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2018-06-09
Centrodestra unito pronto a demolire le ultime roccaforti del Pd allo sbando
ANSA
Al voto, al voto! Neanche il tempo di digerire i 90 giorni di crisi politica che hanno portato alla nascita del governo guidato da Giuseppe Conte, ed ecco che quasi 7 milioni di italiani (per la precisione 6.749.654, il 13,9% dell'elettorato nazionale) sono chiamati alle urne per eleggere sindaci e consiglieri di 761 Comuni. Si vota domani, domenica 10 giugno, dalle 7 alle 23; l'eventuale turno di ballottaggio, per i Comuni con più di 15.000 abitanti, 109 in totale, è in programma domenica 24 giugno. L'unico capoluogo di regione chiamato al voto è Ancona. Gli altri 19 capoluoghi di provincia sono Brescia, Sondrio, Treviso, Vicenza, Imperia, Massa, Pisa, Siena, Teramo, Terni, Viterbo, Avellino, Barletta, Brindisi, Catania, Messina, Ragusa, Siracusa, Trapani.
Le amministrative di domani sono un test di estrema rilevanza, in particolare alla luce dalla nascita dell'alleanza di governo Lega-M5s. I due partiti, infatti, tornano a fronteggiarsi in moltissimi Comuni, anche se non mancano casi di «desistenza» tra grillini e leghisti, con il M5s che rinuncia a presentare il simbolo in alcune città, favorendo la vittoria della Lega, e con il Carroccio che ricambia il favore in altri Comuni, presentandosi da solo e penalizzando al primo turno i suoi alleati di centrodestra, Forza Italia e Fratelli d'Italia.
Altro elemento di grande interesse è il destino del Pd. Ben 15 dei 20 capoluoghi di provincia chiamati alle urne sono attualmente amministrati dal centrosinistra (Terni è commissariata, ma la precedente amministrazione era a guida Pd). Le eccezioni sono Messina (il sindaco uscente, Renato Accorinti, è espressione di una lista civica) e Ragusa (il sindaco uscente è Federico Piccitto, del M5s, che non si ricandida). Vengono da un periodo di commissariamento, dopo essere stati amministrati dal centrodestra, Trapani e Teramo e Brindisi. Per i Dem sono ore di vero e proprio panico: il numero dei Comuni persi sarà il segnale di quanto il declino del Pd sia da considerarsi irreversibile. Tremano anche Forza Italia e Fdi: è prevedibile un ulteriore boom della Lega, con la conseguente contrazione dei due altri partiti del centrodestra. Il caso più eclatante di patto di non belligeranza tra M5s e Lega è Vicenza, che non a caso fa rima con desistenza. Qui, il sindaco uscente, Achille Variati del Pd, dopo aver guidato l'amministrazione comunale per due mandati consecutivi non può ricandidarsi e cede il testimone del centrosinistra a Otello Dalla Rosa. Lo sfidante più accreditato è Francesco Rucco, candidato del centrodestra, ex An, ora vicino a Fratelli d'Italia e alla Lega.
I vicentini sulla scheda elettorale non troveranno il M5s: Luigi Di Maio non ha concesso il simbolo al candidato grillino in pectore, Francesco Di Bartolo, e così il candidato sovranista Rucco potrà contare anche sui voti dei pentastellati. Restando in Veneto, la situazione cambia a Treviso. Qui il sindaco uscente è Giovanni Manildo, del Pd, renziano della prima ora, che spera in un vero e proprio miracolo. La sua riconferma è infatti assai improbabile, pur essendosi Manildo «spogliato» del simbolo del Pd assumendo una connotazione civica. Il candidato del centrodestra, Mario Conte, pupillo del governatore Luca Zaia e di Giancarlo Gentilini, ha il vento in poppa. A Treviso il M5s candida a sindaco Domenico Losappio: gli elettori pentastellati sono comunque pronti a sostenere Conte nel caso di un ballottaggio.
