Venerdì il ministro Alessandro Giuli incontrerà i rappresentanti del settore per affrontare il tema tax credit. L’avvocato Michele Lo Foco, tra i massimi esperti di legislazione cinematografica, inquadra il nodo: «Al comparto sono finiti 4 miliardi di aiuti perché nessuno fa i controlli».
Venerdì il ministro Alessandro Giuli incontrerà i rappresentanti del settore per affrontare il tema tax credit. L’avvocato Michele Lo Foco, tra i massimi esperti di legislazione cinematografica, inquadra il nodo: «Al comparto sono finiti 4 miliardi di aiuti perché nessuno fa i controlli».Quella appena iniziata è una settimana cruciale per il cinema italiano. Dopo la lettera aperta firmata da numerosi professionisti del settore per denunciare «la gravità della crisi in corso», venerdì 6 giugno, al mattino, ci sarà il primo incontro tra il ministro della Cultura, Alessandro Giuli, che si è tirato addosso le contumelie di attori (in primis, Elio Germano) e comici radical chic per le sue posizioni critiche nei confronti dei contributi a pioggia dati per anni dallo Stato al settore, e una delegazione composta da esperti rappresentanti delle principali componenti del sistema cinema, con la partecipazione degli attori Claudio Santamaria e Giuseppe Fiorello come portavoce dei firmatari della lettera (siglata tra gli altri da Marco Bellocchio, Paola Cortellesi, Pierfrancesco Favino, Nanni Moretti, Paolo Sorrentino e Luca Zingaretti) che chiede, sostanzialmente, al governo Meloni di rivedere la stretta sui contributi all’industria cinematografica.Sul tavolo dell’atteso confronto ci sarà la riforma del tax credit, l’incentivo fiscale che permette alle imprese che investono in un film di beneficiare di una riduzione fiscale da un minimo del 20% fino al 40% del budget. Il sussidio statale è stato introdotto nel 2008 e riformato nel 2016 con la legge Franceschini.«Questa sovvenzione ha comportato per lo stato esborsi calcolati approssimativamente in 4 miliardi di euro. Il tax credit ha condizionato e condiziona tutt’ora le logiche produttive, trasformandosi in una modalità illecita se non deliquenziale, di facile attuazione». A parlare è l’avvocato Michele Lo Foco, avvocato specializzato in diritto d’autore, che ha svolto incarichi in società quali Cinecittà holding, Zetema (la partecipata del Comune di Roma che gestisce le attività nel settore cultura), Rai, Fondazione Cinema per Roma ed è attualmente membro del Consiglio superiore della cinematografia e dell’audiovisivo presso il ministero della Cultura. A lui si deve il grafico qui accanto: mostra il buco da 89 milioni di euro che 10 società di produzione, quasi tutte in mani straniere ma operanti in Italia, hanno accumulato in solo cinque anni, dal 2019 al 2023. A fronte di produzioni cinematografiche costate in totale 675 milioni di euro, le case hanno ricevuto tax credit per 255 milioni di euro a fronte di un botteghino che ha piangere: solo 165 i milioni incassati dalla vendita dei biglietti.«C’è stato l’arrembaggio delle società straniere all’Italia», chiosa Lo Foco, «perché quando si è sparsa la notizia che qui si regalano soldi, sono venuti da tutte le parti o aprendo una filiale nel nostro Paese, oppure acquistando delle società esistenti, anche ben accreditate. Sono le società che io chiamo “finte italiane”. Di alcune non sappiamo neanche di chi sia la proprietà. Quelle che sono davvero tricolori sono le piccole e medie imprese che sono quelle che soffrono maggiormente della mancanza di attenzione nei loro confronti. Sono i famosi produttori indipendenti che, “grazie” a una norma che usiamo solo in Italia, non vengono identificati come tali perché, in realtà, lo può essere chiunque. La definizione che si usa comunemente nel nostro Paese per identificare un “produttore indipendente” consente a tutte le case, perfino alla Warner, di essere riconosciute come tali. Solo a modificare questa stortura, immediatamente i benefici economici andrebbero alle società più piccole e più bisognose di attenzione. I grandi gruppi non hanno bisogno del tax credit, potrebbero stare in piedi da soli e con il solo prodotto commerciale». Per esempio se faccio un film con Paolo Sorrentino, che ritengo possa essere venduto in tutto il mondo perché è uno dei nostri registi di punta, non dovrei aver bisogno del sostegno sostale: il film potrebbe stare in piedi da solo. «Invece noi abbiamo una situazione paradossale per cui un film come quello di Luca Guadagnino, Queer, costa 52 milioni di euro e prende 18 milioni di contributi statali. È un film normale, non ha guadagnato neanche un milione di euro al