2019-06-21
C’è una trattativa segreta tra l’Iran e gli Stati Uniti. Ma i pasdaran non ci stanno
Teheran annuncia: «Abbattuto un drone americano». E la tensione sale ancora Dondald Trump e Hassan Rouhani, tuttavia, continuano a parlarsi con la mediazione del Giappone.La successione a Theresa May per la guida del Partito conservatore britannico entra nel vivo. Ieri i parlamentari hanno eliminato Sajid Javid e Michael Gove, ora gli iscritti dovranno scegliere tra l'attuale ministro degli Esteri e il suo eccentrico predecessore.Il leader cinese incontra l'autocrate nordcoreano a Pyongyang Il primo cerca un alleato contro la guerra degli Usa a Huawei, il secondo vuole mostrare di non essere isolato.Lo speciale contiene tre articoliIl comandante delle Guardie della rivoluzione islamica di Teheran, il generale Hossein Salami, ha annunciato ieri alla televisione di Stato d'aver abbattuto un drone americano nel Sud del Paese, vicino allo stretto di Hormuz. Secondo Salami l'abbattimento è un chiaro messaggio all'America e prova che Teheran, nonostante non lo desideri, è pronta alla guerra. L'evento è stato confermato dal Pentagono il quale però ha voluto precisare che il velivolo si trovava a sorvolare legalmente lo spazio aereo internazionale. Si tratta del secondo drone ufficialmente perso dagli Stati Uniti in terra iraniana da quando nel 2011 un RQ-170 era stato catturato dall'esercito locale sulla base di attacco cibernetico ed in seguito vivisezionato in cooperazione con gli esperti cinesi. Dopo l'attacco alle petroliere nel golfo dell'Oman avvenuto la scorsa settimana, l'incidente di ieri non fa altro che aumentare la tensione tra l'Iran e gli Stati Uniti d'America ma dimostra anche che vi è in atto una chiara strategia della tensione da parte di alcune forze iraniane che avrebbero interesse a provocare uno scontro internazionale per motivi politici esclusivamente interni. A nessuno certamente sfugge il fatto che la strategia di Donald Trump nei confronti di Teheran consista nel costante accerchiamento e nel suo isolamento internazionale, tanto in campo economico quanto in quello diplomatico. Tuttavia, nonostante lo scenario sia effervescente, il presidente americano mantiene aperto un canale di comunicazione riservata con il presidente iraniano Hassan Rouhani attraverso il governo della Svizzera e i due si parlano per interposta persona grazie ai buoni uffici del premier giapponese Shinzo Abe. Dietro alla facciata guerrafondaia, quindi, il dialogo esiste e i dialoganti sanno bene che le vicende iraniane sono intrinsecamente connesse ai destini di tutto il Medio Oriente. Rouhani comprende d'avere un'economia sofferente a causa delle pesanti sanzioni americane e soprattutto è conscio del fatto che il suo popolo non uscirebbe vincitore da uno scontro diretto con Washington. Egli è un politico moderato che a marzo ha confermato come ministro degli Esteri un altro moderato, Mohamad Javaf Zarif, ovvero l'uomo che ha negoziato l'accordo sul nucleare e che continua, nei limiti del possibile dopo che gli Stati Uniti l'hanno ricusato, a rispettarlo. Sempre a Rouhani si devono l'approvazione poche settimane addietro della nuova legge antiriciclaggio, volta a smantellare le possibilità di finanziamento del terrorismo, voluta fortemente dall'Osce in modo da far rimanere l'Iran nei canali bancari internazionali nonostante le forti limitazioni imposte dagli Stati Uniti e la proposta di legge che vieterebbe ai vecchi politici, tendenzialmente legati alle ali conservatrici facenti capo alla Guida Suprema della rivoluzione l'ayatollah Ali Khamenei, d'essere rieletti per più di tre mandati. Trump e Rouhani si muovono sul filo del rasoio, consci di dover trovare una soluzione accettabile per entrambi evitando di cadere nella trappola del conflitto che invece paiono voler far scattare i pasdaran ovvero l'esercito, cioè le fazioni più conservatrici della politica iraniana che in vista delle prossime elezioni parlamentari di febbraio 2020 fomentano lo scontro con la fazione moderata impersonata proprio dal presidente Rouhani e per ora tacitamente, indirettamente, sostenuta nelle sue scelte da Trump.Lo scontro tra le varie correnti politiche in Iran si è palesato lo scorso marzo, quando il ministro degli esteri Zarif ha dato le dimissioni per protestare contro l'eccessiva