Vicenza e Treviso, città di banche in crisi, così come Siena, altro Comune sul quale sono puntati i riflettori della politica nazionale. La città del Monte dei Paschi è un fortino di sinistra pronto a essere espugnato. Il sindaco uscente, Bruno Valentini del Pd, si ricandida. Lo sfidante più agguerrito è il candidato civico di centrodestra Luigi De Mossi. A Siena, il M5s non c'è: anche in questo caso Luigi Di Maio ha lasciato a bocca asciutta gli attivisti, non concedendo l'utilizzo del simbolo, e facendo sospettare al Pd una desistenza pentaleghista. Valentini, che teme che i voti grillini si riversino su De Mossi, ha proposto ai militanti cittadini del M5s un «contratto di governo» per tentare di raggranellare qualche consenso.
Se il Pd dovesse perdere la guida dell'amministrazione comunale di Siena, le conseguenze sul partito, anche a livello nazionale, sarebbero pesantissime. Idem dicasi per Pisa, altro fortino che se espugnato segnerebbe la fine del blocco delle Regioni rosse.
Tra i 103 Comuni della Lombardia chiamati alle urne, grande interesse suscita la partita di Brescia, puntino rosso circondato dalla marea leghista. Qui il sindaco uscente, Emilio Del Bono, del Pd, tenta la riconferma alla Loggia, ma deve guardarsi dall'assalto del centrodestra unito che candida una esponente di Forza Italia, Paola Vilardi, mentre il M5s candida Guido Ghidini. Del Bono ha messo in piedi una coalizione allargata anche a Leu, mentre la Vilardi ha condotto una campagna elettorale all'insegna delle parole d'ordine di Matteo Salvini: sicurezza e lotta agli immigrati clandestini, molti dei quali attivi nello spaccio di droga.
La città più popolosa chiamata alle urne domani è Catania, dove il sindaco uscente, Enzo Bianco, del centrosinistra, tenta la riconferma senza il simbolo del Pd. All'ombra dell'Etna il centrodestra corre unito, candidando a sindaco l'europarlamentare Salvo Pogliese, di Forza Italia. Il M5s schiera Giovanni Grasso. In Sicilia il centrodestra si presenta diviso in alcune città, a causa delle immancabili polemiche interne alle coalizioni che caratterizzano le elezioni comunali. È il caso ad esempio di Siracusa, dove la Lega corre da sola candidando a sindaco Francesco Midolo, che sfida l'ex parlamentare di An Fabio Granata, sostenuto dal movimento del governatore Nello Musumeci, e l'ex assessore regionale Ezechia Paolo Reale che conta sull'appoggio di Forza Italia e altre liste. Anche il centrosinistra si divide in tre: si candidano, tutti sostenuti da liste civiche, Fabio Moschella, Giovanni Randazzo e Francesco Italia. Silvia Russoniello è candidata per il M5s.
Ma a casa del signor Cirinnà Lega, Fdi e Fi sono divorziati
Fiumicino è diventata una città laboratorio per la politica nazionale. Alla foce del Tevere il centrodestra marcia diviso che più diviso non si può e non certo per colpire unito. Per dirla con le parole di uno dei candidati, il quarantasettenne sovranista Walter De Vecchis, neosenatore della Lega, «qui la vecchia politica sfida il vento del cambiamento».
«Nella destra ci sono faide pluriennali», riassume la candidata dei 5 stelle Fabiola Velli e, sebbene neghi di cercare un'alleanza con De Vecchis, non esclude future convergenze: «Come a livello nazionale parliamo di programmi e laddove troveremo punti in comune ne discuteremo al momento opportuno. In fondo il loro programma è più vicino al nostro che a quello di Forza Italia». Anche De Vecchis lascia la porta aperta: «Accordi con i 5 stelle? Vediamo che cosa succederà dopo il primo turno».
Il Comune del litorale romano, sino al 1993 periferia della capitale, ha più di 80.000 abitanti e un territorio esteso come quello di Genova (215 km quadrati circa), diviso in circa 15 frazioni. Una di queste è la spiaggia dei romani, Fregene, dove il viale principale è tappezzato con i faccioni dei candidati e i cartonati dei politici si mescolano con i turisti in pareo e bermuda.
