2022-06-02
Piangono sui salari versati ma poi non tagliano le tasse
Mance e reddito di cittadinanza costano 40 miliardi: si possono utilizzare per ripristinare il Rei e ridurre del 20% il cuneo fiscale.Dopo aver distrutto la produttività la sinistra ora vuole il salario minimo. Il mondo del lavoro è stato rovinato da austerità e precarietà, sposate dalla sinistra. Maurizio Landini e Enrico Letta pensano che la ricetta anti-inflazione sia agire per legge. Ma occorre cambiare modello e tornare a fare investimenti.Lo speciale comprende due articoli. I salari calano, mentre l’inflazione cresce. Non ci vuole un Nobel in economia per capire che abbiamo un grosso problema. Non ci vuole nemmeno un esperto bellico per affrontare il tema. La guerra in Ucraina è infatti solo una aggravante. Gli inghippi del mondo del lavoro, gli incagli della scarsa produttività e i rialzi delle materie prime hanno un’origine più antica. Piangere sulle mancate retribuzioni e inchiodarle con tasse esose non è più accettabile. Dovremmo tutti ammettere che in autunno arriverà un uragano finanziario dovuto al prolungamento della guerra e soprattutto al rialzo dei tassi da parte della Federal reserve americana. Intervenire sul mondo del lavoro è un dei pochi modi per dare un salvagente ai cittadini e aiutarli a non essere travolti dall’onda dell’iperinflazione. Purtroppo, nelle ultime indicazioni diffuse, la Commissione Ue pensa di alzare la produttività e i margini delle aziende comprimendo ancor di più i salari. Anzi, possibilmente sfruttando profughi sottopagati per coprire i posti di lavoro e renderli ogni anno a valore aggiunto sempre inferiore. D’altro canto vuole spendere miliardi per sussidiare chi viene espulso o si esclude dal mondo del lavoro. Ne deriverebbe una società con una democrazia troppo sottile. Milioni di cittadini che campano con poche centinaia di euro e non si sognerebbero mai di mettere in discussione il governo che riempe loro il piatto. Un sistema di vita socialdemocratico che certo non può andar bene a chi vede nel lavoro e nell’indipendenza economica le basi della libertà individuale. Unica libertà degna di tale nome. A chi dice che non ci sono soldi per invertire la rotta e intervenire sui salari, è bene ricordare che i soldi ci sono. Tra gennaio e oggi, il governo tra i numerosi decreti Energia e il dl Aiuti ha stanziato poco più di 29 miliardi di euro. Nel corso dell’anno il reddito di cittadinanza (che è un sussidio e non un salvagente per entrare nel mondo del lavoro) cuba 11 miliardi di euro. Lo stesso l’anno prossimo e gli anni a seguire. Riutilizzando tali importi per tagliare le tasse sul lavoro si creerebbe un effetto leva e un turbo per l’economia. Immaginando di ritornare al reddito di inclusione voluto dal Pd con un discreto valore aggiunto, si potrebbe destinare alla lotta della povertà una cifra vicina ai 5 miliardi. Ne resterebbe dunque 35 per il cuneo fiscale. A oggi il 16,8% delle busta paga è destinato al costo Irpef del lavoratore e il 31,2 alle quote contributive. Di questa fetta il 24% è a carico del dipendente e il rimanente del datore di lavoro. Il gettito Irpef dei lavoratori assomma a circa 80 miliardi di euro. Ne segue che intervenendo con tutto il budget su questa singola categoria resterebbero fuori le partite Iva e gli altri autonomi. Si potrebbe dunque destinare la metà per il taglio secco Irpef e l’altra metà per defiscalizzare gli straordinari e i bonus. Non solo. Tutte le integrazioni contrattuali in via di definizione (sigla e firma scadute da anni) potrebbero godere dell’intera esenzione fiscale e contributiva. Idem per le nuove assunzioni in specifici settori. In questo modo ne beneficerebbero sia i lavoratori sia gli imprenditori. L’esito sarebbe l’esatto opposto rispetto al salario minimo. I sindacati chiaramente sono contrari. Il loro desiderio non è sostenere l’operaio o l’impiegato, ma perpetuare la propria esistenza. Imponendo un livello minimo di retribuzione, riuscirebbero a imporre un contratto nazionale anche alle Pmi, le uniche rimaste a produrre