindustria, dalla tribuna di Capri dove ieri si è concluso l’annuale convegno degli «juniores» dell’organizzazione ha risposto con toni che escludono l’efficacia dei tagli fiscali: «La ricchezza non la fai con Irpef e pensioni». Il ministro Giorgetti non gli ha potuto replicare perché, a causa di improvvisi impegni, ha dovuto disertare anche il collegamento video. Il capo degli industriali, con qualche sarcasmo, si augura che l’assenza sia dovuta alla fatica di scrivere la manovra. Così gli anticipa i temi della trattativa. Reclama investimenti per le imprese. Chiede di rendere il Paese «attrattivo» per nuovi investimenti. Sollecita misure «poderose» sul fronte del super e iper ammortamento e un piano industriale di «visione triennale». Non una parola sui salari, nessuna disponibilità per eventuali aumenti visto che in Italia si guadagna poco e si tassa tanto. Nessun accenno al taglio delle tasse. I 16 miliardi previsti dalla manovra rappresentano «una coperta corta». Proprio per questo «bisogna valorizzare ciò che genera reddito e capacità di distribuzione, che viene dalle imprese». Insomma tutto agli imprenditori. E i dipendenti? Poi si vedrà. Nessuno accenno al fatto che le buste paga sono troppo leggere.
Non certo il frutto di un destino cinico e baro ma di un patto scellerato fra Confindustria e sindacati con la benedizione dei governi di sinistra. Una storia che ha origini antiche. Nel 1992 dinanzi al presidente del Consiglio, Giuliano Amato (il regista del famoso scippo nella notte sui conti correnti degli italiani), fu firmato il celebre accordo sulla politica dei redditi. Si chiamava «responsabilità nazionale», ma significava: «State buoni e tenete fermi i salari» attraverso lo smantellamento di quel poco che era rimasto della scala mobile dopo lo stop di Bettino Craxi nella «Notte di San Valentino» del 1984. Nel 1993, con Ciampi, arrivò la consacrazione: i salari vennero agganciati alla produttività (che non arrivò mai) e la moderazione delle buste paga divenne la nuova religione civile. Fu l’inizio della lunga notte del lavoro italiano. Da allora i salari reali non si sono più ripresi, la produttività è rimasta ferma e il ceto medio si è trasformato in una specie in via d’estinzione, citata nei discorsi ufficiali con la stessa tenerezza con cui si parla delle foche monache.
Nel frattempo, i due poli dello scontento - Landini che sciopera e Orsini che predica - finiscono per rappresentare la stessa realtà: un Paese dove chi lavora si sente impoverito e chi produce si sente soffocato. L’uno urla contro il governo, l’altro contro la burocrazia, ma il risultato è lo stesso: l’Italia non cresce, non investe, non consuma.
In fondo, se togli gli slogan, Landini e Orsini dicono la stessa cosa: non si crea ricchezza tassando la povertà. Ma la differenza è che il primo lo grida dal megafono della Cgil, il secondo lo sussurra in giacca e cravatta davanti ai giovani dell’organizzazione di cui è presidente. Due linguaggi diversi, stessa diagnosi: il sistema ha bisogno urgente di manutenzione ma Cgil e Confindustria non hanno il coraggio di riformarlo davvero.
E così, 30 anni dopo gli accordi del 1992 e del 1993, siamo tornati al punto di partenza. Allora i sindacati firmarono la moderazione salariale «per salvare il Paese». Oggi Landini protesta contro la manovra «per salvare il lavoro». Nel mezzo, una generazione di lavoratori che non ha mai visto una busta paga crescere davvero.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Dal 1° luglio addio a «decontribuzione Sud»: per prolungare la misura serve l’ok dell’Europa, però le trattative sono ancora in corso. Tutti vogliono alzare gli stipendi netti senza fare debito, ma finché ascolteremo gli ordini di Bruxelles avremo le mani legate.
Da qualche giorno è tutto un affollarsi di illustri dottori al capezzale del grande malato: il potere d’acquisto dei percettori di salari, stipendi e pensioni falcidiato da un’inflazione che purtroppo si è rivelata transitoria solo per gli economisti della Bce, che avevano forse confuso i loro desideri con la realtà. Il dibattito è incentrato intorno a due poli: gli imprenditori rifiutano di incrementare le retribuzioni lorde paventando, se non accompagnate da aumenti della produttività, perdite di competitività; lo Stato dice che non ci sono risorse per la riduzione del cuneo fiscale e quindi o si tagliano altre spese o si aumentano le tasse, con Maurizio Landini che corre a chiedere patrimoniali varie e assortite.