A Fiumicino quasi ogni famiglia vanta un candidato al Consiglio comunale, visto che se ne contano più di 500 al seguito di cinque aspiranti sindaci (c'è anche Gaia Desiati di Casapound). Tutti in corsa per 24 poltrone.
La città è un concentrato di interessi: ci sono l'aeroporto internazionale, il nuovo porto, la società agricola Maccarese spa, il centro residenziale e commerciale di Parco Leonardo. Vi fanno affari milionari le più importanti famiglie imprenditoriali italiane, dai Benetton ai Caltagirone.
Sarà per questo che in vista delle elezioni sono passati da qui i big della politica nazionale: dal segretario leghista Matteo Salvini alla leader di Fdi Giorgia Meloni, dal capo politico grillino Luigi Di Maio al più barricadero compagno di Movimento Alessandro Di Battista. Solo Forza Italia non ha schierato il leader Silvio Berlusconi e ha preferito inviare il presidente del Consiglio europeo Antonio Tajani, che per la verità non sembra la figura più adatta a placare i sentimenti anti Ue che serpeggiano nel Paese.
La città negli ultimi cinque anni è stata governata dal sindaco Pd Esterino Montino, leggermente favorito in base ai sondaggi, ma quasi sicuramente costretto a un ballottaggio dall'esito imprevedibile. Montino, 70 anni, è un politico di lungo corso ed è stato anche senatore Ds e governatore pro tempore della Regione Lazio, ma durante il mandato da primo cittadino è stato oscurato dalla moglie, la senatrice dem Monica Cirinnà, la firmataria della legge sulle unioni civili. Per questo in paese qualcuno lo chiama Signor Cirinnà, ma lui non se la prende e taglia nastri a tutto spiano. In questi giorni ha inaugurato un asilo, una pista ciclabile sul Tevere e il cosiddetto geotubo, un salsiccione di tessuto riempito di sabbia da posizionare davanti alla spiaggia di Fregene per contrastarne l'erosione. «Se ha un'aiuola in giardino e la vuole inaugurare in questi giorni, Montino presenzierà volentieri», continua la Velli, 57 anni, laurea in Scienze politiche e una carriera alle spalle da manager della moda. Di Montino dice che è «l'incarnazione della mala politica degli anni passati» e aggiunge: «Adora le grandi opere che restano sempre incompiute». La grillina si augura che il nuovo ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, come lei esponente dei 5 stelle, faccia «smuovere» il processo romano sulle cosiddette «spese pazze» della Regione in cui è imputato Montino.
Ma i veri parenti serpenti, come detto, sono i due candidati del centrodestra. Il sessantenne ex ministro Mario Baccini, già eletto con Dc, Udc e Pdl, è uno dei pesi massimi scesi in campo a Fiumicino. La sua autocandidatura ha spaccato il fronte moderato: «Lega e Fratelli d'Italia volevano imporre un loro uomo, ma nel Lazio il primo partito è Forza Italia e il mio progetto ha preso il via due anni fa. Noi, come dimostrano le molte liste civiche che mi sostengono, siamo per il civismo politico e non per la demagogia. Berlusconi non è venuto a sostenermi? Per scegliere il sindaco non c'è bisogno di prendere ordini dalle segreterie di partito, ma di lavorare con associazioni e gruppi del territorio». Baccini si vanta di aver spaccato le coalizioni alla sua destra, ma anche alla sua sinistra: «Diversi esponenti di Fratelli d'Italia hanno creato una lista ad hoc per appoggiarmi e una civica pro Montino ha deciso di schierarsi con me». Il leghista De Vecchis, politico di formazione missina, gli risponde per le rime: «Noi avevamo provato a cercare una candidatura unitaria, ma Baccini ha imposto la sua. Purtroppo il suo nome, considerato il cambiamento che chiede la gente in questo momento, non andava bene, perché rappresenta la vecchia politica. Un'alleanza tra me e Baccini in vista del ballottaggio? La vedo molto difficile, noi siamo i veri antagonisti e il centro destra è spaccato».