box office ma costa così tanto. Il costo medio di una nostra produzione si aggira intorno ai 3,5 milioni di euro. Pupi Avati, per esempio, prende 200.000 euro per fare un film. Perché Saverio Costanzo, Nanni Moretti prendono, invece, oltre un milione di euro?».La questione dei costi «gonfiati» è finita al centro anche di un’inchiesta avviata dalla Procura di Roma dopo un esposto presentato dallo stesso Lo Foco. Nel mirino del legale sono finite alcune produzioni: La chimera di Alice Rohrwacher. (3,3 milioni di tax credit), Il sol dell’avvenire di Moretti (5), L’immensità di Emanuele Crialese (6), Siccità di Paolo Virzì (4), The equilizer 3 con Denzel Washington (30 milioni), Fast and furious 10 (10), Viola come il mare (3,65) e Finalmente l’alba di Saverio Costanzo (9 milioni). Su queste produzioni sta indagando la Guardia di finanza, che ha acquisito numerosi documenti tra cui i cachet delle star coinvolte.«Queste cifre sono il prodotto di questo perverso meccanismo messo in piedi da Dario Franceschini. Da quando è entrata in vigore la sua legge, i costi dei film si sono decuplicati, esattamente come avvenne quando Walter Veltroni individuò la “caratteristica culturale” di una pellicola e improvvisamente tutti i registi di sinistra si sono mossi per fare film “culturali”».Quello che manca a monte di questo meccanismo di agevolazioni all’industria cinematografica è il controllo statale: i budget dei film finiscono al ministero e ricevono quello che si chiama «eleggibilità», una sorta di avvallo all’opera. Ma a «garantire», per così dire, la bontà del budget indicato per la realizzazione della pellicola ci pensa «l’asseveratore», un commercialista scelto dalle società che dichiara che il prezzo stimato è quello giusto (il suo guadagno è in base al prezzo che «certifica»). Quando il film ha l’eleggibilità ministeriale, parte automaticamente il meccanismo dell’anticipo del tax credit. «Al ministero nessuno controlla quanto dichiarato dall’asseveratore», continua Lo Foco, «ho presentato l’esposto perché è impensabile che nessuno dica niente su questo sistema. Ci sono persone perbene che dichiarano il vero, alcuni registi-produttori hanno ipotecato la propria casa per girare una pellicola, ma tantissimi altri non sono onesti e hanno, invece, comprato case, immobili, lavatrici e giacche con il tax credit». Tutto questo perché le fatture presentate al ministero non devono riportare il nome del film: «Questa è una delle modifiche che dovrebbero comparire nel nuovo decreto, almeno si dovrà riportare il nome del film», avverte Lo Foco, «ma a oggi non è così. Questo lo chiamo “il sacco di Roma”».Tutto questo ha avuto conseguenze nel settore cinematografico: «Il film deve nascere dalla scrittura, deve avere un soggetto e una sceneggiatura scritti da professionisti. Il cinema di oggi, purtroppo, è fatto da commercialisti. Del soggetto e della sceneggiatura non interessa a nessuno. L’intento di tutti è uno solo: aumentare le fatture, concordarle tra di loro. E basta». È un sistema talmente collaudato e consolidato che «tutti quelli che potevano sono andati a tuffarvici», prosegue Lo Foco, «questa legge di Franceschini sembra scritta da Topo Gigio, ha consentito a tutti di entrare nel meccanismo. E noi siamo ancora in questa situazione, non c’è alcun controllo».Altro fronte aperto è quello dei contributi automatici: una volta erano pari al 13% dell’incasso lordo, oggi sono un misto tra incasso e la cosiddetta «qualità del prodotto»: «Sono in ritardo di 5 anni», spiega Lo Foco», «perché nessuno sa quanto sia il totale che debba pagare lo Stato. Per ogni film ci dovrebbe essere un incaricato per controllare l’incasso, valutare in quali festival è andato il prodotto, se è stato invitato o è andato in cinquina per attribuirgli un numero che serve per individuare il contributo. La realtà è che la legislazione cinematografica sta al disastro».
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Il luogo comune lo vuole abile comunicatore, ma l’ex premier pare più che altro un «battutaro» dai rapporti altalenanti con la stampa. Grazie all’assenza di un vero leader progressista, resta (a stento) a galla, mentre oggi si chiude la Leopolda che liquida Italia viva.
lUrsula von der Leyen (Ansa)
Il presidente della Commissione, ospite alla Tech Week di Torino, strizza l’occhio al patron di Stellantis sui veicoli elettrici: «L’Ue ha un piano d’azione per l’automotive, dalle batterie ai costi più accessibili». Progetto però ancora sconosciuto pure a Bruxelles.
Papa Leone XIV (Getty)
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