libertà di azione in politica estera, nello specifico contro l'aperto, sostegno al presidente siriano Bashar Al Assad mostrato da Khamenei e dal suo prediletto Salami. Il fatto che Rouhani abbia immediatamente rigettato le dimissioni ha svelato la frattura esistente tra le varie istituzioni costituzionali del Paese. Per tali ragioni uno scontro diretto tra Usa e Iran al momento pare altamente inverosimile. Trump inasprendo la posizioni nei confronti dell'Iran mira certamente ad un cambio di regime, ma spera che a crollare, per sommossa interna, siano gli islamisti radicali non certo Rouhani. Inoltre, qualora uno scontro dovesse divenire inevitabile, a portarlo avanti non sarà certamente Washington, ma verrà rilasciata delega all'Arabia Saudita che al momento però non è ancora pronta a tale eventualità. Il riarmo da 110 miliardi di dollari, ben pianificato con gli Usa, è ancora in corso, ma soprattutto il vitale sistema di difesa aerea Thaad prodotto dalla Martin Lockheed necessita di alcuni mesi per essere pienamente funzionante. Una volta che la piattaforma sarà attiva essa darà modo a Riad d'essere al riparo da eventuali attacchi balistici portati innanzi dall'Iran ovvero di poter gestire un conflitto su diversi fronti qualora le tensioni in Yemen dovessero, parallelamente, rinvigorirsi. Il fatto che dopo l'attacco alle petroliere della settimana scorsa, tra cui vi era non a caso una battente bandiera giapponese, dato che proprio Abe era in quelle ore in missisone presso Rouhani per conto della Casa Bianca, Trump abbia tenuto toni sostanzialmente conciliati nei confronti del governo di Teheran e che questo abbia come segno di buona volontà rilasciato un prigioniero libanese con passaporto americano, denota a favore della tesi che il dialogo è intenso e che nonostante gli sforzi di Salami per ora la trappola della guerra non scatterà.Laris Gaiser<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ce-una-trattativa-segreta-tra-liran-e-gli-stati-uniti-ma-i-pasdaran-non-ci-stanno-2638932997.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="hunt-sfidera-johnson-per-la-leadership-tory" data-post-id="2638932997" data-published-at="1758117188" data-use-pagination="False"> Hunt sfiderà Johnson per la leadership tory Ieri sera Boris Johnson ha finalmente conosciuto il nome del suo sfidante alla leadership del Partito conservatore e, di conseguenza, alla guida del Regno Unito. Sarà Jeremy Hunt a contendere all'ex sindaco di Londra la successione a Theresa May in una sfida tra gli ultimi due ministri degli Esteri. Infatti, Hunt, 52 anni, ha sostituto Johnson, 55, dopo le dimissioni di quest'ultimo dal Foreign office a luglio dell'anno scorso. Ieri si sono tenute le ultime due votazioni di una leadership contest iniziata giovedì scorso con dieci candidati. La prima, iniziata con quattro politici in corsa e conclusasi all'ora di pranzo, ha visto l'uscita di scena di Sajid Javid, attuale ministro dell'Interno. È in questa tornata che Johnson ha raggiunto la soglia dei 157 voti, ossia la metà più uno dei 313 deputati chiamati a esprimere la loro preferenza. Dietro di lui Michael Gove con 61 voti, Jeremy Hunt con 59 e Sajid Javid con 34. Il secondo turno di ieri, invece, tenutosi nel pomeriggio, ha sancito l'ultima eliminazione, quella di Michael Gove. L'attuale ministro dell'Ambiente è l'uomo che nella campagna per la Brexit del 2016 fu il braccio destro di Boris Johnson prima di tradirlo impedendogli di succedere a David Cameron, dimessosi dopo la sconfitta del Remain al referendum. Nell'ultima votazione Gove ha raccolto 75 preferenze, due in meno di Hunt (160, invece, cioè più della somma degli altri due, per Johnson). Nei prossimi giorni il Partito conservatore invierà le schede ai suoi 160.000 iscritti e i due candidati inizieranno il tour per il Paese. Le procedure di voto dureranno circa due settimane e dal 22 luglio in poi ogni giorno sarà buono per l'annuncio del successore di Theresa May, dimessasi esattamente due settimane fa dopo il fallimento delle sue trattative per l'uscita dell'Unione europea. Boris Johnson è il superfavorito e ha già fatto trapelare la sua intenzione di escludere dall'esecutivo i remainer. È convinto, dopo l'uscita dalla corsa alla leadership di Rory Stewart, l'unico candidato (moderatamente) europeista, che soltanto