Tutti i candidati sono contro il raddoppio dell'aeroporto e a favore di un mare più pulito, ma quando Baccini sente parlare delle acque cristalline promesse da Montino ride: «Che cosa vuole usare, il Viakal? Basterebbe far funzionare i depuratori». Ma l'ex ministro ne ha anche per la Velli: «Era la presidente della commissione per la trasparenza del Comune, ma non mi sembra che sia “trasparito" nulla. E noi stiamo raccogliendo le carte da presentare alla Corte dei conti sulle ultime spese elettoralistiche di Montino che hanno eroso le riserve di bilancio».
E sulle altre promesse del candidato del Pd alza le spalle: «Esterino è un bravo cantautore, se le canta e se le suona».
Giacomo Amadori
A Imperia è Scajola contro tutti
La storia, anche quella politica, è fatta di corsi e ricorsi. E di protagonisti che si riaffacciano sulla scena, magari in una veste completamente nuova. Come quella dell'ex più volte ministro Claudio Scajola il quale, per guadagnare per la terza volta la poltrona da sindaco della sua Imperia, ha deciso di sfidare il governatore della Liguria, Giovanni Toti, e quindi il suo ex partito, Forza Italia.
Fedelissimo di Silvio Berlusconi, Scajola ha fatto parte della famiglia azzurra dal 1995 al 2015. Nelle file di Forza Italia è stato ministro dello Sviluppo economico, delle Attività produttive, dell'Attuazione del programma di governo e dell'Interno. Ma quando ha annunciato l'intenzione di correre per le amministrative con il centrodestra, si è trovato di fronte il muro di Toti e la sua decisione irrevocabile: la candidatura della coalizione, formata da Forza Italia, Fratelli d'Italia e Lega, è andata a un uomo gradito all'attuale presidente, l'architetto Luca Lantieri.
È cominciata così la piccola «guerra civile» all'interno del centrodestra locale, dalla quale Scajola è uscito con la creazione della lista Imperia insieme, appoggiata da Popolo della Famiglia, Obiettivo Imperia, Area Aperta. Decisione che ha definitivamente rotto i rapporti con il governatore e creato non poche tensioni e malumori. Ma l'ex ministro, già sindaco della città ligure fra il 1982 e il 1983 e poi ancora fra il 1990 e il 1995, non si è tirato indietro. Sua intenzione è dimostrare di essere ancora un uomo forte del centrodestra: «Credo sia giusto che mi rituffi in questa comunità per far partire la rinascita della città, ma quando avrò 75 anni, dirò ai miei familiari che mi occuperò dei miei hobby».
Nella città ligure il centrosinistra non ha ricandidato il sindaco uscente Carlo Capacci, puntando sull'attuale vicesindaco Guido Abbo. Mentre i 5 stelle puntano sull'artista Maria Nella Ponte.
Come finirà? Gli occhi sono soprattutto puntati sulla battaglia interna al centrodestra, anche perché tradizionalmente Imperia ha quasi sempre preferito quella sponda politica: alle elezioni del 4 marzo ha preso il 38,4% contro il quasi 30 dei grillini e il 20,66 dei democratici.
In attesa di conoscere il responso delle urne, la guerriglia a distanza tra Scajola e Toti prosegue. Il governatore ha più volte ribadito la necessità di esprimere un solo candidato per il centrodestra. L'ex ministro ha ribattuto parola su parola, ricordando che non spetta al presidente della Regione decidere le candidature. La sfida politica è poi diventata anche familiare, visto che fra i sostenitori della scelta di Toti c'è anche Marco Scajola, assessore regionale che non appoggia lo zio Claudio. «Se si fosse candidato mio nipote mi sarei ritirato. Non c'è stato lo stesso atteggiamento dall'altra parte. Non avrei mai pensato che Marco potesse chiedere i voti per un altro», il commento amaro dell'ex ministro di Berlusconi.