Intervenire sul cuneo - cioè imposte e contributi che si frappongono tra costo aziendale e retribuzione netta - viene ritenuta la soluzione migliore per aumentare il peso della «busta» senza innescare la temuta spirale prezzi-salari. Purtroppo bisogna passare attraverso le forche caudine di Bruxelles: invarianza dei saldi di bilancio e divieto di aiuti di Stato, su cui vigilano il presidente Ursula von der Leyen e i commissari Paolo Gentiloni e Margrethe Vestager. Ed è proprio tale divieto che rischia di distruggere ciò che è stato già fatto. Perché una misura di riduzione del cuneo fiscale ci sarebbe già, e pure molto rilevante, almeno per otto regioni del Centro Sud del nostro Paese. Stiamo parlando della «decontribuzione Sud», cioè la riduzione del 30% dei contributi a carico del datore di lavoro, varata con il lontano decreto Agosto del 2020. Dopo una prima fase sperimentale è stata rifinanziata con le leggi di bilancio 2021 e 2022 fino al 2029 con percentuali decrescenti. Tutto già inserito nei saldi di bilancio e quindi senza timore di cadere sotto la spada di tagli per eccessivo deficit.
Stiamo parlando di una misura che, a regime, vale circa 5 miliardi di mancato gettito e che va a beneficio di quasi tutti i datori di lavoro delle regioni interessate, senza distinguere tra rapporti di lavoro già in corso o nuove attivazioni. Una cifra ragguardevole, che interessa centinaia di migliaia di imprese e milioni di rapporti di lavoro.
Tutto rischia di svanire nel nulla all’alba del prossimo 1° luglio: la legge di bilancio aveva agganciato la decontribuzione al Quadro temporaneo del marzo 2020, con cui venivano sottratti al divieto una serie di aiuti, tra cui quello qui in esame. Quel Quadro temporaneo cesserà di fornire una copertura il prossimo 30 giugno e quindi la decontribuzione richiede una nuova approvazione da parte della Commissione. È un caso disciplinato dagli articoli 107 e 108 del Trattato sul funzionamento della Ue, poiché presenta il carattere di selettività geografica.
Qui comincia il già visto balletto tra Roma e Bruxelles, dove non si capisce dove finiscano le negligenze dei nostri rappresentanti e dove comincino le responsabilità della Commissione. Un balletto di cui abbiamo già visto le tragiche conseguenze in occasione della risoluzione di Banca Etruria e altri tre istituti nel novembre 2015. Risale infatti al febbraio scorso la prima interrogazione a risposta scritta da parte dell’europarlamentare copresidente del gruppo Ecr-Fdi, Raffaele Fitto, finalizzata a sapere dalla Commissione se dall’Italia fosse stata avanzata una proposta per rendere strutturale fino al 2029 la decontribuzione. Il 27 aprile il commissario al lavoro Nicolas Schmit ha risposto che non vi era stata alcuna richiesta da parte dell’Italia. Così lunedì scorso Fitto è ritornato alla carica chiedendo alla Commissione se «ha ricevuto una proposta riguardante la misura in oggetto o sono in corso negoziati in merito e, in caso affermativo, se ritiene che tale misura rispetti i criteri per essere autorizzata ai sensi del quadro temporaneo per le misure di aiuto di Stato».
Nel frattempo, il 18 maggio scorso, rispondendo alla Camera a una interrogazione a risposta immediata, il ministro per il Sud Mara Carfagna ha dichiarato che «stiamo ora lavorando - e di questo ho avuto modo di parlare anche con la commissaria Ferreira qualche giorno fa - per agganciare la misura al nuovo recente Quadro sugli aiuti di Stato introdotto per il secondo semestre del 2022. È un lavoro che, ovviamente, abbiamo già iniziato e che intensificheremo nelle prossime settimane con un tavolo permanente con le amministrazioni nazionali, finalizzato a offrire alla Commissione europea una soluzione concreta». Da ultimo, fonti di Palazzo Chigi hanno confermato che il negoziato è ben avviato.