escludendo i pro Ue si possa compattare il governo, evitando gli scontri che hanno contraddistinto l'era May, per raggiungere un accordo sulla Brexit che convinca poi anche l'Unione europea e il Parlamento di Londra. Secondo Johnson c'è spazio per rinegoziare l'accordo della May. Punta a rimandare le trattative sul confine irlandese nel periodo di transizione, cioè quando Londra e Bruxelles discuteranno le loro future relazioni. Ma i 27 Paesi Ue hanno ripetuto più volte che questo non sarà mai possibile, che la questione irlandese va risolta prima. E così, visto che lui si dice sicuro che non si possa rinviare la Brexit oltre il 31 ottobre, la strada del «no deal», lo scenario dell'uscita senza accordo che spaventa entrambe le sponde della Manica (soprattutto la Germania), sembra la preferita da Boris Johnson. Sigillato il governo silurando gli europeisti, l'ex capopopolo della campagna Vote Leave del 2016, qualora diventasse primo ministro, potrebbe pensare quindi a garantirsi una Camera dei Comuni più favorevole a lui e alla sua idea di Brexit attraverso elezioni generali. Certo di poter recuperare i consensi persi a destra a favore del nuovo Brexit party di Nigel Farage, Johnson potrebbe tentare la carta del voto anticipato per rafforzare la maggioranza del Partito conservatore. Magari anche convincendo qualche deputato remainer a non ricandidarsi per lasciare il proprio seggio a un leaver. Tuttavia chiunque sia il premier, che entrerà a Downing Street a fine luglio nella settimana in cui Westminster chiude per ferie, difficilmente avrà tempo per fare tutto - cioè nuove elezioni generali, negoziati con l'Unione europea e approvazione dell'accordo da parte della Camera dei Comuni - senza dover chiedere un nuovo rinvio della Brexit. Il che conferma come l'ipotesi numero uno di Johnson sia il «no deal». In queste settimane si parla tanto, quasi soltanto, di Johnson e poco dei suoi rivali. Vuoi perché quasi tutti, soprattutto sul tema centrale cioè la Brexit, ne sono sbiadite copie: l'unica differenza tra Boris e il duo Hunt-Gove è che questi ultimi non hanno mai escluso un nuovo rinvio della Brexit, originariamente prevista per il 29 marzo scorso. Vuoi perché l'ex sindaco di Londra è riuscito a radunare attorno a sé molte personalità influenti del mondo conservatore, operazione in cui fallì tre anni fa, come il potente ex ministro e capogruppo Gavin Williamson, il deputato euroscettico Steve Baker e perfino remainer di primo piano come i ministri Lucy Frazer. Ed è di ieri l'ultimo endorsement pesante, quello di George Osborne, ex cancelliere di Cameron, uomo forte della campagna Remain e oggi direttore del lettissimo free-press della capitale Evening Standard, convinto che Johnson sia l'unico in grado di ricompattare un partito spaccato dall'era May e dalla Brexit. Due settimane di campagna elettorale per il Paese e capiremo se questa volta chi entra papa esce papa e non cardinale. Intanto, gli allibratori sono sicuri: sarà Boris Johnson il successore di Theresa May. Gabriele Carrer <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ce-una-trattativa-segreta-tra-liran-e-gli-stati-uniti-ma-i-pasdaran-non-ci-stanno-2638932997.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="kim-riceve-la-visita-di-xi-jinping-e-lancia-un-segnale-a-washington" data-post-id="2638932997" data-published-at="1758117188" data-use-pagination="False"> Kim riceve la visita di Xi Jinping e lancia un segnale a Washington Il presidente cinese, Xi Jinping, è giunto ieri a Pyongyang per una visita di Stato della durata di due giorni. Si tratta della prima volta che un capo di Stato cinese si reca in Corea del Nord, dai tempi del viaggio effettuato nel 2005 dall'allora presidente Hu Jintao. L'evento ha luogo a pochi giorni dal G20 che si terrà a Osaka, in Giappone, dove Xi Jinping incontrerà il presidente americano Donald Trump. Una coincidenza non certo casuale che potrebbe avere svariate spiegazioni. Secondo alcuni, l'obiettivo di Kim Jong-un sarebbe quello di ricorrere al presidente cinese come mediatore nelle trattative sulla denuclearizzazione con gli Stati Uniti. Trattative che, dal vertice di Hanoi del febbraio scorso, risultano ancora in stallo. È questa, per esempio, l'interpretazione avanzata da Thae Yong-ho: ex diplomatico nordcoreano che ha disertato, nel 