Alfredo Arduino
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La coalizione, divisa sul governo, si salda per le amministrative. Rischiano i feticci rossi Siena e Pisa. Dem in bilico pure a Brescia.A Fiumicino il candidato leghista si scontrerà con l'ex ministro dc Mario Baccini per battere il marito della «mamma» delle unioni civili. E i grillini saranno decisivi al ballottaggio.Claudio Scajola va da solo nella propria città. Sfida aperta al governatore ligure Giovanni Toti, il quale ha imposto un nome unico a destra. Pure il nipote lo ha mollato.Lo speciale contiene tre articoli.Al voto, al voto! Neanche il tempo di digerire i 90 giorni di crisi politica che hanno portato alla nascita del governo guidato da Giuseppe Conte, ed ecco che quasi 7 milioni di italiani (per la precisione 6.749.654, il 13,9% dell'elettorato nazionale) sono chiamati alle urne per eleggere sindaci e consiglieri di 761 Comuni. Si vota domani, domenica 10 giugno, dalle 7 alle 23; l'eventuale turno di ballottaggio, per i Comuni con più di 15.000 abitanti, 109 in totale, è in programma domenica 24 giugno. L'unico capoluogo di regione chiamato al voto è Ancona. Gli altri 19 capoluoghi di provincia sono Brescia, Sondrio, Treviso, Vicenza, Imperia, Massa, Pisa, Siena, Teramo, Terni, Viterbo, Avellino, Barletta, Brindisi, Catania, Messina, Ragusa, Siracusa, Trapani.Le amministrative di domani sono un test di estrema rilevanza, in particolare alla luce dalla nascita dell'alleanza di governo Lega-M5s. I due partiti, infatti, tornano a fronteggiarsi in moltissimi Comuni, anche se non mancano casi di «desistenza» tra grillini e leghisti, con il M5s che rinuncia a presentare il simbolo in alcune città, favorendo la vittoria della Lega, e con il Carroccio che ricambia il favore in altri Comuni, presentandosi da solo e penalizzando al primo turno i suoi alleati di centrodestra, Forza Italia e Fratelli d'Italia.Altro elemento di grande interesse è il destino del Pd. Ben 15 dei 20 capoluoghi di provincia chiamati alle urne sono attualmente amministrati dal centrosinistra (Terni è commissariata, ma la precedente amministrazione era a guida Pd). Le eccezioni sono Messina (il sindaco uscente, Renato Accorinti, è espressione di una lista civica) e Ragusa (il sindaco uscente è Federico Piccitto, del M5s, che non si ricandida). Vengono da un periodo di commissariamento, dopo essere stati amministrati dal centrodestra, Trapani e Teramo e Brindisi. Per i Dem sono ore di vero e proprio panico: il numero dei Comuni persi sarà il segnale di quanto il declino del Pd sia da considerarsi irreversibile. Tremano anche Forza Italia e Fdi: è prevedibile un ulteriore boom della Lega, con la conseguente contrazione dei due altri partiti del centrodestra. Il caso più eclatante di patto di non belligeranza tra M5s e Lega è Vicenza, che non a caso fa rima con desistenza. Qui, il sindaco uscente, Achille Variati del Pd, dopo aver guidato l'amministrazione comunale per due mandati consecutivi non può ricandidarsi e cede il testimone del centrosinistra a Otello Dalla Rosa. Lo sfidante più accreditato è Francesco Rucco, candidato del centrodestra, ex An, ora vicino a Fratelli d'Italia e alla Lega. I vicentini sulla scheda elettorale non troveranno il M5s: Luigi Di Maio non ha concesso il simbolo al candidato grillino in pectore, Francesco Di Bartolo, e così il candidato sovranista Rucco potrà contare anche sui voti dei pentastellati. Restando in Veneto, la situazione cambia a Treviso. Qui il sindaco uscente è Giovanni Manildo, del Pd, renziano della prima ora, che spera in un vero e proprio miracolo. La sua riconferma è infatti assai improbabile, pur essendosi Manildo «spogliato» del simbolo del Pd assumendo una connotazione civica. Il candidato del centrodestra, Mario Conte, pupillo del governatore Luca Zaia e di Giancarlo Gentilini, ha il vento in poppa. A Treviso il M5s candida a sindaco