A tre settimane da una scadenza nota da più di un anno, siamo ancora al «tavolo», finalizzato peraltro a mettere la testa sotto la ghigliottina di un altro Quadro temporaneo. Mentre gli imprenditori del Sud non sanno ancora quale sarà il loro costo del lavoro a luglio. E dire alla Ue che le nostre imprese e i nostri lavoratori sono più importanti di quelle regole assurde, imparando la tecnica negoziale da Polonia o Ungheria?
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- Mance e reddito di cittadinanza costano 40 miliardi: si possono utilizzare per ripristinare il Rei e ridurre del 20% il cuneo fiscale.
- Dopo aver distrutto la produttività la sinistra ora vuole il salario minimo. Il mondo del lavoro è stato rovinato da austerità e precarietà, sposate dalla sinistra. Maurizio Landini e Enrico Letta pensano che la ricetta anti-inflazione sia agire per legge. Ma occorre cambiare modello e tornare a fare investimenti.
Lo speciale comprende due articoli.
I salari calano, mentre l’inflazione cresce. Non ci vuole un Nobel in economia per capire che abbiamo un grosso problema. Non ci vuole nemmeno un esperto bellico per affrontare il tema. La guerra in Ucraina è infatti solo una aggravante. Gli inghippi del mondo del lavoro, gli incagli della scarsa produttività e i rialzi delle materie prime hanno un’origine più antica. Piangere sulle mancate retribuzioni e inchiodarle con tasse esose non è più accettabile. Dovremmo tutti ammettere che in autunno arriverà un uragano finanziario dovuto al prolungamento della guerra e soprattutto al rialzo dei tassi da parte della Federal reserve americana. Intervenire sul mondo del lavoro è un dei pochi modi per dare un salvagente ai cittadini e aiutarli a non essere travolti dall’onda dell’iperinflazione.
Purtroppo, nelle ultime indicazioni diffuse, la Commissione Ue pensa di alzare la produttività e i margini delle aziende comprimendo ancor di più i salari. Anzi, possibilmente sfruttando profughi sottopagati per coprire i posti di lavoro e renderli ogni anno a valore aggiunto sempre inferiore. D’altro canto vuole spendere miliardi per sussidiare chi viene espulso o si esclude dal mondo del lavoro. Ne deriverebbe una società con una democrazia troppo sottile. Milioni di cittadini che campano con poche centinaia di euro e non si sognerebbero mai di mettere in discussione il governo che riempe loro il piatto. Un sistema di vita socialdemocratico che certo non può andar bene a chi vede nel lavoro e nell’indipendenza economica le basi della libertà individuale. Unica libertà degna di tale nome. A chi dice che non ci sono soldi per invertire la rotta e intervenire sui salari, è bene ricordare che i soldi ci sono. Tra gennaio e oggi, il governo tra i numerosi decreti Energia e il dl Aiuti ha stanziato poco più di 29 miliardi di euro. Nel corso dell’anno il reddito di cittadinanza (che è un sussidio e non un salvagente per entrare nel mondo del lavoro) cuba 11 miliardi di euro. Lo stesso l’anno prossimo e gli anni a seguire. Riutilizzando tali importi per tagliare le tasse sul lavoro si creerebbe un effetto leva e un turbo per l’economia. Immaginando di ritornare al reddito di inclusione voluto dal Pd con un discreto valore aggiunto, si potrebbe destinare alla lotta della povertà una cifra vicina ai 5 miliardi. Ne resterebbe dunque 35 per il cuneo fiscale. A oggi il 16,8% delle busta paga è destinato al costo Irpef del lavoratore e il 31,2 alle quote contributive. Di questa fetta il 24% è a carico del dipendente e il rimanente del datore di lavoro. Il gettito Irpef dei lavoratori assomma a circa 80 miliardi di euro. Ne segue che intervenendo con tutto il budget su questa singola categoria resterebbero fuori le partite Iva e gli altri autonomi. Si potrebbe dunque destinare la metà per il taglio secco Irpef e l’altra metà per defiscalizzare gli straordinari e i bonus.