ricchezza. Seguendo invece la strada del taglio fiscale si potrebbe arrivare ad alleggerire le buste paga addirittura di un 20%. In un interessante report Itinerari previdenziali, presieduto da Alberto Brambilla, spiega che ci sono enormi fette del cuneo incomprimibili. Ad esempio rispetto alla Ral attuale non si possono certo tagliare i contributi pensionistici, sarebbe un autogol per i lavoratori stessi, le loro pensioni e le prestazioni sociali. D’altronde non si possono certo tagliare la maternità o le ferie. Si può invece riequilibrare il baco ed evitare che il 21% della popolazione paghi le tasse per tutti senza nessuna agevolazione. Si potrebbe come scritto sopra intervenire spacchettando i contratti nazionali ed esentando gli aumenti o al massimo tassandoli flat al 15%. Infine, con le risorse liberate sviluppare il welfare aziendale. In questo modo Itinerari previdenziali ipotizza che con i tre punti d’intervento si inciderebbe sul cuneo con un taglio vicino al 20%. Ciò permetterebbe di alzare gli stipendi e alzare la qualità del lavoro stesso. Trend che spingerebbe la produttività almeno in parte. Certo per quest’ultima serve anche un contesto sociale e civile. Non basta intervenire sulle buste paga o sull’organizzazione aziendale. Serve un contesto. Infrastrutture evolute, alleggerimenti burocratici, una giustizia civile che funzioni e una riforma del comparto pubblico. Troppo comodo scaricare tutto sugli imprenditori. La Pa non può solo essere un costo. Purtroppo la digitalizzazione in corso non sembra portare alcun beneficio al cittadino. Useremo le app ma finiremo con il lasciare al dipendente pubblico l’incarico di stampare i certificati perché possa timbrarli e giustificare la propria presenza. Ecco, la produttività è un insieme di tanti fattori. Purtroppo la politica ne è spesso l’antitesi.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-governo-da-bonus-invece-di-usare-i-fondi-per-tagliare-le-tasse-2657438132.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="dopo-aver-distrutto-la-produttivita-la-sinistra-ora-vuole-il-salario-minimo" data-post-id="2657438132" data-published-at="1654111416" data-use-pagination="False"> Dopo aver distrutto la produttività la sinistra ora vuole il salario minimo «Evitare vane rincorse prezzi-salari». Sono le parole con cui - martedì, in occasione delle considerazioni finali sulla relazione annuale 2021 dell’istituto - il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, ha riaperto un dibattito che ci riporta indietro di 30/40 anni nella storia economica del nostro Paese. Proprio nello stesso giorno l’Istat ha comunicato che a maggio 2022 l’indice di prezzi è cresciuto del 6,9% (7,3% l’indice armonizzato) rispetto a maggio 2021 e siamo al nono mese consecutivo in cui l’inflazione supera il 2%, con gli ultimi tre mesi sempre oltre il 6%. Ormai la pressione sul potere di acquisto delle famiglie non è più un fenomeno transitorio, ma presenta caratteri permanenti che richiedono risposte efficaci e rapide. Ancor più se si considera che tale livello di inflazione - senza precedenti nella storia dell’Eurozona - non è più solo l’effetto dell’aumento dell’energia, ma si riscontra un forte dinamismo nella cosiddetta «componente di fondo» (al netto di costi energetici e alimentari freschi) che a maggio ha fatto segnare una crescita del 3,3% (+2,4% ad aprile). Secondo il governatore Visco la pressione sui salari si riduce attraverso interventi mirati a carico del bilancio pubblico. Tuttavia, «va evitato il ricorso al debito». Insomma, bisogna raschiare il fondo del barile, come sta facendo il governo Draghi dall’autunno, bloccando altre spese e sperando che le tasse sugli extraprofitti delle imprese del settore energetico portino gli 11 miliardi preventivati. Ma le soluzioni possibili non si esauriscono affatto a quanto fatto finora, perché nell’articolo a fianco si ragiona su altri possibili interventi di ben più ampio respiro, anche sotto la tagliola dei saldi di bilancio invariati. La Commissione Ue ha di recente comunicato i numeri che raccontano