Domenico Losappio: gli elettori pentastellati sono comunque pronti a sostenere Conte nel caso di un ballottaggio. Vicenza e Treviso, città di banche in crisi, così come Siena, altro Comune sul quale sono puntati i riflettori della politica nazionale. La città del Monte dei Paschi è un fortino di sinistra pronto a essere espugnato. Il sindaco uscente, Bruno Valentini del Pd, si ricandida. Lo sfidante più agguerrito è il candidato civico di centrodestra Luigi De Mossi. A Siena, il M5s non c'è: anche in questo caso Luigi Di Maio ha lasciato a bocca asciutta gli attivisti, non concedendo l'utilizzo del simbolo, e facendo sospettare al Pd una desistenza pentaleghista. Valentini, che teme che i voti grillini si riversino su De Mossi, ha proposto ai militanti cittadini del M5s un «contratto di governo» per tentare di raggranellare qualche consenso. Se il Pd dovesse perdere la guida dell'amministrazione comunale di Siena, le conseguenze sul partito, anche a livello nazionale, sarebbero pesantissime. Idem dicasi per Pisa, altro fortino che se espugnato segnerebbe la fine del blocco delle Regioni rosse. Tra i 103 Comuni della Lombardia chiamati alle urne, grande interesse suscita la partita di Brescia, puntino rosso circondato dalla marea leghista. Qui il sindaco uscente, Emilio Del Bono, del Pd, tenta la riconferma alla Loggia, ma deve guardarsi dall'assalto del centrodestra unito che candida una esponente di Forza Italia, Paola Vilardi, mentre il M5s candida Guido Ghidini. Del Bono ha messo in piedi una coalizione allargata anche a Leu, mentre la Vilardi ha condotto una campagna elettorale all'insegna delle parole d'ordine di Matteo Salvini: sicurezza e lotta agli immigrati clandestini, molti dei quali attivi nello spaccio di droga.La città più popolosa chiamata alle urne domani è Catania, dove il sindaco uscente, Enzo Bianco, del centrosinistra, tenta la riconferma senza il simbolo del Pd. All'ombra dell'Etna il centrodestra corre unito, candidando a sindaco l'europarlamentare Salvo Pogliese, di Forza Italia. Il M5s schiera Giovanni Grasso. In Sicilia il centrodestra si presenta diviso in alcune città, a causa delle immancabili polemiche interne alle coalizioni che caratterizzano le elezioni comunali. È il caso ad esempio di Siracusa, dove la Lega corre da sola candidando a sindaco Francesco Midolo, che sfida l'ex parlamentare di An Fabio Granata, sostenuto dal movimento del governatore Nello Musumeci, e l'ex assessore regionale Ezechia Paolo Reale che conta sull'appoggio di Forza Italia e altre liste. Anche il centrosinistra si divide in tre: si candidano, tutti sostenuti da liste civiche, Fabio Moschella, Giovanni Randazzo e Francesco Italia. 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Per dirla con le parole di uno dei candidati, il quarantasettenne sovranista Walter De Vecchis, neosenatore della Lega, «qui la vecchia politica sfida il vento del cambiamento». «Nella destra ci sono faide pluriennali», riassume la candidata dei 5 stelle Fabiola Velli e, sebbene neghi di cercare un'alleanza con De Vecchis, non esclude future convergenze: «Come a livello nazionale parliamo di programmi e laddove troveremo punti in comune ne discuteremo al momento opportuno. In fondo il loro programma è più vicino al nostro che a quello di Forza Italia». Anche De Vecchis lascia la porta aperta: «Accordi con i 5 stelle? Vediamo che cosa succederà dopo il primo turno». Il Comune del litorale romano, sino al 1993 periferia della capitale, ha più di 80.000 abitanti e un territorio esteso come quello di Genova (215 km quadrati circa), diviso in circa 15 frazioni. Una di queste è la spiaggia dei romani, Fregene, dove il viale principale è tappezzato con i faccioni dei candidati e i cartonati dei politici si mescolano con i turisti in pareo e bermuda. A Fiumicino quasi ogni famiglia vanta un candidato al Consiglio comunale, visto che se ne contano più di 