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L’Ue ci presta soldi (nostri). Ma solo dall'anno prossimo

L’Ue ci presta soldi (nostri). Ma solo dall'anno prossimo
Giuseppe Conte e Ursula von der Leyen (Ansa)

Come sarebbe andata a finire l'ho capito lunedì sera, in tv. Durante la puntata di Stasera Italia, su Rete 4, mi è toccato ascoltare il ministro dei Rapporti con il Parlamento, il grillino Federico D'Incà, magnificare i risultati raggiunti da Giuseppe Conte durante il Consiglio europeo. Per l'occasione, l'onorevole pentastellato ha usato tutto l'armamentario di iperboli e superlativi di cui disponeva. Che l'accordo sul Recovery fund ancora non fosse stato concluso e dunque non si avesse nessuna certezza delle condizioni a cui l'Italia avrebbe dovuto adeguarsi per ottenere i soldi, è stato evidentemente giudicato dal ministro un irrilevante dettaglio. Al che, sentendo D'Incà, ho pensato: se queste sono le premesse, cioè se questo è il giudizio prima ancora di vedere uno straccio di testo scritto, chissà che diranno dopo, quando l'accordo bisognerà glorificarlo a ogni costo, perché dirne male equivarrebbe a far cadere il governo e chiudere in anticipo la legislatura.

Infatti, una volta conclusa la trattativa e sottoscritta l'intesa, Palazzo Chigi e i suoi sostenitori hanno dato fiato alle trombe, parlando di miglior risultato possibile, di storico passaggio e addirittura di evento migliore dopo la nascita dell'euro. Insomma, un successone, di Conte e della maggioranza che lo sostiene. Ma le cose stanno davvero così? Per capirlo è sufficiente riavvolgere il nastro del film e rivedere ciò che era stato detto all'inizio, quando la discussione sui fondi europei post Covid non era praticamente ancora entrata nel vivo. Il 18 maggio, alla notizia di una dote finanziaria a fondo perduto di almeno 500 miliardi, il presidente del Consiglio aveva twittato con entusiasmo un «siamo solo all'inizio», lasciando intendere che quello fosse il punto di partenza e non di arrivo. In realtà, i 500 miliardi sono stati il punto di partenza, peccato che l'arrivo sia stato percorso in retromarcia, perché alla fine i contributi a fondo perduto assommano a 390 miliardi, 110 in meno di quelli che per Conte erano la base della discussione. Ma mentre il capo del governo giallorosso cinguettava, i Paesi frugali, quelli che poi si sono opposti con tutte le forze a dare soldi all'Italia, che cosa dicevano? Per loro la linea del Piave era assestata a 400 miliardi. Risultato, il successone è rappresentato da 390 miliardi, 10 meno di quella che da Rutte e i suoi amici era considerata la cifra insuperabile. Già questo dovrebbe aiutare a capire chi ha vinto e chi ha perso ma, a voler entrare nel dettaglio, c'è dell'altro.

Conte si consola dicendo che all'Italia, di quei 390 miliardi, andrà una fetta cospicua, pari ad almeno 81,4 miliardi a cui si dovranno sommare 127,4 miliardi di prestiti. Secondo il premier, che aveva fissato a 70 miliardi il limite minimo di sussidi da portare a casa, l'accordo prevederebbe ben 11,4 miliardi in più. In totale, tra finanziamenti a fondo perduto e prestiti, la cifra arriverebbe dunque alla strabiliante somma di 209 miliardi, un contributo mai visto dal nostro Paese. Peccato però che le cose non stiano come l'ufficio propaganda del governo sta raccontando agli italiani. I sussidi, quelli che non si dovranno restituire, ammontano infatti a 68 miliardi, due di meno di quanto il presidente del Consiglio considerava il risultato sotto il quale non si poteva andare. A 81,4 miliardi si arriva aggiungendone 13 di fondi residuali, che però non sono certi, ma frutto di una stima del governo che difficilmente potrà essere tradotta in pratica. Il pacchetto di fondi residuali all'inizio della discussione raggiungeva infatti la cifra di 190 miliardi da distribuirsi su tutti i Paesi europei, ma alla fine si è ridotto a 77,5. Possibile che più di un sesto di questa somma finisca nelle tasche dell'Italia? No e infatti a quei 13 miliardi aggiuntivi credono in pochi.

Come detto, per arrivare ai 209 miliardi sbandierati da Conte bisogna poi aggiungere 127,4 miliardi di prestiti, che però non sono a fondo perduto, ma dovranno essere restituiti e dunque sono debito che si va ad aggiungere a quello che già abbiamo. Finalmente però avremo una montagna di soldi da spendere, potrebbe obiettare qualcuno. Alt: questi fondi arriveranno a partire dal 2021 e saranno spalmati su più anni, dunque il prossimo anno la «pioggia di denaro» si limiterà a 20 miliardi, all'incirca ciò che l'Italia avrebbe potuto raccogliere con un'emissione di titoli di Stato, senza dover discutere e soprattutto senza dover sottostare a condizioni. Scrive Limes, che non è un organo sovranista ma un autorevole rivista di studi internazionali, che dopo tre notti insonni a vedere la luce è stato «il super freno di emergenza». In pratica, i piani di investimento saranno vagliati dal Consiglio europeo, che potrà vararli a maggioranza, ma con l'ausilio di un comitato economico e finanziario, cioè di tecnici, che valuterà il rispetto delle tabelle di marcia e degli obiettivi fissati. Ma in ogni momento un Paese dell'Unione potrà chiedere di rivalutare il rispetto degli accordi davanti al Consiglio europeo, con conseguenti trattative sottobanco, proprio come è accaduto in queste notti.