Non solo. Tutte le integrazioni contrattuali in via di definizione (sigla e firma scadute da anni) potrebbero godere dell’intera esenzione fiscale e contributiva. Idem per le nuove assunzioni in specifici settori. In questo modo ne beneficerebbero sia i lavoratori sia gli imprenditori. L’esito sarebbe l’esatto opposto rispetto al salario minimo. I sindacati chiaramente sono contrari. Il loro desiderio non è sostenere l’operaio o l’impiegato, ma perpetuare la propria esistenza. Imponendo un livello minimo di retribuzione, riuscirebbero a imporre un contratto nazionale anche alle Pmi, le uniche rimaste a produrre ricchezza. Seguendo invece la strada del taglio fiscale si potrebbe arrivare ad alleggerire le buste paga addirittura di un 20%. In un interessante report Itinerari previdenziali, presieduto da Alberto Brambilla, spiega che ci sono enormi fette del cuneo incomprimibili. Ad esempio rispetto alla Ral attuale non si possono certo tagliare i contributi pensionistici, sarebbe un autogol per i lavoratori stessi, le loro pensioni e le prestazioni sociali. D’altronde non si possono certo tagliare la maternità o le ferie. Si può invece riequilibrare il baco ed evitare che il 21% della popolazione paghi le tasse per tutti senza nessuna agevolazione. Si potrebbe come scritto sopra intervenire spacchettando i contratti nazionali ed esentando gli aumenti o al massimo tassandoli flat al 15%. Infine, con le risorse liberate sviluppare il welfare aziendale. In questo modo Itinerari previdenziali ipotizza che con i tre punti d’intervento si inciderebbe sul cuneo con un taglio vicino al 20%. Ciò permetterebbe di alzare gli stipendi e alzare la qualità del lavoro stesso. Trend che spingerebbe la produttività almeno in parte.
Certo per quest’ultima serve anche un contesto sociale e civile. Non basta intervenire sulle buste paga o sull’organizzazione aziendale. Serve un contesto. Infrastrutture evolute, alleggerimenti burocratici, una giustizia civile che funzioni e una riforma del comparto pubblico. Troppo comodo scaricare tutto sugli imprenditori. La Pa non può solo essere un costo. Purtroppo la digitalizzazione in corso non sembra portare alcun beneficio al cittadino. Useremo le app ma finiremo con il lasciare al dipendente pubblico l’incarico di stampare i certificati perché possa timbrarli e giustificare la propria presenza. Ecco, la produttività è un insieme di tanti fattori. Purtroppo la politica ne è spesso l’antitesi.
Dopo aver distrutto la produttività la sinistra ora vuole il salario minimo
«Evitare vane rincorse prezzi-salari». Sono le parole con cui - martedì, in occasione delle considerazioni finali sulla relazione annuale 2021 dell’istituto - il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, ha riaperto un dibattito che ci riporta indietro di 30/40 anni nella storia economica del nostro Paese.
Proprio nello stesso giorno l’Istat ha comunicato che a maggio 2022 l’indice di prezzi è cresciuto del 6,9% (7,3% l’indice armonizzato) rispetto a maggio 2021 e siamo al nono mese consecutivo in cui l’inflazione supera il 2%, con gli ultimi tre mesi sempre oltre il 6%. Ormai la pressione sul potere di acquisto delle famiglie non è più un fenomeno transitorio, ma presenta caratteri permanenti che richiedono risposte efficaci e rapide. Ancor più se si considera che tale livello di inflazione - senza precedenti nella storia dell’Eurozona - non è più solo l’effetto dell’aumento dell’energia, ma si riscontra un forte dinamismo nella cosiddetta «componente di fondo» (al netto di costi energetici e alimentari freschi) che a maggio ha fatto segnare una crescita del 3,3% (+2,4% ad aprile).
Secondo il governatore Visco la pressione sui salari si riduce attraverso interventi mirati a carico del bilancio pubblico. Tuttavia, «va evitato il ricorso al debito». Insomma, bisogna raschiare il fondo del barile, come sta facendo il governo Draghi dall’autunno, bloccando altre spese e sperando che le tasse sugli extraprofitti delle imprese del settore energetico portino gli 11 miliardi preventivati. Ma le soluzioni possibili non si esauriscono affatto a quanto fatto finora, perché nell’articolo a fianco si ragiona su altri possibili interventi di ben più ampio respiro, anche sotto la tagliola dei saldi di bilancio invariati.