500 al seguito di cinque aspiranti sindaci (c'è anche Gaia Desiati di Casapound). Tutti in corsa per 24 poltrone. La città è un concentrato di interessi: ci sono l'aeroporto internazionale, il nuovo porto, la società agricola Maccarese spa, il centro residenziale e commerciale di Parco Leonardo. Vi fanno affari milionari le più importanti famiglie imprenditoriali italiane, dai Benetton ai Caltagirone. Sarà per questo che in vista delle elezioni sono passati da qui i big della politica nazionale: dal segretario leghista Matteo Salvini alla leader di Fdi Giorgia Meloni, dal capo politico grillino Luigi Di Maio al più barricadero compagno di Movimento Alessandro Di Battista. Solo Forza Italia non ha schierato il leader Silvio Berlusconi e ha preferito inviare il presidente del Consiglio europeo Antonio Tajani, che per la verità non sembra la figura più adatta a placare i sentimenti anti Ue che serpeggiano nel Paese. La città negli ultimi cinque anni è stata governata dal sindaco Pd Esterino Montino, leggermente favorito in base ai sondaggi, ma quasi sicuramente costretto a un ballottaggio dall'esito imprevedibile. Montino, 70 anni, è un politico di lungo corso ed è stato anche senatore Ds e governatore pro tempore della Regione Lazio, ma durante il mandato da primo cittadino è stato oscurato dalla moglie, la senatrice dem Monica Cirinnà, la firmataria della legge sulle unioni civili. Per questo in paese qualcuno lo chiama Signor Cirinnà, ma lui non se la prende e taglia nastri a tutto spiano. In questi giorni ha inaugurato un asilo, una pista ciclabile sul Tevere e il cosiddetto geotubo, un salsiccione di tessuto riempito di sabbia da posizionare davanti alla spiaggia di Fregene per contrastarne l'erosione. «Se ha un'aiuola in giardino e la vuole inaugurare in questi giorni, Montino presenzierà volentieri», continua la Velli, 57 anni, laurea in Scienze politiche e una carriera alle spalle da manager della moda. Di Montino dice che è «l'incarnazione della mala politica degli anni passati» e aggiunge: «Adora le grandi opere che restano sempre incompiute». La grillina si augura che il nuovo ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, come lei esponente dei 5 stelle, faccia «smuovere» il processo romano sulle cosiddette «spese pazze» della Regione in cui è imputato Montino. Ma i veri parenti serpenti, come detto, sono i due candidati del centrodestra. Il sessantenne ex ministro Mario Baccini, già eletto con Dc, Udc e Pdl, è uno dei pesi massimi scesi in campo a Fiumicino. La sua autocandidatura ha spaccato il fronte moderato: «Lega e Fratelli d'Italia volevano imporre un loro uomo, ma nel Lazio il primo partito è Forza Italia e il mio progetto ha preso il via due anni fa. Noi, come dimostrano le molte liste civiche che mi sostengono, siamo per il civismo politico e non per la demagogia. Berlusconi non è venuto a sostenermi? Per scegliere il sindaco non c'è bisogno di prendere ordini dalle segreterie di partito, ma di lavorare con associazioni e gruppi del territorio». Baccini si vanta di aver spaccato le coalizioni alla sua destra, ma anche alla sua sinistra: «Diversi esponenti di Fratelli d'Italia hanno creato una lista ad hoc per appoggiarmi e una civica pro Montino ha deciso di schierarsi con me». Il leghista De Vecchis, politico di formazione missina, gli risponde per le rime: «Noi avevamo provato a cercare una candidatura unitaria, ma Baccini ha imposto la sua. Purtroppo il suo nome, considerato il cambiamento che chiede la gente in questo momento, non andava bene, perché rappresenta la vecchia politica. Un'alleanza tra me e Baccini in vista del ballottaggio? La vedo molto difficile, noi siamo i veri antagonisti e il centro destra è spaccato». Tutti i candidati sono contro il raddoppio dell'aeroporto e a favore di un mare più pulito, ma quando Baccini sente parlare delle acque cristalline promesse da Montino ride: «Che