2018-08-20
Ci chiamano maramaldi perché, roba da matti, facciamo nomi e cognomi
Ma davvero, a proposito della strage di Genova, se si fa il nome dei Benetton si è dei «maramaldi populisti che hanno sempre bisogno di gogna», come ha sostenuto ieri Antonio Polito sul Corriere della Sera? Davvero scrivere che la famiglia di Ponzano Veneto è la proprietaria di Autostrade, e dunque è responsabile di ciò che l'azienda ha fatto o non ha fatto negli ultimi anni, come lo è qualsiasi azionista di riferimento in un'impresa, è un modo di personalizzare e dunque di aizzare la rabbia della folla?Usando il criterio del quotidiano di via Solferino, che ha taciuto per quattro giorni ogni riferimento al socio di controllo di Autostrade per l'Italia, così come ha fatto la maggior parte della stampa italiana, dunque avremmo dovuto parlare impersonalmente della società che gestisce 3.000 chilometri di autostrade in Italia, evitando qualsiasi cenno al nome degli imprenditori che ne guidano le scelte e ne incassano gli abbondanti dividendi? Battersi per le pecore e per i migranti, finanziando campagne pubblicitarie milionarie da pubblicarsi sulla stragrande maggioranza dei giornali, essere dunque imprenditori chic e illuminati, fa forse guadagnare il diritto alla riservatezza in caso di tragedie o gravi incidenti come quello della vigilia di Ferragosto? Eppure non è sempre stato così. La stampa indipendente, quella che dedica una pagina intera al dolore dei Benetton, ma solo dopo quattro giorni di rigoroso silenzio sui collegamenti fra il gruppo dei maglioni colorati e il crollo del ponte Morandi e dopo che altri invece li hanno resi pubblici, in passato non ha segretato il nome dei protagonisti, seppure indiretti, di gravi fatti che hanno colpito l'opinione pubblica. Quando alla Thyssen una colata incandescente bruciò la vita di sette operai, nessuno si pose il problema se parlare o meno dell'azienda e dei suoi vertici. Prima ancora che fosse accertata qualsiasi responsabilità penale, i dirigenti finirono subito sul banco degli imputati, attaccati da sindacati, politica e stampa. La delicatezza riservata ai Benetton non è certo stata usata con Stephan Schmidheiny, il proprietario di Eternit, azienda accusata di aver provocato la morte di molti suoi dipendenti con le polveri di scarto delle lavorazioni. Eppure anche Schmidheiny è un noto filantropo e, come i Benetton, è una persona schiva, ma questo non lo ha certo messo al riparo dai «maramaldi populisti che hanno sempre bisogno di una gogna», i quali hanno scandagliato la sua vita e le sue abitudini esponendoli alla «rabbia della folla». Perché allora, invece di raccontare come la grande famiglia di Ponzano Veneto abbia trascorso la giornata successiva alla strage di Genova, descrivendo una festa di Ferragosto che neppure l'elenco delle vittime ha indotto a rinviare, la grande stampa ha preferito nel caso dei Benetton concentrarsi sul dolore composto e riservatissimo, in quanto mai espresso, di Luciano, Giuliana, Gilberto? Eppure il contrasto era stridente. A Genova si scavava con le mani per tirar fuori i corpi e a Cortina si serviva un menù a base di pesce, ma i maramaldi siamo noi della Verità che abbiamo rivelato l'appuntamento ferragostano. A nessuno dei garbati giornalisti che oggi reclamano il bon ton per i grandi imprenditori dei maglioni viene da chiedersi se i maramaldi non siano altri, ossia quelli che hanno operato scelte che il 14 agosto sono state pagate con 43 vite umane. Invece di accorrere alla conferenza stampa di Giovanni Castellucci e di Fabio Cerchiai per ascoltare le finte scuse di una società che fin dalle prime ore si era dimostrata insensibile e indifferente alla tragedia, la stampa tanto gentile con i Benetton avrebbe dovuto pretendere che a quell'incontro si presentassero i veri padroni dell'azienda, cioè coloro che in 15 anni hanno incassato 9,5 miliardi di utili. Invece ai cronisti si è presentato un amministratore delegato che non è stato neppure in grado di chiedere scusa e di offrire le proprie dimissioni, ma solo un mucchio di soldi per allontanare da sé e dai suoi padroni ogni responsabilità. Qui non si tratta di essere maramaldi o meno. Si tratta di non essere camerieri. Ps. Dall'oltretomba in cui gli italiani e anche il suo partito lo hanno confinato, ieri si è fatto vivo Romano Prodi, il quale a proposito della privatizzazione di Autostrade non ha saputo fare altro che scaricare le responsabilità su Paolo Savona. Colpa del ministro dei rapporti con l'Europa se 20 anni fa l'azienda fu regalata dallo Stato ai Benetton. Prodi è stato colui che ha apparecchiato la privatizzazione e nel 2007, mentre si ridiscutevano i termini della concessione, era a Palazzo Chigi, ma come le famose scimmiette non ha visto né sentito nulla. Eppure chi sia stato al governo negli ultimi 20 anni non può non essersi reso conto che un'infrastruttura dello Stato era stata affidata a un privato lasciando che questi si comportasse da padrone, cioè senza alcun controllo su un servizio di pubblica utilità. Un'anomalia sottolineata anche dal procuratore capo di Genova. Prodi non sapeva nulla di tutto ciò? Beh, anche questo è un modo che ci aiuta a capire il valore di un uomo politico.
Roberto Occhiuto (Imagoeconomica)
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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