2016, in Corea del Sud. Secondo lui, il leader nordcoreano potrebbe essere pronto ad aprire alle ispezioni e ad abbandonare alcuni siti nucleari, così come era stato chiesto dalla Casa Bianca. E, in questo senso, Xi Jinping dovrebbe proporsi come paciere, portando a Donald Trump una tale offerta proprio in occasione del G20 nipponico. Insomma, secondo questa prospettiva, il leader nordcoreano risulterebbe particolarmente desideroso di riaprire i negoziati con Washington. Una eventualità che, per quanto non del tutto escludibile, sembra non tener conto della strategia più complessiva messa in campo da Kim negli ultimi mesi. Dal fallito vertice di Hanoi, i rapporti tra Washington e Pyongyang si sono non poco raffreddati. Tanto che, alcuni mesi fa, la leadership nordcoreana accusò alcuni pezzi dell'amministrazione americana di remare deliberatamente contro la distensione auspicata da Trump. In particolare, sul banco degli imputati, finì il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, tacciato di essere un falco, propenso a boicottare il disgelo. Da allora, Kim Jong-un non è rimasto con le mani in mano ma ha – anzi – cercato di muoversi proprio per aumentare la pressione geopolitica sulla Casa Bianca. Lo scorso aprile, il leader nordcoreano si è per esempio recato a Vladivostok, dove ha incontrato il presidente russo, Vladimir Putin. Un modo con cui Kim ha mirato, da una parte, a rafforzare i propri legami economici con Mosca e, dall'altra, a dimostrare a Trump di non essere isolato sul piano internazionale. Una logica che, in buona sostanza, sottende all'attuale incontro con Xi Jinping. D'altronde, i due presidenti mostrano – sotto questo aspetto – una convergenza di interessi. Una convergenza che nasce da un contesto ben preciso: la guerra commerciale che attualmente divide Washington e Pechino. Kim Jong-un può far leva sulla rivalità della Cina con gli Stati Uniti, per ribadire la sua volontà di mostrarsi del tutto autonomo da Trump. Del resto, al di là di alcune posizioni ufficiali, la Repubblica Popolare ha sempre intrattenuto un rapporto geopolitico e commerciale molto stretto con Pyongyang: anche negli ultimissimi anni. Pechino non ha infatti troppo interesse ad abbandonare il suo vecchio alleato. E questo per una serie di ragioni: non solo la Cina considera Pyongyang ancora oggi un fondamentale avamposto geopolitico per contenere la presenza americana nella regione asiatica. Ma la Repubblica Popolare teme che un eventuale collasso del regime nordcoreano possa esporre la Cina a indesiderati flussi migratori. Dall'altra parte, Pechino sta cercando di creare un arco di alleanze che le consentano di reggere il peso dello scontro tariffario e tecnologico con gli Stati Uniti. Non dimentichiamo che, a inizio giugno, Xi Jinping si sia recato in Russia per incontrare Vladimir Putin, definendo significativamente il presidente russo il suo «migliore amico». Nell'occasione, non solo i due hanno rafforzato la cooperazione commerciale ma – in particolare – Huawei ha firmato un'intesa con la società di telecomunicazioni russa Mts per lo sviluppo della tecnologia 5G in Russia: uno schiaffo in piena regola al bando recentemente emesso dalla Casa Bianca contro il colosso cinese. È dunque chiaro che, al di là dei legami tradizionali, Xi Jinping stia cercando di creare un vasto fronte potenzialmente ostile agli Stati Uniti, che gli consenta di disporre di un maggiore potere contrattuale nelle trattative commerciali con Trump. Sotto questo aspetto, non è quindi affatto escludibile che il dossier dei dazi possa presto collegarsi alla questione della denuclearizzazione della penisola coreana. E proprio il G20 di Osaka potrebbe rappresentare un'occasione in questo senso. Del resto, non dimentichiamo che la Cina sia stata una delle potenze che (insieme a Stati Uniti, Russia, Giappone, Corea del Nord e Corea del Sud) abbiano partecipato, tra il 2003 e il 2007, ai colloqui a sei: trattative che avevano l'obiettivo (poi fallito) di arrivare alla denuclearizzazione della penisola coreana. In aprile, Putin si era detto dubbioso sulla ripresa di quel modello, pur non chiudendo del tutto la porta a una tale strada. Trump, dal canto suo, dovrà cercare di capire presto se proseguire sulla strada della distensione o tornare invece alla linea dura. Stefano Graziosi