l’impressionante perdita di potere d’acquisto che attende i salariati in Italia. In termini reali (quindi al netto dell’inflazione), dopo il -2,5% del 2021, i salari reali sono attesi diminuire del 3,2% e 1%, rispettivamente per 2022 e 2023. L’inflazione morderà in modo feroce. Soprattutto considerando che, dal 2003, la loro crescita è stata sostanzialmente pari a zero, con i salari nominali che a stento hanno tenuto il passo dell’inflazione. Di fronte a questo panorama, è francamente desolante il quadro delle soluzioni offerte dal fronte politico. Da un lato abbiamo l’arcaico «il problema è la produttività del lavoro», di cui si sono fatti alfieri l’onorevole Luigi Marattin e l’economista Carlo Cottarelli, e già questa insolita comunanza dovrebbe far riflettere. Dall’altro abbiamo il segretario del Pd Enrico Letta che apre al salario minimo, seguito a ruota dal segretario della Cgil, Maurizio Landini, che si lamenta del basso livello degli stipendi, invoca l’adozione del salario minimo, si scaglia contro la precarietà e chiede più investimenti in innovazione e ricerca. Tutto e il contrario di tutto, da parte di chi dovrebbe avere la difesa del potere di acquisto dei salariati in cima ai propri obiettivi istituzionali. Ma questa confusione non nasce oggi. La produttività del lavoro non è causa ma effetto delle variazioni salariali. Se si rende il lavoro precario e flessibile, cosa volete che accada alla produttività? Cala e si avvita in un circolo vizioso con il livello dei salari. Ma c’è ancora un altro aspetto: la produttività è effetto della domanda che è stata sempre compressa (soprattutto consumi e investimenti pubblici), almeno dal 2012. Da ultimo, in un Paese in cui sono stati sistematicamente ridotti consumi interni e investimenti, come volete che sia stato possibile conseguire quel minimo di crescita che abbiamo avuto dal 2012 al 2019? Attraverso un significativo deprezzamento del cambio reale, cioè fermo il cambio nominale perché aderiamo all’euro, una minore inflazione rispetto a quella dei nostri partner commerciali. E quando si parla di minore inflazione, il costo del lavoro è al primo posto. Bastano poche cifre per fornire un’idea del fenomeno. Nei cinque anni dal 2013 al 2017 (ma anche 2018 e 2019 restituiscono la medesima dinamica) i salari nominali medi pro capite sono cresciuti, in media annua, del 0,6% (1,5% nell’Eurozona), i salari reali sono rimasti stazionari (+0,7% nell’Eurozona). La produttività del lavoro è cresciuta dello 0,3% (0,7% nell’Eurozona). Il risultato finale sul Clup - costo del lavoro per unità di prodotto, che è il rapporto tra salari e produttività - è stato chiaro: è cresciuto solo dello 0,3%, contro lo 0,7% dell’Eurozona. Ecco come abbiamo guadagnato competitività, con una straordinaria stagione di moderazione salariale, che ha più che compensato una modesta dinamica della produttività. Lo stesso dicasi a partire dal 2018 al 2021 e, in previsione, dal 2022 al 2023. La crescita del Clup è sempre inferiore a quella media dell’Eurozona, pur con una produttività che continua a crescere meno rispetto alla media dell’Eurozona. Vien quindi da chiedersi dove fossero in quegli anni Letta e Landini, che ora si ritrovano, fulminati sulla via di Damasco, a chiedere quel salario minimo a difesa del lavoro precario che è stato invece il carburante di una effimera ripresa con numeri da prefisso telefonico e con costi sociali enormi. È tutto da dimostrare che il salario minimo riesca a contenere la strutturale tendenza alla deflazione salariale dell’Eurozona o invece provochi un ulteriore schiacciamento verso il basso dei salari. D’altro canto, è ampiamente dimostrato che la produttività arriva con i consumi e gli investimenti ed è bassa anche perché i salari sono bassi. Non il contrario.
«The Iris Affair» (Sky Atlantic)
La nuova serie The Iris Affair, in onda su Sky Atlantic, intreccia azione e riflessione sul potere dell’Intelligenza Artificiale. Niamh Algar interpreta Iris Nixon, una programmatrice in fuga dopo aver scoperto i pericoli nascosti del suo stesso lavoro.