La Commissione Ue ha di recente comunicato i numeri che raccontano l’impressionante perdita di potere d’acquisto che attende i salariati in Italia. In termini reali (quindi al netto dell’inflazione), dopo il -2,5% del 2021, i salari reali sono attesi diminuire del 3,2% e 1%, rispettivamente per 2022 e 2023. L’inflazione morderà in modo feroce. Soprattutto considerando che, dal 2003, la loro crescita è stata sostanzialmente pari a zero, con i salari nominali che a stento hanno tenuto il passo dell’inflazione. Di fronte a questo panorama, è francamente desolante il quadro delle soluzioni offerte dal fronte politico. Da un lato abbiamo l’arcaico «il problema è la produttività del lavoro», di cui si sono fatti alfieri l’onorevole Luigi Marattin e l’economista Carlo Cottarelli, e già questa insolita comunanza dovrebbe far riflettere. Dall’altro abbiamo il segretario del Pd Enrico Letta che apre al salario minimo, seguito a ruota dal segretario della Cgil, Maurizio Landini, che si lamenta del basso livello degli stipendi, invoca l’adozione del salario minimo, si scaglia contro la precarietà e chiede più investimenti in innovazione e ricerca. Tutto e il contrario di tutto, da parte di chi dovrebbe avere la difesa del potere di acquisto dei salariati in cima ai propri obiettivi istituzionali.
Ma questa confusione non nasce oggi. La produttività del lavoro non è causa ma effetto delle variazioni salariali. Se si rende il lavoro precario e flessibile, cosa volete che accada alla produttività? Cala e si avvita in un circolo vizioso con il livello dei salari. Ma c’è ancora un altro aspetto: la produttività è effetto della domanda che è stata sempre compressa (soprattutto consumi e investimenti pubblici), almeno dal 2012. Da ultimo, in un Paese in cui sono stati sistematicamente ridotti consumi interni e investimenti, come volete che sia stato possibile conseguire quel minimo di crescita che abbiamo avuto dal 2012 al 2019? Attraverso un significativo deprezzamento del cambio reale, cioè fermo il cambio nominale perché aderiamo all’euro, una minore inflazione rispetto a quella dei nostri partner commerciali. E quando si parla di minore inflazione, il costo del lavoro è al primo posto. Bastano poche cifre per fornire un’idea del fenomeno. Nei cinque anni dal 2013 al 2017 (ma anche 2018 e 2019 restituiscono la medesima dinamica) i salari nominali medi pro capite sono cresciuti, in media annua, del 0,6% (1,5% nell’Eurozona), i salari reali sono rimasti stazionari (+0,7% nell’Eurozona). La produttività del lavoro è cresciuta dello 0,3% (0,7% nell’Eurozona). Il risultato finale sul Clup - costo del lavoro per unità di prodotto, che è il rapporto tra salari e produttività - è stato chiaro: è cresciuto solo dello 0,3%, contro lo 0,7% dell’Eurozona. Ecco come abbiamo guadagnato competitività, con una straordinaria stagione di moderazione salariale, che ha più che compensato una modesta dinamica della produttività. Lo stesso dicasi a partire dal 2018 al 2021 e, in previsione, dal 2022 al 2023. La crescita del Clup è sempre inferiore a quella media dell’Eurozona, pur con una produttività che continua a crescere meno rispetto alla media dell’Eurozona.
Vien quindi da chiedersi dove fossero in quegli anni Letta e Landini, che ora si ritrovano, fulminati sulla via di Damasco, a chiedere quel salario minimo a difesa del lavoro precario che è stato invece il carburante di una effimera ripresa con numeri da prefisso telefonico e con costi sociali enormi.
È tutto da dimostrare che il salario minimo riesca a contenere la strutturale tendenza alla deflazione salariale dell’Eurozona o invece provochi un ulteriore schiacciamento verso il basso dei salari. D’altro canto, è ampiamente dimostrato che la produttività arriva con i consumi e gli investimenti ed è bassa anche perché i salari sono bassi. Non il contrario.
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Ansa
Possibile che i politici europei e italiani non abbiano mai letto un qualche manuale di economia? Eppure vi si spiega che anche l’imposizione fiscale, in modo diretto o indiretto, ha un influsso negativo sull’inflazione.
Siccome c’è l’inflazione, cioè l’aumento dei prezzi, dobbiamo usare bene gli immigrati e i profughi perché, costando meno, possono essere un elemento che favorisce il calo dell’inflazione stessa. Il lettore o la lettrice, nel caso in cui ritenessero che il sottoscritto sia impazzito, avrebbero tutte le ragioni, ma segnalo che questo ragionamento non è stato partorito dalla mia più o meno sana e vigile mente, ma è un discorsetto che, come il vento leggero, sta prendendo corpo tra i palazzi del potere a Roma, ovviamente su suggerimento di Bruxelles. È un ragionamento che sembra paragonabile alla situazione degli acquedotti italiani: perde acqua da tutte le parti. Comunque tu provi ad arginarlo esso prosegue perché al fondo è umanamente, politicamente, economicamente, produttivamente quello che Ugo Fantozzi disse dopo aver visto la corazzata Potëmkin: «Una cagata pazzesca». Come ha ben spiegato ieri il direttore Maurizio Belpietro su La Verità.