Già, perché i frugali che si opponevano ai soldi all'Italia, alla fine hanno ceduto non per sfinimento, ma perché hanno avuto ciò che volevano, ovvero un aumento del rebate. In pratica, hanno ottenuto uno storno di parte dei contributi versati all'Europa. Centinaia di milioni che mancheranno al bilancio comunitario e che i Paesi che sono contributori netti, tra i quali l'Italia, dovranno ripianare. Tradotto, da un lato il nostro Paese incassa, dall'altro paga. Facendo i conti, è assai probabile che alla fine sarà più quel che pagherà di quanto incasserà perché, come scrive sempre Limes, i soldi a fondo perduto non arrivano dallo Spirito Santo, ma sono denaro che l'Europa dovrà rimborsare a chi ha sottoscritto il suo debito. In pratica, o pagheranno gli Stati con il loro bilancio o pagheranno i contribuenti, a cui la Ue imporrà le sue tasse, che ovviamente si sommeranno a quelle nazionali.

Chiaro, no? È stato un successone. Dunque, fiato alle trombe. E, soprattutto, ai tromboni.

«Oggi c’è la dittatura del sapore che va a completare quella del sapere»
Diego Fusaro (Imagoeconomica)
Il filosofo Diego Fusaro: «Il cibo nutre la pancia ma anche la testa. È in atto una vera e propria guerra contro la nostra identità culinaria».

La filosofia si nutre di pasta e fagioli, meglio se con le cotiche. La filosofia apprezza molto l’ossobuco alla milanese con il ris giald, il riso allo zafferano giallo come l’oro. E i bucatini all’amatriciana? I saltinbocca alla romana? La finocchiona toscana? La filosofia è ghiotta di questa e di quelli. È ghiotta di ogni piatto che ha un passato, una tradizione, un’identità territoriale, una cultura. Lo spiega bene Diego Fusaro, filosofo, docente di storia della filosofia all’Istituto alti studi strategici e politici di Milano, autore del libro La dittatura del sapore: «La filosofia va a nozze con i piatti che si nutrono di cultura e ci aiutano a combattere il dilagante globalismo guidato dalle multinazionali che ci vorrebbero tutti omologati nei gusti, con le stesse abitudini alimentari, con uno stesso piatto unico. Sedersi a tavola in buona compagnia e mangiare i piatti tradizionali del proprio territorio è un atto filosofico, culturale. La filosofia è pensiero e i migliori pensieri nascono a tavola dove si difende ciò che siamo, la nostra identità dalla dittatura del sapore che dopo averci imposto il politicamente corretto vorrebbe imporci il gastronomicamente corretto: larve, insetti, grilli».

La saudita Pif investe in Leonardo
Leonardo
Il fondo è pronto a entrare nella divisione aerostrutture della società della difesa. Possibile accordo già dopo l’incontro di settimana prossima tra Meloni e Bin Salman.

La data da segnare con il circoletto rosso nell’agenda finanziaria è quella del 3 dicembre. Quando il presidente del consiglio, Giorgia Meloni, parteciperà al quarantaseiesimo vertice del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg), su espressa richiesta del re del Bahrein, Hamad bin Isa Al Khalifa. Una presenza assolutamente non scontata, perché nella Penisola araba sono solitamente parchi con gli inviti. Negli anni hanno fatto qualche eccezione per l’ex premier britannica Theresa May, l’ex presidente francese François Hollande e l’attuale leader cinese Xi Jinping e poco altro.

L’Ue accusa il Golden power di Roma mentre Macron nazionalizza Arcelor
Emmanuel Macron (Ansa)
Bruxelles apre una procedura sull’Italia per le banche e tace sull’acciaio transalpino.

L’Europa continua a strizzare l’occhio alla Francia, o meglio, a chiuderlo. Questa volta si tratta della nazionalizzazione di ArcelorMittal France, la controllata transalpina del colosso dell’acciaio indiano. La Camera dei deputati francese ha votato la proposta del partito di estrema sinistra La France Insoumise guidato da Jean-Luc Mélenchon. Il provvedimento è stato approvato con il supporto degli altri partiti di sinistra, mentre Rassemblement National ha ritenuto di astenersi. Manca il voto in Senato dove l’approvazione si preannuncia più difficile, visto che destra e centro sono contrari alla nazionalizzazione e possono contare su un numero maggiore di senatori. All’Assemblée Nationale hanno votato a favore 127 deputati contro 41. Il governo è contrario alla proposta di legge, mentre il leader di La France Insoumise, Mélenchon, su X ha commentato: «Una pagina di storia all’Assemblea nazionale».

«La famiglia nel bosco era molto unita. Errore dividerla, trauma per i bimbi»
Maria Rita Parsi (Imagoeconomica)
La celebre psicologa e psicoterapeuta Maria Rita Parsi: «È mancata la gradualità nell’allontanamento, invece è necessaria Il loro stile di vita non era così contestabile da determinare quanto accaduto. E c’era tanto amore per i figli».

Maria Rita Parsi, celebre psicologa e psicoterapeuta, è stata tra le prime esperte a prendere la parola sulla vicenda della famiglia del bosco.

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