cosa vuole usare, il Viakal? Basterebbe far funzionare i depuratori». Ma l'ex ministro ne ha anche per la Velli: «Era la presidente della commissione per la trasparenza del Comune, ma non mi sembra che sia “trasparito" nulla. E noi stiamo raccogliendo le carte da presentare alla Corte dei conti sulle ultime spese elettoralistiche di Montino che hanno eroso le riserve di bilancio». E sulle altre promesse del candidato del Pd alza le spalle: «Esterino è un bravo cantautore, se le canta e se le suona». Giacomo Amadori <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/centrodestra-unito-pronto-a-demolire-le-ultime-roccaforti-del-pd-allo-sbando-2576358190.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="a-imperia-e-scajola-contro-tutti" data-post-id="2576358190" data-published-at="1765402390" data-use-pagination="False"> A Imperia è Scajola contro tutti La storia, anche quella politica, è fatta di corsi e ricorsi. E di protagonisti che si riaffacciano sulla scena, magari in una veste completamente nuova. Come quella dell'ex più volte ministro Claudio Scajola il quale, per guadagnare per la terza volta la poltrona da sindaco della sua Imperia, ha deciso di sfidare il governatore della Liguria, Giovanni Toti, e quindi il suo ex partito, Forza Italia. Fedelissimo di Silvio Berlusconi, Scajola ha fatto parte della famiglia azzurra dal 1995 al 2015. Nelle file di Forza Italia è stato ministro dello Sviluppo economico, delle Attività produttive, dell'Attuazione del programma di governo e dell'Interno. Ma quando ha annunciato l'intenzione di correre per le amministrative con il centrodestra, si è trovato di fronte il muro di Toti e la sua decisione irrevocabile: la candidatura della coalizione, formata da Forza Italia, Fratelli d'Italia e Lega, è andata a un uomo gradito all'attuale presidente, l'architetto Luca Lantieri. È cominciata così la piccola «guerra civile» all'interno del centrodestra locale, dalla quale Scajola è uscito con la creazione della lista Imperia insieme, appoggiata da Popolo della Famiglia, Obiettivo Imperia, Area Aperta. Decisione che ha definitivamente rotto i rapporti con il governatore e creato non poche tensioni e malumori. Ma l'ex ministro, già sindaco della città ligure fra il 1982 e il 1983 e poi ancora fra il 1990 e il 1995, non si è tirato indietro. Sua intenzione è dimostrare di essere ancora un uomo forte del centrodestra: «Credo sia giusto che mi rituffi in questa comunità per far partire la rinascita della città, ma quando avrò 75 anni, dirò ai miei familiari che mi occuperò dei miei hobby». Nella città ligure il centrosinistra non ha ricandidato il sindaco uscente Carlo Capacci, puntando sull'attuale vicesindaco Guido Abbo. Mentre i 5 stelle puntano sull'artista Maria Nella Ponte. Come finirà? Gli occhi sono soprattutto puntati sulla battaglia interna al centrodestra, anche perché tradizionalmente Imperia ha quasi sempre preferito quella sponda politica: alle elezioni del 4 marzo ha preso il 38,4% contro il quasi 30 dei grillini e il 20,66 dei democratici. In attesa di conoscere il responso delle urne, la guerriglia a distanza tra Scajola e Toti prosegue. Il governatore ha più volte ribadito la necessità di esprimere un solo candidato per il centrodestra. L'ex ministro ha ribattuto parola su parola, ricordando che non spetta al presidente della Regione decidere le candidature. La sfida politica è poi diventata anche familiare, visto che fra i sostenitori della scelta di Toti c'è anche Marco Scajola, assessore regionale che non appoggia lo zio Claudio. «Se si fosse candidato mio nipote mi sarei ritirato. Non c'è stato lo stesso atteggiamento dall'altra parte. Non avrei mai pensato che Marco potesse chiedere i voti per un altro», il commento amaro dell'ex ministro di Berlusconi.Alfredo Arduino
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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