Se la lettrice e il lettore hanno ancora un po’ di pazienza proviamo anche a spiegare il perché, ma in un certo senso ce ne scusiamo perché è talmente pazzesca, ed è talmente evidente che sia una cagata, che sembra quasi offensivo darne delle spiegazioni e quindi, porgendo le scuse, proviamo a farlo.
L’inflazione - come dicevamo -, lo sanno anche buona parte dei parlamentari e dei ministri, è un aumento generalizzato di prezzi che può avere origini varie. Può derivare, ad esempio, da un aumento delle materie prime, se aumenta il grano aumenterà il costo del pane, se aumenta il gas aumenteranno i costi dell’energia, e se aumentano i costi dell’energia aumenteranno i costi della produzione e questi costi l’imprenditore sarà «costretto» a scaricarli sui prezzi perché, oltre un certo limite, altrimenti, si troverebbe a spendere per produrre una merce più di quanto non guadagni a venderla. Un’altra fonte dell’inflazione - e qui siamo al punto della questione - può derivare dall’aumento dei salari che, anche in questo caso, possono indurre un aumento dei prezzi sia perché ci sono maggiori acquisti sia per i costi che l’azienda deve in qualche modo ammortizzare o, detto più semplicemente, scaricare.
E qui si inserisce il fantasmagorico, inverosimile, fantascientifico ragionamento di questo gruppetto o gruppone di Einstein nostrani dell’economia. Come si fa - si saranno chiesti - a diminuire l’inflazione? Ce li immaginiamo assorti, con aria stralunata, un po' rintontiti come chi è sottoposto a un vento continuo e impetuoso nel proprio cervello perché, essendo muniti di scarsissima quantità di materia grigia, il vento medesimo entra da un orecchio ed esce senza difficolta dall’altro senza incontrare ostacoli e provocando questo stato confusionale che solo può giustificare ragionamenti come quello che dicevamo all’inizio dell’articolo. Dopo lunghi rimugghiamenti ecco il colpo di genio. Ci sono gli immigrati e soprattutto ci sono i profughi che vengono dall’Ucraina, quale miglior occasione per trovare una manodopera a basso costo, incurante naturalmente dei diritti umani e del diritto del lavoro, da poter usare per diminuire l’inflazione? Ma allora, senza sforzarsi molto, perché non estendono e legalizzano il caporalato? Quale miglior strumento per diminuire l’inflazione? Oppure: ma perché mai continuare a combattere il lavoro nero e non usarlo come arma per combattere l’inflazione? Badate che non stiamo scherzando perché la proposta di utilizzare la manodopera di persone, non di animali, che scappano da una sofferenza reale, da una guerra in giusta della quale le colpe sono anche di noi europei, ebbene, pensare solo che questo possa essere un metodo, un modo, una via per diminuire l’inflazione è cosa che fa semplicemente ribrezzo.
Vogliono questi signori diminuire l’inflazione aumentando i salari, cioè quello che rimane in tasca ai lavoratori in modo che abbiamo più soldi a disposizione, anche in una situazione di aumento dei prezzi, in modo tale che non cali la loro possibilità concreta di acquistare merci e servizi? Vogliono questo? Nessuno di loro ha consultato qualche manuale di economia degli ultimi cinquant’anni dove si spiega che anche le tasse, in modo diretto o indiretto, hanno un influsso negativo sull’inflazione? Dobbiamo mandargli un bigino che gli chiarisca le idee? Perché la verità è che questo gruppone di intelligentoni, gira che ti rigira, finisce sempre col dare delle gran bastonate sul groppone dei contribuenti. Questa volta, per giustificare la loro incapacità ormai evidente di procedere ad una riforma fiscale degna di questo nome, hanno partorito quella «monnezza» di idea. Per la verità ci dobbiamo scusare con Platone perché l’idea, come lui ci ha insegnato, è cosa nobile. Dobbiamo passare dalla Grecia alla Roma antica, da Platone a vespasiano non nel senso dell’imperatore ma nel senso del cesso.
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